Come si viveva, come si moriva alla Risiera? Lo spiegano alcune testimonianze di superstiti, raccolte per la prima volta nel volume “Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera” pubblicato nel 1974 a cura dell’ANED di Trieste.

 

PINO KARIS di Trieste

 «Mi arrestarono gli appartenenti alle «Guardie nere» verso la fine del 1944. Mi condussero direttamente in Risiera, nella cella n. 6. Dopo due o tre giorni mi portarono all’interrogatorio assieme a Ujcic e a Peloza di Mune. Dopo alcuni giorni venni condotto all’interrogatorio al comando delle SS in piazza Oberdan (via Carducci). Là venni interrogato più volte e torturato, quindi mi rinchiusero nel bunker. Da lì fui condotto al Coroneo.

Ero rimasto rinchiuso in Risiera per un mese e mezzo circa. Una sera condussero parecchie persone da un rastrellamento a Servola. Dal Coroneo il 20 aprile trasferirono in Risiera 60 persone; tra queste c’erano anche Enzo Vidali (Brigata Garibaldi) e il commissario di battaglione di questa Brigata che era di Pola e portava la barba. Non ricordo il suo nome. Sua moglie venne da me dopo la liberazione per avere delle informazioni e mi mostrò la lettera che egli le aveva mandato dalla Risiera nelle ultime ore prima di venir bruciato. Vidali era venuto in Risiera a piedi nudi. Mia moglie gli portò poi un paio di scarpe». 

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

 

GIUSEPPE GIANECHETTI di Trieste

 «Qui giunto, come prima cosa mi percossero abbondantemente. Il più feroce dei bastonatori era un maresciallo, che al posto della mano aveva un uncino e ci faceva correre attorno alla vasca che serviva per i rifiuti, lavare le gavette e i vasi da notte insieme. Poi fui rinchiuso nelle celle. La mia portava il numero 4. Queste celle erano spesso occupate da 4 persone e provvisoriamente anche da sei. La notte non si poteva dormire, perché una lampadina fortissima era accesa giorno e notte. La sentinella o le sentinelle delle SS molto spesso aprivano le porte, e sempre gridando, e questo per farci vivere in un continuo stato di terrore. Cosicché si può dire che, finché rimasi là dentro, non ebbi pace neanche un minuto».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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BRANKA MARICIC di Fiume

«Quando ci portarono in Risiera non sapevamo ancora dove ci trovavamo. Ci misero in uno stanzone. Al piano superiore erano rinchiusi alcuni militari italiani, dei ragazzi giovani. Avevano smosso le tavole del soffitto e ci domandarono di dove fossimo, dicendo di non conoscere il motivo del loro arresto.

Non ricordo se il crematorio fosse già in funzione quando arrivammo in Risiera. Penso che abbiano sistemato le celle e il forno dopo aver razziato per i paesi e aver portato in Risiera prigionieri, merce d’ogni specie e bestiame che avevano prelevato nei villaggi. Quando le SS tornavano dalle loro scorrerie, si potevano udire un gran trambusto e delle grida. Vidi proprio di fronte a me qualcosa che ardeva nel capannone. Notai delle SS che trascinavano per le spalle della gente, che giaceva immobile per terra, nell’interno del capannone dal quale usciva quella luce. Vedendo questo provavo una paura indicibile. Arrivò una SS che mi cacciò in malo modo dalla finestra minacciandomi. Penso che fossero i primi di aprile quando condussero una donna anziana. L’avevano portata in Risiera assieme alla governante. Questa venne rilasciata, mentre lei venne trattenuta. La poverina ci faceva molta pena perché non poteva assolutamente muoversi da sola. Si lamentava a causa dei dolori e ciò fece andare in bestia le SS. L’avvolsero in una coperta e si misero a trascinarla per i gradini dal terzo piano. Gridava in modo atroce. Dicono che morì quando la trascinarono fino al pianterreno. Proveniva da una famiglia triestina stimata e molto ricca. Suo marito era stato ufficiale durante la I Guerra Mondiale ed era stato decorato. Non ricordo come lei si chiamasse.

Un giorno condussero un gruppo di ebrei arrestati a Rab. Erano in prevalenza di Zagabria e tra loro c’era una stupenda greca. Li portarono in un campo di concentramento tedesco, penso ad Auschwitz. Su quel treno si trovava pure un membro della famiglia Grguric di Susak. Quando li condussero in Risiera, li spogliarono di tutto. Spiavamo attraverso le fessure della porta come le SS li perquisivano e cacciavano nelle proprie tasche le monete e gli oggetti d’oro. Quando gli ebrei se ne andarono con il treno si accomiatarono da noi dicendoci: “beati voi che rimanete”. Sapevano dove li stavano portando e che cosa li attendeva.

Doveva essere il 14 maggio quando sentii provenire dal cortile delle urla e degli spari. Venimmo a sapere che avevano fucilato due dei militari che si trovavano al piano superiore».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

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FRANCESCO SIRCELJ da Celje (Jugoslavia)

 «ll 12 marzo 1945 circa alle 22,30 venne un SS, chiamò per nome e cominciò ad aprire le celle. Il mio nome era il primo, aprì la cella; seguirono altri quattro. Dalle celle ci condussero in una baracca che stava nel cortile proprio di fronte alle celle stesse. La porta era di fronte al camino. Nella baracca vidi un mucchio di vestiti e di stracci. Ci fu ordinato di spogliarci. Mentre lo facevamo condussero altri sette prigionieri portati da fuori, forse dalle carceri. Tra loro c’era anche una donna di circa 45 anni. Quando fummo spogliati tutti, ci misero in fila cominciando a spingere uno dopo l’altro attraverso la stretta porticina sulla sinistra. All’interno infatti la baracca era divisa in due parti. Nell’ambiente più grande c’era una specie di magazzino, nell’altro, al lato, dove all’esterno si ergeva l’alto camino della fabbrica, si trovava invece il fondo del crematorio.

Le vittime venivano prelevate da un polacco SS, uno dei peggiori nella Risiera. Mi sembrava, quando erano sparite dalla porta, che passassero per una scala. Sentii una voce di donna, lamenti, sospiri, come una specie di mormorio di una persona che venga colpita alla nuca. Dieci vittime erano già passate per quella porta stretta. In quel momento sarei dovuto passare io. Dietro a me c’era anche un triestino, di cui non ricordo il nome, che era stato portato alla Risiera alcuni giorni prima. Doveva avere circa 20 anni. In quel momento però a quella porta apparve improvvisamente Schultz e gridò: “Los, Ios! In bunker”.

Non mi mossi. Ero come insensibile, confuso, impietrito. Mi spinse in modo che insieme al triestino cademmo come due pesi morti. “Los, los”. mi diede un calcio, aprì lo porta e ci sospinse indietro, ciascuno nella propria cella. Forse c’era stato un allarme aereo.

(Testimonianza raccolta da Albin Bubnic).

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GIOVANNI MILLO di Trieste

 «Ho preso tante legnate e tanti pugni sulla faccia che avevo letteralmente rotti tutti i denti. Quando ci portavano qualcosa da mangiare era una brodaglia nera. Non so quanti colpi di moschetto mi sono preso in tutte le parti del corpo. In ogni momento del giorno e della notte ci interrogavano facendoci le domande più strane. Quando siamo usciti, quelli che sono usciti, dopo 40 giorni, pare incredibile ma è la verità, tali erano state le sofferenze fisiche e morali che quando ci siamo trovati fuori non ci conoscevamo più l’un l’altro. Una parte di coloro che sono stati rastrellati in quella circostanza è stata trasportata nei campi di sterminio in Germania. Durante la mia permanenza in Risiera ho potuto vedere per strane combinazioni, che vi erano dentro pure dei bambini e adolescenti da 8 a 15 anni».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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GOTTARDO MILANI nato a Cavarzere (Venezia) abitante a Torino

 «Ricordo che un giorno, circa dopo tre settimane dalla mia entrata, le SS hanno portato nel cortile con un furgoncino un alto ufficiale – credo colonnello delle SS – comandante generale della Risiera. L’ho riconosciuto perché l’avevo già visto in Risiera e c’era anche lui quando ci avevano proposto di collaborare con loro. Quando l’hanno portato in Risiera, io stavo lavorando nel cortile interno.

Un altro giorno ho visto un camion Fiat pieno di cadaveri, di uomini e donne. Poi ho visto delle SS – dicevano che fosse un ucraino – che nel reparto più piccolo del capannone, dove c’era il forno crematorio, tagliava con una mannaia i cadaveri. Un giorno prima che portassero il cadavere del comandante delle SS e prima ancora della divisione in due gruppi, ci hanno chiamati tutti nel cortile e ci hanno fatto assistere alla fucilazione di due nostri compagni. Dicevano che si erano ribellati o risposto male a un sergente delle SS. Uno di questi si chiamava Pairolero ed era da Veneria (presso Torino), e l’altro era di Torino, ma non ricordo il nome. I tedeschi hanno scelto 8 o 10 detenuti del nostro gruppo, li hanno consegnato i fucili ed ordinato di fucilare i due compagni, mentre le SS – con i mitra in mano – stavano da parte».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

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GIOVANNI HAIMI WACHSBERGER di Fiume

 «Ho veduto massacrare di botte un povero vecchio che, spazzando il cortile, non aveva messo l’immondizia nel punto esatto ordinatogli da una SS. Durante un bombardamento, mentre i tedeschi si erano rifugiati nei bunker, due prigionieri riuscirono a fuggire dalle celle. Per rappresaglia furono fucilati tutti i loro compagni. Nel giugno del 1944 mi accorsi realmente di ciò che stava succedendo. Le vittime venivano uccise nel garage, la porta di accesso al forno crematorio vero e proprio era mascherata da un mobile di cucina. Una sera vedemmo un camion carico di soldati morti: si intravedevano soltanto le scarpe perché i corpi erano coperti da tendoni. Quando il camion entrò nel garage ci fecero portar dentro la legna che precedentemente avevamo segato. Penso che quei soldati fossero tedeschi. Di notte sentivamo nel cortile un andirivieni di gente che implorava pietà e mandava urla strazianti. Per coprire le urla i tedeschi alzavano il volume degli apparecchi radio, accendevano i motori degli autocarri, aizzavano i carni di guardia affinché latrassero.

Eravamo troppo vicini per non renderci conto di ciò che stava succedendo ma non riuscimmo mai a sapere come quei disgraziati venissero uccisi. Il giorno dopo, i loro abiti si trovavano nel magazzino e non erano quasi mai macchiati di sangue. Gli ucraini e i mongoli incaricati delle esecuzioni venivano ubriacati nelle prime ore del pomeriggio, affinché di notte fossero in forma. Anche qualche tedesco partecipava a queste orge. Una notte, dalla mia camerata vennero prelevate cinque persone, che non fecero più ritorno. Una domenica arrivarono due autobus pieni di gente che mi sembrò triestina. Fu ammassata tutta in un antro senza finestre chiamato la cella della morte: nella notte sparirono tutti. Penso si trattasse di ostaggi presi in città durante una retata».

(Testimonianza raccolta da Ricciotti Lazzero).

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MAJDA RUPENA di Trieste

 «La prima domanda che mi rivolsero appena fui messa in cella è stata questa: Come vanno le cose sul fronte? Nessuno pronunciava il proprio nome, avevamo sempre paura che ci fosse qualche spia tra noi. A spiegarmi che cosa succedeva là dentro fu un certo Kabiglio, un negoziante ebreo di origine spagnola, abitante a Mostar. “Guardi il camino, mi disse sottovoce: bruciano la gente”. Ho visto due o tre volte uomini e donne sparire nel locale del forno. Capitava sempre verso le dieci e mezzo o le undici di sera. Per coprire il rumore, spesso le SS mettevano in moto un autocarro o un’automobile o accendevano le radio. Mi ricordo come se fosse adesso: un milite andava a prendere i condannati. Talvolta essi restavano in silenzio, talvolta si mettevano a gridare. Sul selciato lo strascichio dei passi. Le donne portavano sandali, i sandali fanno più rumore delle scarpe. Io mi sono messa ad annotare quel tragico andirivieni. Una notte ho contato i passi di 56 persone che andavano dal cortile fino alla bocca del forno; un’altra notte 73. Poi non sono riuscita più a continuare. Avevo con me in cella mia figlia Sandra. di appena 14 anni. Quando il milite entrava nel camerone, mi coprivo la testa con le mani per non urlare. Sentivo dei tonfi, come un corpo morto che cade su qualcosa di vuoto e poi urla strazianti: “Mamma! Mamma!” in tutte le lingue. La prima notte che entrai in cella ci fu un bombardamento aereo. I prigionieri gridavano: “Giù. Giù bombe. Cadete qui! Almeno potessimo morire subito”. All’alba chiesi a mia figlia: “Di che colore sono i miei capelli?” credevo fossero diventati grigi per lo spavento».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Bicciotti Lazzero).

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CRISTINA SLUGA da Villa del Nevoso (Istria)

 «Già durante il primo giorno dopo il trasferimento nella stanza al secondo piano, guardavo sul cortile attraverso la finestra. Dovevano essere circa le 19: nel cortile c’erano approssimativamente 20 tra uomini e donne, legati e sotto stretta sorveglianza. A due a due venivano condotti dalle SS al crematorio. Era terribile: sentivo delle grida laceranti e il forte rumore del motore di un camion o un’auto blindata che si trovava nel cortile. Le SS hanno portato velocemente a termine il loro lavoro. I poveretti scomparivano letteralmente per la porta del crematorio. Respiravo appena, il fumo maleodorante mi soffocava. C’era un forte odore di carne bruciata. Quelle ore sono state le più terribili che abbia mai vissuto.

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic; Cristina Sluga fu in Risiera dal 4 settembre alla fine di settembre 1944)

 

Testimonianza raccolta dal prof. Carlo Schiffrer di Trieste dall’interrogatorio di un amico superstite:

 «Egli vide un milite delle SS di statura gigantesca che stava conducendo per mano nel secondo cortile davanti alle prigioni, un bamberottolino bruno e ricciuto (certo un ebreo) che zampettava appena. Il bambino incespicò e cadde in avanti: il milite lanciando una bestemmia lo colpi al capo col tacco del suo scarpone. La testa scoppiò letteralmente. Ad anni di distanza quell’amico non riusciva a liberarsi dall’incubo del tonfo provocato dalla povera testolina…».

(Carlo Schiffrer, “La Risiera”. Trieste, 1961).

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ALBINA SKABAR di Rupingrande (Trieste)

 Dopo essere stata denudata, appesa per le trecce a una trave e bastonata fino a svenire, venne cacciata nella cella numero 7. «Di notte, ricorda, sentivo urla terribili, specialmente di quelli che si trovavano nelle prime celle e venivano portati fuori. Ricordo la voce disperata di una donna: diceva di es sere di Gabrovizza e urlava che le SS le avevano ucciso il figlio nella culla. C’era anche una certa Olga Fabian, di un paese del Carso che ora appartiene alla Jugoslavia. C’era una signora di 67 anni, che abitava a Trieste in via Milano: urlava continuamente di essere innocente. L’odore di capelli bruciati era terribile. Ogni tre giorni aprivano le celle e lasciavano che ci lavassimo il viso con un po’ d’acqua in un catino. Quell’acqua del catino doveva servire per tutte. Dopo la guerra sono tornata una volta in Risiera, e sono svenuta».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

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GIORDANO BASILE di Rovigno d’lstria

«Subimmo ogni sorta di sevizie e maltrattamenti. Non potrei dire a quanti interrogatori fui sottoposto. Come conseguenze ebbi una frattura all’occhio destro e alla spalla destra e subii pure una infiltrazione polmonare, oltre alla depressione generale di tutto l’organismo, depressione dalla quale non ho potuto riprendermi ».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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DARA VIRAG di Fiume

«Dietro il garage c’era un passaggio un po’ stretto. Ho fatto alcuni passi in quel vicolo che girava intorno al locale del forno e una delle guardie. il vecchio Fritz, mi ha urlato: “Non lo faccia mai più, non lo faccia mai più!”. Era il maggio del 1944. Sulla base di cemento del camino spuntava un filo d’erba. Pensai che forse era il segno di quelle povere anime dissolte. In marzo si sentivano grida anche di giorno (gridavano anche le SS). Erano urla di dolore, tutti capiscono quando qualcuno urla per il dolore. Ma confesso che non riuscivamo a comprendere chiaramente queste atrocità: dovevamo pensare a vivere e avevamo sempre paura. Dopo un anno così, anche un chiodo che cada sul pavimento scatena un brivido. Se sento il rumore d’uno scarpone sul selciato, adesso, ancora, dico spaventata: “Vengono”».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Bicciotti Lazzero).

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BRUNO PIAZZA di Trieste

«Dovetti sdraiarmi sul tavolato […] ma ero stato fortunato, mi spiegò la sentinella, perché tutti quelli che finivano là dentro venivano prima bastonati […]. Incominciarono a parlare le voci della notte. Dal bunker accanto al mio udii un uomo che mi chiamava piano: “Sono sepolto vivo da 40 giorni, non posso respirare, ho sete. Dammi una sigaretta. Forse stanotte sarò fucilato. Fammi fumare l’ultima sigaretta […]”. E subito dopo dall’altra parte una voce di donna: “Ne ammazzano ogni notte qualcuno. Li portano nel cortile e poi li ammazzano con un colpo alla nuca. Dopo ogni sparo i cani urlano […]. Siamo tutti partigiani”.

(Dal libro “Perché gli altri dimenticano” di Bruno Piazza – Ed. Feltrinelli, Milano, 1956).

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ANTONIETTA CARRETTA nata a Lignano, abitante a Genova

 «Mi misero in un grande camerone, composto di piccole celle. In una di queste rimasi oltre un mese senza lavarmi, pettinarmi ed altre cose assolutamente necessarie in modo particolare per una donna. Non solo d’igiene non si poteva parlare, ma neanche della più elementare forma di pulizia. Il mangiare ce lo portavano dal Coroneo. Nelle celle queste distribuzioni venivano fatte dai mongoli. Le condizioni psichiche e morali erano tremende. Ero in un continuo stato di terrore di essere ammazzata da un momento all’altro. Dopo circa dieci giorni portarono vicino alla mia cella una signora ebrea di nome Olga che abitava a Servola. La notte stessa l’hanno ammazzata. Quando vennero a prenderla, la poveretta piangeva e supplicava; le SS rispondevano con la massima brutalità. Così accadeva tutte le notti. Le celle di giorno si riempivano e di notte si svuotavano. Prima di essere bruciati li ammazzavano con un colpo d’arma da fuoco, perché sentivo gli spari, oppure con un colpo di mazza. I forni crematori erano lì vicino, a pochi metri di distanza dalle nostre celle… Per non far sentire i colpi d’arma da fuoco, mettevano in moto dei motori di camion, o facevano suonare musiche allegre».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)

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ANTE PELOZA di Vele Mune (Istria)

«lo ero nella cella n. 8, solo, nel buio. Mi mancava l’aria. Solo nel soffitto c’era un piccolo foro per l’aria e la luce. Ci passavano il cibo attraverso la finestrella della porta, che altrimenti restava sempre chiusa. Nella cella c’erano molti ratti. Di pomeriggio e di sera sentivo quasi in continuazione le urla della gente e delle grida in croato, sloveno e italiano. Per il cortile andava su e giù un carro armato oppure un’auto blindata e faceva un grande rumore sì da coprire le grida alla libertà e le urla sconvolgenti. Allora sapevamo che i nostri compagni venivano trascinati in crematorio. Quando faceva scirocco e non c’era vento il fumo fetido entrava anche nelle celle. C’era un tale tanfo di carne umana bruciata che quasi non si poteva respirare e sconvolgeva lo stomaco».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic)

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CARLO SKRINJAR di Trieste

 «Le urla delle donne e degli uomini duravano anche tre o quattro ore. Finiva un urlo e poco dopo ne cominciava un altro. Molte notti andarono avanti così. Vicino a me, in cella, c’era un giovane di diciott’anni dai capelli ricciuti. Non ricordo il suo nome. Per lo spavento imbiancò in tre giorni. Dalla mattina alla sera tardi si sentivano aprire e chiudere i cancelli. Chi guardava da qualche spioncino avvertiva: “E’ arrivato un autocarro…”. Verso le otto di sera c’era un periodo di silenzio, poi cominciavano le urla. Noi eravamo convinti che stessero trascinando i condannati dal cortile verso la zona del forno. Si sentiva la guardia che veniva a tirar fuori la gente dalle celle, e la gente che urlava finché la voce spariva nel nulla. Il giovane dai capelli ricci tremava e balbettava: “Adesso tocca a noi”. Eravamo terrorizzati. Sento ancora quelle grida rauche ».

(Testimonianza raccolta da A. Bubnic e Ricciotti Lazzero).

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LUIGI JERMAN nato a Capodistria, abitante a Trieste

 «Essendo impiegato presso la raffineria di S. Sabba, ebbi più volte occasione di passare per ragioni di lavoro lungo il pontile, dove i soldati tedeschi portavano i sacchi delle ceneri dei cadaveri che venivano bruciati nei forni crematori della Risiera. Ho potuto vedere nel fondo del mare molte ossa umane, resti cioè di cadaveri che non poterono essere completamente bruciati».

(Testimonianza raccolta da Giovanni Postogna)