Una grande casa editrice italiana, la Rizzoli, ha dato alle stampe un libro-testimonianza di un anziano superstite di Dachau, di cui per rispetto non diremo il nome: il libro si intitola L’ultimo Sonderkommando italiano, a cura del giornalista Roberto Brumat, nelle librerie dal 6 ottobre 2013. Si tratta di un testo sconcertante, dal quale, si apprende, lo stesso Brumat ha tratto anche un documentario televisivo: Dachau, baracca 8 numero 123343, già trasmesso all’inizio del 2013 da RaiStoria.
Confessiamo di non conoscere il documentario, ma abbiamo letto il libro, che per quanto riguarda il Lager è una lunga sequela di affermazioni letteralmente incredibili.
Secondo il testo l’immatricolazione a Dachau avveniva con “una specie di timbro postale sul braccio”: i numeri “apparivano in rilievo e persi sangue”. (Ci sarebbero volute più sedute, al ritorno, a un medico di Varese, per cancellare quei segni dal braccio del superstite). E ancora andò bene: “Seppi solo più tardi che in quel periodo nei Lager non avevano più tempo per marchiare a fuoco come facevano prima: troppi prigionieri”.
“Con una potente colla mi attaccarono sulla giacca un triangolo rosso con all’interno la sigla ‘Pi’. Era un modo per far sapere alle SS che ero un prigioniero di guerra italiano”. Prima il triangolo rosso sarebbe stato riservato ai politici, ma in seguito “era diventato il simbolo di noi militari internati”.
“Il binario che passava sotto il cancello si fermava all’interno del piazzale che poteva accogliere fino a una decina di vagoni ferroviari”.
I Kapò “dormivano fuori del campo, in speciali alloggi nelle aree riservate alle SS”.
“Alle 5 il capo-baracca ci portava incolonnati all’appello nell’enorme piazzale dove ci lasciavano in piedi fino alle 8”.
“Nella baracca c’erano i letti a castello a 5 piani”. “Niente coperte, materassi o pagliericci”.
“Di notte non c’era modo di fare i propri bisogni. Dovevamo arrangiarci per terra, e al mattino due di noi a turno dovevano pulire”.
“Di domenica c’erano le messe per le diverse religioni: cattolica, ebraica, ortodossa”. “Però per andarci dovevi avvisare la guardia che ti scortava fino alla baracca dove si teneva il rito che ti interessava”. “Io non ci sono andato mai, se non a Natale”.
Un prigioniero si tolse la vita correndo verso al filo spinato: “Prese fuoco in un attimo”.
Per l’utilizzo delle docce “c’era un giorno destinato a ciascuna nazionalità”.
“Un giorno nel lager entrò un treno carico di persone: uomini, donne e bambini”. Erano ebrei. “Donne e bambini vennero messi su vagoni diretti con ogni probabilità ad Auschwitz”. I nazisti eliminarono con un colpo di pistola alla testa “dieci o quindici bambini”. Poi uccisero con una mitragliatrice tutti gli uomini restati sul piazzale.
Si tratta di dichiarazioni che non trovano alcun riscontro nella storia del campo, dove certo a nessun prigioniero è stato marchiato “a fuoco” sul braccio il numero di matricola; dove i triangoli rossi, come in tutti i Lager nazisti, hanno sempre contraddistinto i deportati politici; dove molti prigionieri sono stati violentissimamente puniti per molto meno di aver fatto i propri bisogni in un angolo della baracca; dove i binari ferroviari non entravano affatto nel grande piazzale dell’appello, ma si fermavano fuori del cancello; dove certo nessun deportato poteva chiedere, la domenica, di essere scortato da una guardia al rito religioso, cattolico, ebraico o protestante che fosse; dove chi, quando e se un prigioniero doveva fare una doccia lo decidevano esclusivamente le guardie.
In mezzo a questa sequela di fandonie risulta quanto mai improbabile che il prigioniero, mentre era al lavoro tra le macerie di un bombardamento nella stazione di Monaco, abbia visto davvero arrivare “un piccoletto” che altri non sarebbe stato che Adolf Hitler in persona.
Appare così del tutto inverosimile la parte centrale del libro, quella che offre lo spunto per il titolo.
“Poco prima della liberazione” il nostro sarebbe stato assegnato al Sonderkommando per 15 giorni. Nella ricostruzione dell’estensore del testo, il testimone si contraddice palesemente anche a questo proposito. Prima dice che ”Dopo aver finito il nostro turno di notte ai forni, ogni mattina tornavamo a dormire nella nostra baracca”. Poco dopo però aggiunge: “Al mattino nel locale dei forni, il francese ed io facevamo un mucchio di quei poveri resti, come fossero fascine di legna, e la sera si cominciava a bruciarli. Non di giorno, perché da fuori nessuno doveva vedere il fumo”. (Ma centinaia, migliaia di testimoni hanno visto il fumo uscire dai crematori giorno e notte).
“C’erano 4 forni, ma quello di sinistra, destinato agli ebrei, era quasi sempre chiuso”.
Fino a che, in un crescendo di raccapriccio, si legge: “Una notte arrivò un treno di ebrei, Dopo averli fatti spogliare completamente dissero loro che potevano andare alle docce. Ma altro che docce… Poverini, li hanno fatti entrare nella camera a gas”.
“Entrai in quello scenario infernale alle 5,30 del mattino. Dentro c’era un forte odore di gas, quindi le SS ci fecero indossare una mascherina da chirurgo per poter respirare. C’era un’atmosfera spettrale, con quattro luci accese in alto, agli angoli del locale”. “Sessanta uomini di ogni età, erano ancora attaccati, uno all’altro, era qualcosa che ti spaccava il cuore…”. Tutti gli studi più accreditati sul campo di Dachau sono concordi nel dire che la camera a gas, in quel Lager, non venne mai utilizzata. Sembra ricordarsene anche l’estensore del libro, che infatti fa dire all’ex deportato: “Qualcuno dice che a Dachau la camera a gas non venne mai usata. Io li ho visti i morti soffocati. Li ho staccati a fatica gli uni dagli altri”.
Data l’incredibile disinvoltura con la quale nel libro si inanellano inesattezze e falsità, queste ultime dichiarazioni, che dovrebbero smontare uno dei dati acquisiti della storia di Dachau (e cioè, appunto, che lì la camera a gas non entrò mai in funzione), perdono qualsiasi credibilità e verosimiglianza
Non conosciamo naturalmente il testo della testimonianza originale rilasciata dal nostro compagno di Dachau, che giunto alla bella età di 91 anni ha anche il diritto di confondere il visto con il sentito dire, l’esperienza del proprio campo con quanto appreso in questi decenni a proposito di altri campi.
Di certo qualsiasi giornalista degno di questo nome prima di pubblicare affermazioni di quel tenore avrebbe avuto il dovere di verificarle: stiamo parlando di Dachau, uno dei Lager nazisti più studiati, sul quale esiste una autentica montagna di ricerche e di testimonianze. Una verifica sarebbe stata più che agevole, e avrebbe evitato di esporre oggi un ex deportato, una persona che ha già vissuto un terribile dramma nella propria vita, a una critica severa.
Per parte nostra avvertiamo il dovere di prendere le distanze da un testo così censurabile, per almeno tre validi motivi. Il primo, per tutelare la testimonianza faticosa, dolorosa, impegnata, appassionata di tanti ex deportati nei campi nazisti che a dispetto dell’età ancora si prestano a raccontare con correttezza e dignità ai giovani la propria tragica esperienza. Il secondo, per non fornire su un piatto d’argento argomenti al negazionismo e ai denigratori degli ex deportati. Il terzo, per tutelare la memoria dei tanti, italiani e di altre decine di nazionalità, che da Dachau e dagli altri campi di Hitler non sono tornati.