Questo titolo è senza dubbio troppo ampio: dovrei dire “i miei rapporti con i deportati stranieri”. Questa è difatti un’ennesima testimonianza (forse superflua) che si aggiunge alle numerose altre, ed eccellenti, che sono state pubblicate in un passato recente e meno recente. Ho sempre provato un po’ d’invidia per i compagni che hanno saputo ricostruire sia la loro storia personale che la storia degli altri deportati, in modo lucido ed esatto. Purtroppo i miei ricordi sono sempre stati, e sono, offuscati, come se una nebbia, o anche un’inconscia volontà di non ricordare, mi ottenebrasse la mente. Però ricordo anch’io , e specialmente oggi, con l’età avanzata ricordo forse un po’ meglio di prima. Questo articolo è dunque un’altra testimonianza, ma anche una riflessione sui rapporti che potevano intercorrere tra i deportati nei lager nazisti, tra i deportati appartenenti a nazionalità diverse. Non so bene quante fossero le nazionalità, forse più di venti (o molte di più se teniamo conto delle varie nazionalità sovietiche presenti nei campi).E le persone, i compagni di mala sorte, erano di diversa estrazione sociale, di diversa cultura: andavano dall’artista, dal medico, dal professore, all’operaio, al manovale, allo studente. C’erano il contadino polacco, il sarto ebreo di Varsavia o di altra città polacca, l’intellettuale ateniese, il pastore mongolo buriato. E gli “schemi culturali” di ciascuno di noi erano, per forza di cose, diversi.
Così il “grado di evoluzione” (termine che però non mi piace molto) erano diversi: la distanza tra un intellettuale di Parigi o di Praga e un pastore asiatico o un contadino polacco erano ovviamente notevoli. E anche le differenze di carattere: uno era raffinato e gentile, l’altro rozzo e immediato. In nessun modo voglio stabilire delle differenze di comportamento di tipo “etnico”, e affermare che i rappresentanti di questo o quel popolo erano più o meno “civili” dei rappresentanti di un altro popolo. La comune realtà della sofferenza, l’esperienza del male (proprio e altrui) in forma così diretta, avevano, se così posso dire, smussato le differenze, Per questo nei campi, nonostante tutto, nonostante l’orrore, nonostante le percosse e le umiliazioni di ogni genere, nonostante la presenza costante e ben visibile della morte, nonostante la fame e la degradazione, si era formata una vera e propria comunità, della quale non ci rendevamo conto, ma che esisteva, e che forse può ancora oggi (parlo dei superstiti e di questi come “testimoni”) costituire una specie di nucleo, di un “essere insieme” tra Europei (anche Extraeuropei, visto che fra di noi c’erano anche dei non europei). Una specie di “Europa unita”: unita nel dolore, unita nei convincimenti: in primo luogo in una grande speranza, in una speranza di libertà e di giustizia. Forse unita anche in un confuso sentimento di reciproca amicizia.
Perché allora di speranze ne avevamo tante, eccessive e anche utopistiche. C’era la speranza immediata di ritornare a casa, ma anche la speranza, che oggi posso anche considerare “infantile”, che “poi” ci sarebbe stato un mondo veramente più giusto, più vero, più umano. Ricordo un’antica canzone-poesia di Franco Fortini, “Di là dal ponte”. Bisognava attraversare un ponte, costantemente bombardato. Di là dal ponte, tutto sarebbe stato bello. Noi siamo riusciti ad attraversare il ponte. Però oltre il ponte le cose non sono andate come nei nostri sogni, che non tenevano conto della crudele storia, e vagheggiavano impossibili utopie, Queste speranze, difatti, sono andate in gran parte deluse.
Nella mia situazione di deportato, precipitato in un mondo veramente alieno, assurdo, feroce, avevo una piccola fortuna: da molti anni coltivavo (in modo discontinuo ma appassionato) la lingua e la cultura russe, alle quali mi sarei poi, al mio ritorno, dedicato in maniera più sistematica. Conoscevo quindi già un po’ di russo: e nel campo mi sono venuto a trovare con una gran massa di Russi, cosa che a me fece piacere, perché pensavo di avere la possibilità di esercitarmi col mio scarso e balbettante russo. Ed effettivamente trovai subito un rapporto, quasi d’amicizia, con alcuni russi, con i quali riuscivo a esprimermi, a parlare della loro letteratura che in parte conoscevo e che molti di loro, anche operai, conoscevano. Così in nome di Tolstoj, riuscivo a rimediare, ogni tanto, qualche pezzo di pane che qualcuno di loro, spontaneamente, mi dava. I Russi, grandi e grossi com’erano, avevano spesso il coraggio di rubare un po’ di pane dai depositi, e senza eccessive conseguenze. Per uno come me venticinque frustate o venticinque colpi di manganello piombato potevano significare la morte, ma per persone molto forti fisicamente e abituate a fatiche immense, potevano anche essere sopportabili.
L’episodio che ricordo con maggiore riconoscenza e gratitudine è questo: un giorno mi trovavo nello spazio tra due baracche; ero mezzo svestito, col misero “pigiama” (non ero stato capace di “organizzarmi” niente da indossare di un po’ pesante),e tremavo per il freddo. Mi si avvicina un compagno di prigionia , un russo appunto, e mi porge una specie di giubbotto imbottito (chissà come era riuscito a procurarselo).Quando la temperatura migliorò, in aprile, me lo richiese indietro: adesso non ti serve più. Mi disse il suo nome, che forse ho capito male, e mi disse anche che faceva l’insegnante di inglese a Mosca ed era molto interessato alle lingue. Successivamente, nei miei ripetuti soggiorni a Mosca, ho tentato di rintracciarlo (il suo cognome , come ricordavo, era Purvar, posto che fosse il suo vero cognome), ma sempre invano. Eppure so che uscì vivo dal campo. Comunque sia, che lo ritrovi o non lo ritrovi, voglio esprimergli qui di nuovo la mia gratitudine e il mio affetto. Forse quel pellicciotto ha contribuito a salvarmi la vita.
Il popolo sovietico dei campi era quanto mai complesso e variopinto: oltre ai Russi, agli Ucraini, ai Bielorussi c’erano anche rappresentanti di altre repubbliche sovietiche, fra cui asiatiche. Ed erano svariati anche i motivi per cui erano stati deportati nei campi della morte. C’erano anzitutto prigionieri di guerra; perchè i prigionieri sovietici non godevano del trattamento dei prigionieri di guerra inglesi o americani o scandinavi. Erano considerati popoli di razza inferiore, e quindi a loro non venivano applicati quei “diritti” di cui godevano, appunto, i prigionieri di guerra di razza “superiore”. Per questo erano finiti nei lager con gli Ebrei e i politici.
Così fu per un soldato sovietico,un aviatore sovietico che ho conosciuto proprio a Mauthausen, e, la vigilia della sua esecuzione (era stato considerato una spia, credo), giocava tranquillamente a dama, con delle pedine rimediate in qualche modo.
Altri prigionieri russi avevano storie diverse. Alcuni erano persone (di zone occupate dai Tedeschi) che avevano in principio accettato di lavorare per i Tedeschi (in teoria erano lavoratori civili); poi avevano combinato qualcosa, o avevano fatto il doppio gioco, per cui erano finiti nei campi di eliminazione. O magari non avevano fatto niente ed erano finiti nei lager, così, per decisione di qualcuno.
C’erano naturalmente gli Ebrei sovietici: nelle zone occupate i Tedeschi avevano deportato migliaia di Ebrei bielorussi o ucraini o di altra nazionalità.
Infine c’erano dei veri e propri “banditi”.
Nessuno di loro ha mai avuto una parola offensiva nei miei confronti (eppure ero un italiano, e l’Italia mussoliniana aveva aggredito e invaso la Russia!), mai uno sgarbo, un atto di violenza, e neppure disprezzo.
Qualcuno di questi sovietici, dicevo, era considerato un vero e proprio “bandito” (però anche noi dai tedeschi, anche dai civili, eravamo ritenuti banditi). Uno di questi “banditi” era un forte ucraino, Boris, se ben ricordo: eppure anche questo personaggio, nel suo genere straordinario, con me si è comportato sempre in modo gentile e corretto, e mi ha anche insegnato qualche trucco per evitare di prendere, quando possibile, le botte.
Non vorrei sembrare troppo “ironico”; i contrasti fra i vari gruppi etnici c’erano, eccome: però c’erano anche altri sentimenti, positivi, sia pure momentanei attimi di solidarietà umana, per non parlare di fratellanza, che è parola troppo forte e impegnativa: ed è su questi momenti che desidero insistere, in queste mie “rimembranze” che non sono certo “documenti storici”, ma sentimentali.
Così parlo dei Polacchi. Dei Polacchi nei campi, a Mauthausen e a Guzen, e negli altri campi, si sono dette molte cose. Alcuni di loro ebbero delle cariche nei campi, e queste cariche li potevano rendere crudeli. Ho il confuso e quasi allucinato ricordo di un deportato polacco, chiamato Hugo (non sono sicuro di questo nome) che si comportò crudelmente con i suoi compagni di prigionia. Per questo, alla liberazione, venne fucilato. E’ ancora viva nella mia memoria l’immagine del suo corpo, disteso fra i castelli di una baracca, che sussultava, negli spasimi della morte. Hugo suscita in me pietà, come gli altri Polacchi. Brutalmente strappati alle loro case dalla furia nazista, ancora in giovane e persino giovanissima età, precipitati in un luogo d’inferno, non potevano, alcuni di loro, non “deformarsi” psicologicamente. Molti, troppo giovani, per un pezzo di pane, potevano fare qualsiasi cosa.
I miei rapporti con i Polacchi sono stati sempre di cordialità, e anche di amicizia. Una volta, non ricordo quando, mentre mi trovavo in piedi, sull’attenti, insieme con gli altri, nella Piazza dell’Appello, nell’interminabile attesa dei controlli da parte delle SS, svenni, mi sentii mancare. Stavo già scivolando in terra, quando mi resi confusamente conto che qualcuno mi afferrava per le braccia. Alla mia destra e alla mia sinistra c’erano due deportati polacchi che, avendo compreso subito la mia situazione, mi tennero in piedi, pur svenuto. Mi salvarono la vita: se fossi caduto un colpo di fucile o rivoltella mi avrebbe certamente finito, perchè tale era il costume del campo. Non so il loro nome, Li ho rivisti nel campo qualche altra volta, poi non ho più saputo niente di loro. Sono morti? Sono tornati in Polonia? In Polonia ho cercato di rintracciarli: vana ricerca, visto che non conoscevo i loro nomi e ricordavo a mala pena i loro volti. Eppure questi sconosciuti polacchi manifestarono la loro concreta solidarietà, la loro sensibilità. Così ricordo quel medico polacco, un deportato ebreo, che aveva una pomata contro la scabbia, e che mi curò la scabbia che dovevo aver preso prima di arrivare a Mauthausen, quindi a Bolzano. E anche quel medico mi salvò la vita: la scabbia era segno che si avevano i pidocchi, e chi aveva i pidocchi, a Guzen e negli altri campi, veniva immediatamente ucciso.
Pure con molti altri Polacchi i miei rapporti sono sempre stati corretti.
E poi, gli Spagnoli. Dopo la fine della guerra civile di Spagna, dopo la distruzione del breve governo di Barcellona, un gruppo di combattenti e politici della Repubblica, fra cui un folto gruppo di anarchici, si rifugiò in Francia. Purtroppo il governo francese di allora, succubo dei nazisti, li consegnò ai Tedeschi. E furono prontamente internati nei vari lager. Fra questi Spagnoli ho conosciuto Angel Mejias y Samorano (credo di ricordarmi il nome), che forse era stato un’eminente personalità (anarchica) del governo di Barcellona, che era stato un coraggioso combattente della Repubblica Spagnola.
Angel si mostrò mio amico. E io trovai il modo di deluderlo. Negli ultimi tempi gli Spagnoli ricevettero alcuni pacchi di cibo (non so da chi: forse dalla Croce Rossa). Angel mi dette qualcosa da mangiare e volle (credo) mettermi anche alla prova. Mi affidò un cartoccio di zucchero, chiedendomi di conservarlo. Naturalmente io non resistetti alla tentazione e, una leccata dopo l’altra, me lo mangiai quasi tutto, quello zucchero. La prova di fermezza era dunque fallita. Me ne vergognavo (e me ne vergogno ancora), ma Angel non sembrò prendersela troppo. Disse ai suoi compagni: gli ho affidato lo zucchero e lui “se lo comé”, se l’è mangiato. Non so quale sia stato poi il destino di Angel Mejias. Naturalmente non poteva tornare in Spagna. Credo che dei Messicani anarchici siano addirittura venuti a prenderlo, poco dopo la liberazione. Non conosco la storia dei non pochi Spagnoli nei lager, e la loro sorte dopo la liberazione, visto che non potevano tornare nella Spagna franchista, e certo non desideravano andare in Francia, per come s’era comportata la Francia con loro. La loro sorte è stata ben dura, e non possiamo dimenticare che furono vittime di un vero e proprio tradimento.
E, oltre agli Spagnoli,non mi dispiacerebbe conoscere la sorte degli altri gruppi “etnici” (adesso è di moda la parola “etnico”), cioè degli altri popoli che sono stati presenti, loro malgrado, nella storia dei KZ. Mi pare che finora le varie associazioni nazionali, che pure sono state in contatto fra loro, non abbiano fatto molto in questo senso : cioè nel senso di una specie di “storia comparata” (anche nei suoi risvolti psicologici) dei vari popoli che hanno costituito l’umanità dei campi. Come ho ricordato prima le disparità culturali erano fortissime: ho conosciuto gente di estrema civiltà, Greci, Belgradesi, Praghesi, Francesi, e altri, e ne ho conosciuti anche altri a un livello di “evoluzione” (diciamo così) inferiore. Ma il “segno” della sofferenza, della sorte e della morte comune, ci rendeva, in un certo senso, uniti, vicini, consciamente o meno consciamente consapevoli che la sorte di ciascuno di noi era anche la sorte degli altri.
Molti dei deportati anziani, italiani e non italiani, ebbero nei miei confronti un atteggiamento generoso e amichevole. Sono grato a quel deportato anziano, penso italiano, che mi insegnò alcuni “trucchi” per sopravvivere nel campo. Ero appena arrivato e, mentre aspettavo che mi “registrassero”, saputo che ero uno studente, mi consigliò di non dirlo e di inventare un’altra professione: così avrei cercato di evitare di essere inserito nelle squadre di quelli che lavoravano con il piccone nelle cave. Così io dichiarai che facevo il verniciatore. La cosa mi andò bene, perchè mi assegnarono a una squadra di verniciatori: eravamo in otto, fra cui quattro Russi, e lavoravamo in due turni. Penso che i Russi (e anche altri due italiani, uno di Genova e uno di Anzola Emilia), fossero veramente verniciatori. Il quarto del nostro “commando”, il ricordato Angel Mejias, non penso fosse mai stato verniciatore. Del resto non era un mestiere difficile, e neppure molto pesante, a parte il fatto che eravamo sempre immersi nelle polveri delle vernici, dell’aerografo, nell’odore dell’acquaragia. Questa aria mefitica ci difendeva: difatti le guardie non venivano tanto volentieri a vedere quel che facevamo. Per cui, moltissime volte, uno di noi stava di vedetta e gli altri potevano dormire (cosa, se scoperta, pericolosissima, e punita ipso facto con l’impiccagione). Stavamo in uno stanzone sotterraneo. Molti compagni venivano spesso a trovarci: fra i quali Enrico Chilò che, avendo detto che la sua professione era quella dell’elettricista, cercava di fare l’elettricista.
Il nostro “capo” (o responsabile, se possiamo dire così del nostro gruppo), un tedesco di Norimberga, spedito al lager perchè socialista, e del quale parlerò ancora, doveva aver certo capito la situazione, ma non ci denunciò mai.
La nostra “produzione” era certo molto scarsa: dovevamo verniciare sportelloni di aerei, e non ne verniciavamo molti. Non ho mai capito come facessero a non rendersi conto che ne potevamo verniciare in realtà molti di più, di quegli sportelloni. Del resto questi aerei, appena fuori dai sotterranei della fabbrica ( la Messerschmidt) venivano prontamente bombardati a distrutti dagli apparecchi degli Alleati.
Desidero ricordare un curioso incontro. Un giorno, mentre stavo strofinando con non so che cosa uno sportellone, che poi doveva essere verniciato di azzurro con l’aerografo, entrò un soldato, uno dei nostri guardiani. Non so se fosse dell’esercito o delle SS. L’uomo, abbastanza anziano, si sedette vicino a me, e stette a guardarmi mentre lavoravo. Naturalmente fingevo una grande lena. L’uomo poi si mise a parlare. Mi disse di essere un lituano, e che i Russi avevano circondato Berlino. In casi del genere uno non sa che cosa fare. Poteva essere un provocatore. Ma non lo era. Era solo un uomo disperato, che aveva fatto la scelta sbagliata (o forse era stato costretto a farla), e che sapeva di essere, anch’egli, in attesa della morte: visto che per la Germania e per i suoi alleati e sudditi la guerra era ormai perduta. Nei miei studi di slavistica e anche di baltistica avevo imparato qualcosa di lituano, anche una poesiola, di cui ricordavo alcuni versi. Glieli dissi. L’uomo ne fu evidentemente commosso. Tirò fuori dalla tasca una piccola mela e me la dette. Poi se ne andò. Anche quella mela è un ricordo importante della mia vita di lager.
Prima di parlare del “popolo ebraico” che costituiva grande parte dei prigionieri, e in ricordo (forse) dei Lituani, non posso fare a meno di riandare con la memoria a un episodio che mi è rimasto sempre impresso nella mente e che a volte ritorna nei miei sogni. Una mattina (eravamo in una baracca del campo grande di Mauthausen) le guardie fanno entrare un folto gruppo di bambini. Erano bambini molto piccoli, di forse cinque o sei o sette anni, che non si rendevano conto di dove si trovassero e di quale fosse la loro situazione. A un certo punto fecero due cerchi, due girotondi, e si misero a girare, cantando delle canzoncine che mi parvero lituane. Ma non ne sono sicuro. Poi furono portati via: forse andarono nelle camere a gas e poi al crematorio. Tutti. Forse erano bambini ebrei lituani (o magari ebrei polacchi), probabilmente deportati dallo stesso villaggio, dallo stesso asilo, dalla stessa scuola elementare. Non lo so, e vorrei che chi sa qualcosa di più di questo “trasporto”, lo scrivesse, lo dicesse. Io ho sempre in mente, in modo ossessivo, le voci argentine di quei bambini, le loro incomprensibili canzoncine, la loro totale innocenza e incoscienza. Queste avevano regalato loro un attimo di gioia, di girotondo, prima della morte.
Il campo era un campo di Ebrei, di Russi, e di “politici”. Ricordo per primo un signore ebreo, ungherese, mio vicino di “castello” (qualche volta). Questo signore, questo deportato, dall’aspetto nobile e serio, era uno dei pochi che pregavano in modo, per così dire, vistoso. Spesso si metteva in testa il nostro berretto o un qualche straccio e pregava fervidamente.
Non ho visto altre persone, di religione ebraica o altra, che pregassero, nel campo, almeno in modo palese. Ma certo molti dovevano pregare silenziosamente, o formulare pensieri religiosi e spirituali, anche per uscire mentalmente ed emotivamente, in qualche modo, dal campo.
Voglio a questo proposito ricordare il caro, indimenticabile avvocato Gaetano De Martino, che non era con noi, ma a Ebensee. Come mi disse egli stesso, quando ci incontrammo dopo la liberazione, De Martino pregava a suo modo, secondo i suoi “canali” mentali. Ero stato suo ospite, in Via Rovello a Milano, prima di essere ospitato dall’amico Aldo Boniti. De Martino era un teosofo, se non sbaglio segretario del gruppo teosofico di Milano, e anche editore di una casa editrice di libri teosofici (la casa editrice “Alaya”). Gaetano De Martino pregava non per sé, ma per i suoi persecutori, per chi lo picchiava, o magari gli rompeva una gamba. De Martino era un uomo di grande sensibilità, intelligenza, di grande fede . Pensava che, secondo la sua fede teosofica, “mandando” pensieri di pace e di perdono ai suoi persecutori e picchiatori, la cui “aura” doveva certo essere di colore orrendo, essi si sarebbero ravveduti, avrebbero avuto un momento di riflessione e forse di pietà. Però sembra, a volte, che un dio crudele si accanisca contro i “giusti”. E De Martino (al quale si deve una delle prime testimonianze sui lager, il libro “Da San Vittore ai Lager”) era un “giusto”.
Non ricordo che gli altri Ebrei del campo pregassero, né io, che pure avevo avuto precedentemente una importante esperienza religiosa (protestante evangelica) nel campo non ho mai pregato: mi sembrava che la preghiera fosse estranea al campo, come una preghiera pronunciata nell’inferno, o forse una inutile forma di debolezza. Non so perchè, ma ricordo vivamente quell’ebreo ungherese che pregava, che cercava quindi, anche comunicandolo a noi, un suo rapporto particolare con Dio. Non so che fine abbia fatto. Data la sua età e le sue condizioni fisiche non credo sia sopravvissuto.
Gli Ebrei dunque. Ebrei di tutta Europa, catturati dai nazisti,spesso e volentieri consegnati loro da delatori di ogni tipo, in vista della soluzione finale. Ebrei francesi e greci, italiani e tedeschi, polacchi, russi, ucraini, cechi. Nella loro stragrande maggioranza (forse quasi tutti) erano “piccola gente”, “povera gente”. Gli Ebrei ricchi, i finanzieri ecc. riuscirono, per lo più, a mettersi in salvo, Non c’erano Ebrei bulgari: il re di Bulgaria li protesse. Il re Boris era uno strano personaggio che amava guidare le locomotive e che sposò una delle figlie del nostro re Vittorio Emanuele III, Giovanna (un’altra figlia, Mafalda, moglie di un principe tedesco, andò a finire in un campo nazista dove, a quanto mi risulta, morì). Boris, alleato dei nazisti, si rifiutò, comunque, di consegnare i “suoi” ebrei ai Tedeschi. Come protesse a suo modo e coraggiosamente i “suoi” Ebrei un altro re europeo, il re di Danimarca, che volle segnare sulla sua giacca il simbolo giallo, imposto agli Ebrei dai nazisti che occupavano il suo piccolo paese .
Noi non Ebrei, eravamo dunque “immersi” nel popolo ebraico martire. Molti di noi, almeno, potevano farsi una ragione, per il fatto che si trovavano a Mauthausen: si erano messi contro i Tedeschi. Ma l’unica colpa degli Ebrei era quella di essere Ebrei. Come l’unica colpa degli Zingari era quella di essere Zingari. Mi pare che siano stati oltre centomila gli Zingari eliminati dai nazisti. La paranoia tedesca colpiva dunque anche gli Zingari, che pure parlavano lingue indoeuropee di origine indo-ariana. Nei confronti degli Zingari esisteva in Germania (come esiste ancor oggi in Italia) un vero e proprio “orrore” per il diverso, il nomade, per il “popolo di ladri” per antonomasia, un altro capro espiatorio al quale attribuire, come agli Ebrei, tutte le colpe. Non ricordo di aver conosciuto direttamente Zingari nel campo.
I tentativi, ruffianeschi, osceni, spesso mascherati da “ricerca scientifica”, dei “negazionisti” e dei “revisionisti” (fra cui anche illustri e meno illustri professori di storia) penso che non riusciranno a cancellare quello che c’è stato, fisicamente, storicamente, come piaga profonda nel cuore dell’Europa, e cioè l’Olocausto. Vorrei che questi “revisionisti” o “negazionisti”, specialmente se professori, percorressero, come facevamo noi, i “sentieri” fra le cataste di cadaveri (il Krematorium non riusciva a smaltire in tempi brevi l’enorme quantià di morti). L’ Olocausto ebraico non è stato il primo del nostro secolo ventesimo, incominciato con il gioioso e speranzoso ballo “Excelsior”. Il grossolano errore di latino – visto che si sarebbe dovuto dire ‘Excelsius’ – potrebbe considerarsi un brutto segnale di quello che sarebbe stato questo secolo, nel quale ci è toccato di vivere). Prima dell’Olocausto ebraico c’era stato l’Olocausto armeno. Nel 1915, quando già l’impero ottomano stava per finire, il ministro turco della guerra, Enver Pascià, e altri, decretarono la “fine della questione armena”, che dava fastidio ai Turchi, la fine cioè degli Armeni sudditi dell’impero. Oltre al massacro nelle terre propriamente armene (fra cui il celebre monte Mussa Dagh, che vide una coraggiosa e rabbiosa quanto vana resistenza degli Armeni), ci fu la spaventosa deportazione degli Armeni dall’Armenia alla Siria. Gli Armeni dovettero camminare, uomini, donne, vecchi e bambini, attraversando montagne e deserti, lasciando uno spaventoso contributo di morti. L’Olocausto armeno, se pure non può paragonarsi a quello ebraico per il numero delle vittime, è però simile per le motivazioni: la scelta, decretata da un governo, da uno stato, da una nazione, di sterminare un popolo, un popolo di propri concittadini: gli Armeni erano da secoli sudditi dell’impero ottomano. Ma per sterminarli ci volle, non la vecchia politica ottomana, che aveva permesso loro di vivere nell’impero per secoli, ma una nuova politica e una nuova ideologia di carattere nazionalistico. Così i nazisti massacrarono una parte dei propri concittadini, prima di estendere l’eccidio agli Ebrei di altri stati invasi militarmente.
Nel campo, nei campi, esistevano delle “gerarchie”. Nel chiamare i deportati a compiere lavori pesanti o comunque molto sgradevoli (per esempio per portare i pesantissimi, enormi, bidoni, che contenevano la nostra zuppa di rape marce e bucce di patate o per pulire i cessi o trasportare le migliaia di cadaveri ), per primi, venivano chiamati, appunto, gli Ebrei. Poi venivamo noi italiani, traditori badogliani e banditi comunisti. Era persino ovvio che i più anziani del campo, e in particolar modo i Tedeschi, facilitati questi anche dalla lingua, riuscissero, in genere, a evitare i lavori più massacranti.
Spesso giungevano trasporti da altri campi. Trasporti di Ebrei: e quando arrivavano, quei deportati erano già ridotti in condizioni estreme, sfiniti da viaggi massacranti, magari dopo giorni in cui erano stati senza acqua e senza cibo. Non so, e lo vorrei sapere, se gli Ebrei avevano formato qualche loro comitato per tentare un minimo di difesa.
E poi chi sceglieva i “numeri” dei deportati (ciascuno di noi aveva un numero) che dovevano essere mandati nelle camere a gas? Salvo casi particolari, io penso che le SS richiedessero periodicamente una certa “quantità” di Ebrei o di altri deportati da uccidere,senza stabilirne i nomi. I “numeri” di matricola da chi venivano stabiliti? Esisteva un qualche ufficio kafkiano che decretava chi dovesse essere eliminato? Sotto questo riguardo, io sono del tutto ignorante, e non sarebbe male chiarire il complesso meccanismo di questi tipi di scelte.
Niente distingueva gli Ebrei dagli altri prigionieri, se non il triangolo giallo che portavano sul petto e, in genere, una maggiore persecuzione nella persecuzione. Ho già detto che non mi risulta che gli Ebrei manifestassero esternamente la loro religiosità. Sull’argomento, se Dio possa essere esistito prima di Auschwitz, durante Auschwitz, e se possa esistere oggi dopo Auschwitz (e dopo tutto il resto) sono stati scritti libri, anche profondi. Forse, Dio, l’abbiamo ucciso proprio ad Auschwitz. Problema insensato per un non credente, e forse anche per un credente. Possiamo anche considerare Dio una metafora necessaria (per molti). Penso anche che i non pochi Testimoni di Geova che, per la loro fede, erano stati mandati nei lager, avranno tentato di farlo vivere, Dio, nei campi. Ma nei campi Dio era ben morto. Posso anche ritenere che , forse, quegli esempi (non pochi) di umanità, ad alcuni dei quali ho accennato, e alcuni dei quali mi hanno probabilmente permesso di sopravvivere, hanno anche “salvato Dio”. Il discorso è particolarmente angoscioso per gli Ebrei, che, credenti o non credenti, hanno sempre avuto un rapporto viscerale con Dio. La tormentosa domanda “perchè Dio ha permesso questo?” (che non tocca, ovviamente, gli atei) ossessiona da millenni gli Ebrei, dal tempo di Giobbe a oggi: come dimostra lo spettacolo che Moni Ovadia sta rappresentando in questi giorni a Palermo (“Yossl Rakovar si rivolge a Dio”): il personaggio di Ovadia è un combattente del ghetto, che, prima di morire (ormai tutto è finito) intrattiene un colloquio (un monologo) con Dio.
Qui non toccherò il tasto “Perchè io sono sopravvissuto? Perchè mi sono salvato? Perchè non sono stato sommerso?”. Domanda, del resto anche banale, con una risposta altrettanto banale (“perchè così ha voluto il caso”), domanda che, però, forse, ha portato a un disperato suicidio uno degli spiriti più illuminati del nostro tempo, Primo Levi.
Pochi di questi Ebrei, ritengo, erano “politicizzati”: si trattava per lo più di gente umile, di persone travolte, disperate, terrorizzate. Brutalmente strappate alle loro case, ai loro affetti, alla loro vita quotidiana, avviluppate nel groviglio infernale e criminale della politica razzista. Quelli che non venivano soppressi subito, e arrivavano ai campi, come forza (si fa per dire) di lavoro schiavista, tentavano in qualche modo di sopravvivere. Naturalmente questo si poteva dire anche di noi che, comunque, non eravamo destinati “automaticamente”, “per legge”, alla morte: la morte era una conseguenza non di mirate eliminazioni, per noi, ma derivava dalle fatiche, dalla fame, dal sistema punitivo caratteristico dei campi. Salvo le eccezioni, i deportati hanno cercato di sopravvivere senza commettere azioni indegne. Tentando anche di salvare il salvabile della propria umanità e dignità, nonostante l’oggettiva pressione del degrado generale. Come si fa a salvare la propria umanità, la propria dignità umana, quando si è colpiti da una diarrea mortale? Chi aveva una forte carica interiore religiosa o politica ci riusciva, certo, meglio di altri.
Gli Ebrei erano come noi e noi eravamo come gli Ebrei. La nostra comune storia ci ha affratellati, oltre ogni credo politico e religioso, ci ha affratellati: allora e oggi nessuno di noi, cristiano, buddista, laico, che sia, non può non sentirsi anche “ebreo” nell’anima.
Nel campo i Tedeschi e gli Austriaci erano, naturalmente, numerosi. Numerosi gli Ebrei tedeschi (non certo quanto gli Ebrei polacchi) . Non pochi coloro che in Germania si opposero al nazismo e finirono nei lager. E c’erano anche i delinquenti, i tedeschi criminali comuni (i “triangoli neri”). E c’erano gli omosessuali (i “triangoli rosa”): mandati nei campi di eliminazione per “purificare la Germania”. Avvantaggiati dalla lingua, i Tedeschi avevano spesso (ma non sempre) posizioni di vantaggio nei campi. Potevano essere, per esempio, “kapò”, oppure appartenere in qualche modo al gruppo dei “Prominenten”, che avevano vantaggi di cibo, di alloggio. Alcuni avevano persino il privilegio di “visitare” il bordello del campo (le prostitute erano ragazze polacche ebree deportate e costrette alla prostituzione per salvarsi la vita). La lingua “ufficiale” era naturalmente il tedesco, e ricordo che, per qualche tempo, non mi fu possibile sentire neppure parlare tedesco senza entrare in crisi. Poi, per lavorare alla mia tesi, dovetti leggermi molti libri tedeschi: visto che i Tedeschi non avevano fatto solo Dachau, Mauthausen o Auschwitz, ma anche molte altre cose, nei più vari aspetti della scienza e dell’arte.
Ricordo il breve colloquio che ho avuto una volta, con il “capo” del nostro gruppo di verniciatori, il deportato socialista di Norimberga, al quale ho precedentemente accennato, e del quale non ricordo assolutamente il nome. Non riuscii a trattenermi, e gli chiesi come spiegava, lui, il fatto che il popolo tedesco, al quale si dovevano tanti artisti, tanti musicisti, tanti scienziati, tanti poeti , tanti filologi,quello stesso popolo costruì quelle macchine di morte e di eliminazione che erano i campi dei KZ. Domanda certo ingenua e primitiva, la mia. Eppure, in seguito, furono pubblicati molti libri e furono fatte molte ricerche su tale tema: per questo, la coscienza tedesca si tormenta ancora. Io, allora, ero dentro una di quelle macchine, e non avevo certo strumenti adatti per capire. Così ho ancora davanti alla mente il volto angosciato di quell’uomo, e il gesto che fece: allargò le braccia, come a dirmi che non poteva capirlo, non poteva capirlo neppure lui, tedesco, che era comunque una vittima, e in qualche modo aveva tentato di opporsi al nazismo, e forse poteva rappresentare l’aspetto non negativo della Germania.
Non ho avuto mai rapporti diretti con i Tedeschi del campo: una sola volta, sbadatamente, urtai o sfiorai un gigantesco “triangolo nero” (tipo “bassifondi d’Amburgo”), che si limitò a buttarmi a terra con uno schiaffo, e poi se ne andò per i fatti suoi.
Non tutti i “kapò” erano crudeli o feroci o sadici. Alcuni, forse perchè si era verso la fine, forse per furberia, si comportarono in modo, diciamo così, civile. Così il “kapò” del nostro blocco (forse il 17) non volle, o non riuscì a scappare, come fecero molti altri “Prominenten”, qualche giorno prima dell’arrivo degli Americani. Il campo (Guzen II ), dopo una fugace comparsa di camionette alleate (nella zona operava il generale Patton) era rimasto per qualche giorno “libero”, in preda anche al caos e alla confusione. Alcuni deportati (per lo più russi) organizzarono una specie di “tribunale popolare” per giudicare i “Prominenten” che erano stati catturati. L’imputato veniva fatto salire su un tavolo, e il popolo (cioè noi, o almeno chi di noi era ancora in grado di connettere e capire) ricordava quello che aveva fatto, giudicava i suoi atti. Da questo giudizio dipendeva la salvezza o la condanna (cioè la morte) dell’imputato. Quel “kapò” di cui ho parlato prima venne assolto. Chi veniva condannato, era subito fucilato, gli altri, lasciati liberi. Non so che cosa sia accaduto negli altri campi: parlo di ciò che ho potuto vedere, e di cui, ripeto, ho un confuso ricordo.
Degli Italiani non parlo: pochi di noi ebbero posizioni di “comando” all’interno dei campi, e credo, nessuno di noi, quindi, si macchiò di colpe infamanti. Devo qui ricordare quei compagni e amici (molti di essi sono già morti), come Elli, i Parisio, Luigi e altri, che, trovandomi disteso su una strada fuori dal campo, mezzo morto, mi raccolsero e mi misero su un’ambulanza (organizzata da un prete di Milano) che mi portò all’Ospedale Militare Italiano di Linz.
Spero di non aver scritto una specie di “racconto di Natale”, non era comunque nelle mie intenzioni. Il mio scopo è stato quello di ricordare che non esistevano tra i vari deportati delle diverse nazionalità solo atteggiamenti e sentimenti di odio e disprezzo. Nel campo si stabilirono invece anche rapporti di fratellanza (uso per la seconda volta questa parola, che pur ritengo esagerata) o almeno di solidarietà umana o di un minimo di “umanità”.
E mi è sembrato giusto ricordare, ancora una volta, coloro che, sia pure con un piccolo gesto, ma a volte anche con un comportamento coerentemente eroico, riuscirono ad aiutare i loro compagni di mala sorte. Di ricordare, per così dire, i “giusti di Sodoma”. La Chiesa Cattolica ha beatificato un deportato di Auschwitz, il prete polacco padre Kolbe. Né gli Ebrei, né i Protestanti, né i Testimoni di Geova, né i Cristiani Ortodossi, né gli Atei hanno l’uso di beatificare i loro “testimoni”.
Eppure, solo per fare un esempio, meriterebbe la beatificazione una monaca ortodossa, Madre Maria, morta nel campo di Ravensbruck, dopo aver scambiato il suo numero di matricola con quello di una giovane ebrea destinata al gas. Di lei credo di aver già parlato, non ricordo dove e quando, a una riunione o convegno di ex-deportati. Poetessa russa, autrice di poesie per lo più di tema religioso, Elizaveta Jur’evna Kuzminà Karavaeva Skobcova, in giovanissima età fu presa da una passione (vana) per il grande poeta Alessandro Blok, poi emigrò e, dopo diverse peripezie matrimoniali, si fece monaca (basiliana). Durante l’occupazione tedesca di Parigi, si prodigò nell’aiutare prigionieri russi fuggiti e clandestini della Resistenza, finché fu catturata col figlio. Madre e figlio morirono nei campi. Ecco, dunque, un personaggio che ci permette di essere un po’ meno pessimisti sulla nostra non del tutto perduta (forse) umanità.
Questo mio discorso, con tutte le sue divagazioni, ha lo scopo di aprire (o riaprire) una discussione proprio sui rapporti fra i vari popoli che costituivano la popolazione eterogenea e estremamente mutevole (dato l’alto numero di morti) dei campi.
Eridano Bazzarelli
(Milano, dicembre 1999)