IL LAGER DI BOLZANO

di Ada Buffulini

A trent’anni dalla guerra del campo di Bolzano non rimane più nulla; al suo posto grandi costruzioni di case popolari. Solo una stele ricorda i 15.000 prigionieri passati di là e in gran parte non più ritornati dai lager della Germania. Ma il Comitato Antifascista di Bolzano, di cui è presidente il sindaco della città Bolognini, ha voluto chiudere le manifestazioni del Trentennale il 13 e 14 dicembre con una mostra dei cimeli rimasti, organizzata nel Palazzo Comunale e con una tavola rotonda, alla quale hanno partecipato l’on. Venanzi vice Presidente del Senato e Comandante Partigiano, l’on. Olivi medaglia d’argento della Resistenza, un rappresentante dell’Associazione- Antifascisti Austriaci, il rappresentante della F.I.R., il rappresentante della Comunità Israelitica di Merano, la dott. Buffulini dell’A.N.E.D. detenuta per 8 mesi nel campo di Bolzano, di cui due passati nelle celle, e membro del CLN del campo, e la sig.ra Franca Turra «Anita» membro del CLN di Bolzano, che aveva tenuto costantemente i contatti col campo.
Il giorno 14 dicembre, dopo una messa in suffragio dei caduti e la deposizione della corona al cippo, una pubblica manifestazione in un cinema, nella quale hanno parlato la signora Mascagni, combattente antifascista e membro del Comitato Antifascista di Bolzano, e il sindaco di Bolzano, che ha chiuso la manifestazione con un nobile discorso in cui sottolineava gli impegni che dal ricordo del doloroso passato vengono a quanti oggi vivono e operano in una zona bilingue, particolarmente sensibile ai problemi della democrazia e dell’autonomia.
Alla fine i partecipanti della manifestazione sono stati invitati alla caserma Mignone, a una colazione, in cui i reduci dei campi erano uniti a soldati e ufficiali della caserma, per riaffermare che le forze armate sono e vogliono essere garanti della libertà e della democrazia nel nostro paese.

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Il campo di Bolzano, destinato allo smistamento dei detenuti politici ed ebrei, arrestati in Italia e inviati nei campi della Germania, iniziò la sua attività alla fine del luglio 1944 con l’arrivo di prigionieri evacuati dal campo di Fossoli.
Fin dall’inverno ’43 alcuni detenuti altoatesini, civili e militari, erano detenuti nello stesso campo, che funzionava allora come una specie di compagnia di disciplina. Ma verso l’estate iniziarono i lavori per ricevere un gran numero di prigionieri.

In un grande capannone in muratura, una specie di hangar destinato originariamente a magazzino di materiale militare vennero erette delle tramezze, dividendole in grandi vani, i cosiddetti blocchi A B C D E F; fu allestita una cucina e una tettoia per i servizi igienici.
Davanti ai blocchi la piazza dell’appello; di rimpetto alcune baracche in legno ospitavano la mensa delle SS e l’infermeria. All’ingresso la palazzina del comando delle SS.
Dietro all’infermeria una casetta ospitava la lavanderia, e alcune baracche erano destinate alle officine dei meccanici, falegnami, elettricisti.
In un tempo successivo (ottobre 1944 e mesi successivi) furono costruite la prigione del campo (le cosiddette «celle») e tutte le altre baracche per i prigionieri dalla G alla M.
Fin dall’inizio il campo A era destinato ai lavoratori interni del campo, compreso il capocampo, i falegnami, elettricisti, meccanici sarti, ecc. Il blocco F era destinato alle donne, politiche ed ebree. Il blocco E all’inizio ospitava una ventina di giovani stranieri, con i quali non ci fu mai alcun contatto. Erano di nazionalità diverse, probabilmente soldati, e furono fucilati una mattina al Castello senza che si fosse riusciti a saper niente di loro.
In seguito il blocco E fu sempre destinato ai cosiddetti «pericolosi» con i quali non si poteva comunicare. Era un ambiente allucinante, quasi buio perché tutto chiuso, in un’aria ammorbante per la puzza della cancrena dei congelati (ce ne furono molti fra i partigiani della montagna nell’inverno 1944-45), tra i lamenti dei febbricitanti, ai quali nessuno poteva portare alcun aiuto.
Nel campo erano chiusi circa 1.200 prigionieri nei primi tempi, in seguito superarono i 2.000. Molti erano inviati nei campi satelliti di Merano, Colle Isarco, Bressanone, Sarentino, Malles e probabilmente anche altri.
Fabbri, falegnami, tipografi, meccanici, sarti, lavandai, che garantivano il funzionamento del campo, lavoravano nelle rispettive baracche; gli ebrei erano destinati solo alla pulizia. Alcune squadre, prevalentemente di donne, erano destinate permanentemente alla pulizia delle villette dei tedeschi; altre andavano a lavorare in città o alla galleria del Virgolo; molte donne cucivano occhielli in una fabbrica di tende militari. Passarono per il campo ed ebbero un regolare numero progressivo circa 15.000 detenuti; non furono numerati gli ebrei, alcuni poliziotti che passarono rapidamente per il campo diretti in Germania, alcuni cosiddetti «lavoratori liberi» rastrellati in Italia e mandati in Germania a lavorare più o meno volontariamente, alcuni politici che furono chiusi subito nelle celle al loro arrivo e non ne uscirono che per partire per i campi di sterminio.
La popolazione del campo era molto varia e cambiava continuamente. Numerosi gli ebrei, tutti destinati ai campi di sterminio, dei quali 100-150 rimasero poi nel campo dopo il febbraio ’44 (in realtà ’45: si tratta di un refuso nel testo originale, NdR), quando non fu più possibile far passare i convogli per la strada del Brennero.
Gli altri erano tutti «triangoli rossi», cioè politici, tra i quali però, oltre a tutte le sfumature dell’antifascismo, vi erano gruppi di cosiddetti fascisti dissidenti, collaborazionisti poco scrupolosi, spie che facevano il doppio gioco, borsaneristi, donne amanti dei fascisti che erano venute a noia ai loro protettori, e altri tipi poco raccomandabili.
Una strana caratteristica del campo (che però fu ritrovata poi anche nei grandi Lager) era proprio questa, che i prigionieri arrestati in Italia da fascisti e tedeschi arrivavano al campo come «antifascisti» senza alcuna documentazione sui precedenti, sulle cause dell’arresto, per cui partigiani combattenti, dirigenti politici, ascoltatori di radio Londra, nemici personali di qualche capetto fascista, erano tutti parificati, col risultato che andarono a morire in Germania persone del tutto innocue.

Un’organizzazione politica esisteva nel campo già all’inizio della sua attività, formata in gran parte dall’organizzazione già operante a Fossoli. Fino alla fine funzionò un CLN del campo, in contatto costante col CLN di Bolzano e con quello di Milano.
A Bolzano città il lavoro fu organizzato da «Giacomo» (Visco Gilardi) e da «Anita» (Franca Turra); il collegamento col CLN di Milano fu tenuto da Virginia Scalarini, figlia del celebre caricaturista dell’Avanti!. Primo compito del CLN interno del campo era quello di fare un continuo censimento della popolazione del campo, che tra arrivi e partenze cambiava continuamente, individuare i politici, tenerli uniti, aiutarli per quanto era possibile, organizzare delle fughe. All’inizio del ’45 si cercò anche di preparare una eventuale rivolta del campo, in previsione che i tedeschi all’ultimo momento procedessero a un massacro dei prigionieri, specialmente di quelli delle celle. Le possibilità erano poche (si disponeva solo di alcune rivoltelle, mentre i tedeschi erano bene armati), però i prigionieri erano 2.000 e le guardie circa una trentina, e si poteva sperare sulla sorpresa.
La preparazione risultò poi inutile, perché il campo fu evacuato dagli stessi tedeschi agli ultimi giorni di aprile, quando già era intervenuta la Croce Rossa Internazionale.

Il campo di Bolzano non era un campo di sterminio, e quindi non fu teatro degli orrori ben noti di altri campi. Ai prigionieri venivano lasciati gli indumenti personali, da indossare sotto la tuta regolamentare. Il mangiare era scarso, specialmente per quelli che non lavoravano, compresi i prigionieri delle celle.
Urli, calci, colpi di randello o di frustino toccavano a chi toccavano per le più futili ragioni ed anche senza ragione affatto; bastonature crudeli avvenivano nella palazzina del comando ed entro le celle, specialmente per opera di due ucraini, Otto e Miscia, che erano veramente delle belve, ai quali si deve la morte di una ventina di detenuti nelle celle, uccisi nelle maniere più barbare.
Più di tutto pesava sul campo l’angoscia del futuro, lo strazio delle partenze per una destinazione ignota, della quale si ignorava per fortuna l’orrore, ma si intuiva tremendo l’impatto con un mondo di sopraffazione, di barbarie, di crudeltà, che pareva riportare il mondo ai momenti più oscuri della storia.

(Da Triangolo Rosso n. 1-2 1976)