Quella che segue è l’incredibile sequenza fotografica che mostra la trasformazione della palazzina che segnava l’ingresso del Lager di Gusen, dove morirono decine di migliaia di persone, in una fastosa villa privata.

Questa è forse la prima immagine esistente della palazzina, e risale probabilmente alla primavera 1943. In questa costruzione c’era l’ufficio del comandante  e aveva sede l’amministrazione del campo. Nelle sue cantine c’era il “Bunker”, la prigione del Lager. Ogni giorno, con crudele sistematicità, prigionieri di ogni nazionalità erano torturati e uccisi in quelle celle. L’ampio portone costituiva l’ingresso principale del campo: di lì sono transitati tutti i deportati di Gusen.

Una fotografia del primo dopoguerra. L’ingresso del campo è ancora sostanzialmente intatto. Una grande scritta annuncia che lì si trova un’azienda che lavora il granito, il materiale che ancora si preleva dalla vicina cava, la stessa nella quale vennero uccisi di fatica e di stenti migliaia di prigionieri.

Una immagine sbiadita di qualche anno successiva. La costruzione è già stata parzialmente restaurata; sulla facciata c’è un intonaco nuovo, e c’è un’auto, forse dei nuovi proprietari, vicino a quello che fu l’ingresso del Lager. La scritta che indicava l’impresa che lavorava il granito è già stata tolta: l’intero complesso si va trasformando in un’amena zona residenziale.

Negli anni  sessanta si perfeziona la trasformazione. La linea elettrica che attraversava il terreno antistante è stata cancellata: resta ancora il palo di legno che presto sarà a sua volta rimosso. Nella foto – fornitaci da Angelo Ratti, superstite di Gusen – si vede sulla sinistra ancora una baracca di legno che era subito fuori il Lager, e che serviva da alloggiamento del corpo di guardia.

Ed eccoci infine ad anni più recenti. L’ingresso del Lager è diventato una villa “di alta rappresentanza”, come si suol dire. Qua e là ci sono ancora i residui di un cantiere, ma il più è fatto. Ai due lati della palazzina sono stati costruiti portici e terrazzi. Il passaggio centrale è stato chiuso con una grande vetrata, e si intravede appena il luminoso interno. Ai lati del vialetto d’ingresso hanno portato della terra buona per agevolare la crescita di piante e fiori. Nel “Bunker”, chissà, forse i nuovi proprietari terranno vino o birra.

Un’altra foto, scattata nel 2006. Nel giardino hanno preso forma gli alberelli, il vialetto è asfaltato, in una parola la trasformazione è ultimata. Solo quelle quinte di pietre della zona che fanno da corona alla veranda sono ancora intatte, e parlano, nonostante tutto, della vita e della morte di tanti uomini portati qui a lavorare come schiavi e a morire per la gloria del Reich Millenario.

Un’ultima foto, scattata nel maggio del 2013 la Leonardo Visco Gilardi. Il tentativo di mascheramento di questo luogo di dolore e di morte è presso che concluso. Ma la storia non si cancella con una mano di calce e qualche fiorellino.