Paolo Granzotto
Montanelli
Il Mulino, Bologna 2004
Granzotto e Montanelli
Due giornalisti
di Serena Gana Cavallo
Nella collana “L’identità italiana” de Il Mulino, diretta dallo storico Ernesto Galli della Loggia è stata pubblicata una biografia di Indro Montanelli per la quale a Paolo Granzotto è stato conferito il Premio Capalbio per il Giornalismo dalla giuria, presieduta da Paolo Mieli.
Un libro su un personaggio così importante e celebrato e con tali e così prestigiose referenze merita senz’altro una recensione, o meglio una in più oltre a quelle, entusiaste, apparse sul Corriere della Sera e su La Stampa e ad altre, tra cui una più tiepida apparsa sul Sole 24 ore, nella quale Riccardo Chiaberge fa notare, sia pure con indulgenza, alcune inesattezze di Granzotto, come le date di nascita e di morte di Montanelli sbagliate, l’attribuzione della rivista “Il Selvaggio”non a Mino Maccari ma a Longanesi, una collaborazione a Primato ben tre anni prima che questa pubblicazione vedesse la luce.
Fin qui si potrebbe trattare di inezie, ma una lettura appena appena attenta del volume di Granzotto apre a chiunque abbia un minimo di conoscenza, non della storia, ma delle cronache del ventennio e della Liberazione, spazi di assoluta vertigine, quasi la percezione di mondi paralleli in cui il senso della realtà si perde.
Indubbiamente questo deriva in notevole parte dal soggetto del libro, il nume tutelare del giornalismo italiano, che costellò le sue narrazioni e spesso i suoi articoli di magnifiche invenzioni. E tuttavia un biografo, ancorché molto emotivamente coinvolto con la persona di cui narra (e di cui, a questo punto va detto, giustamente si riconosce allievo) dovrebbe spingere il suo sforzo di obiettività giornalistica almeno verificando qualche data e qualche documentazione delle vicende di cui narra.
Granzotto non lo ha fatto, per cui – per fare una prima carrellata di discrasie storiche e logiche- apprendiamo che il tredicenne Montanelli “partecipò alle prime liturgie fasciste, la divisa di Balilla, le esercitazioni coi moschetti di legno…..etc” nel 1922 a Rieti (pag. 22, ripreso anche a pag.26). Poiché nel 1922 Mussolini prese il potere, ma non vi arrivò con tutto il kit completo della “rivoluzione fascista”, può essere utile sapere che l’Opera nazionale Balilla fu fondata nel 1926/27 (De Felice, Gli anni del consenso, pag. 190 e segg.). E se nel 1931 Montanelli, essendo riuscito a pubblicare un articolo su “Byron e il cattolicesimo” si sentì “come se avesse vinto i Littoriali della cultura” bisogna dire che fu assai preveggente poiché i primi si svolsero nel 1934.
Naturalmente è lecito e spesso praticato scrivere agiografie sui propri numi tutelari, mentre le biografie presuppongono una indagine scientifica che, se condotta con rigore, può portare a qualche disillusione o almeno a qualche dubbio sul personaggio che si vuol narrare.
Nel caso del nostro “biografo”, nulla di tutto ciò. Recensirlo, quindi, conduce inevitabilmente a intaccare parecchie consolidate mitologie su Montanelli stesso, la cui formazione, ad esempio, certo fu molto precoce se dobbiamo credere che (come afferma Granzotto) sempre nel ’22 a Rieti, l’adolescente Indro consultasse alla biblioteca comunale La Voce di Prezzolini, e che dai tredici ai sedici anni si appassionasse nella lettura di “Rivoluzione liberale” di Gobetti (fondata nel 1922 chiusa nel 1925). Non si sarà, comunque, stancato nel leggere i libri di Longanesi (pag. 23) visto che questi pubblicò solo, nel 1926, il “Vademecum del perfetto fascista”, una sorta di decalogo in cui appare il famoso assunto “Mussolini ha sempre ragione”, e, nel 1927, un saggio dal titolo “Cinque anni di rivoluzione”.
Procedendo nella biografia, nell’estate del 1934 troviamo (pag. 23) Montanelli convocato a Palazzo Venezia con tutta la redazione de “L’Universale”, testata con la quale collabora da un anno, ma poi (pag.33), apprendiamo anche che in agosto (subito dopo l’incontro con Mussolini?) si imbarca a Le Havre per andare a fare il corrispondente di Paris Soir dal Canada.
La vita di Montanelli in quell’anno deve essere stata oltre che movimentata, alquanto ubiqua, poiché Granzotto afferma che quell’imbarco avvenne dopo esser stato, prima a Grenoble e poi a Parigi, per una decina di mesi (pag. 31), facendo vita bohemienne e il giornalista “volontario” sempre per Paris Soir. Fatto sta che tra Palazzo Venezia, Grenoble, Parigi e il Canada, con un ultimo spostamento come praticante alla United Press a New York, anche se secondo Granzotto solo verso i trent’anni Indro decise di voler fare il giornalista, un osservatore superficiale potrebbe ben affermare che Montanelli, moltiplicando sé stesso, soltanto quello cercava ostinatamente di fare. Al punto che all’aggravarsi della crisi in Etiopia egli si propose come inviato all’United Press che però declinò l’offerta (Tiziana Abate, “Indro Montanelli. Soltanto un giornalista”, pag. 17).
Indro rientrò in Italia e si arruolò come volontario. Dice Granzotto (pag. 35) che si arruolò perché così aveva fatto “tutta la gioventù che aveva in corpo qualcosa” e inoltre poiché “lo mosse il fascino dell’Africa, l’esotismo dei Tucul (!) e delle faccette nere“. Anche qui il Montanelli granzottiano si rivela dotato di poteri paranormali: si imbarcò infatti per l’Africa il 22 aprile del ’35 e la canzone Faccetta nera fu scritta in quello stesso mese da Giuseppe e Renato Micheli e lanciata il 24 giugno a Roma al teatro Capranica da Carlo Buti.
Ma il nostro biografo aggiunge che “l’idolo della sua infanzia era stato il Kim di Kipling e fantasticava di emularlo sulle ambe…”. La cosa appare oscura a chiunque abbia letto Kim, ed è evidente che ancora una volta Granzotto è duramente tradito dai suoi ricordi. Montanelli, in realtà, disse a suo tempo che il suo idolo era Kipling e questo è ben più logico e rivelatore delle sue aspirazioni. Kipling era giornalista e scrittore, ciò che anche Indro fu in Africa, anche se amava concentrare i suoi ricordi di scrittura coloniale nell’affermazione di essersi sentito, dopo il successo del “XX Battaglione Eritreo”, finalmente “un letterato“, (pag. 39).
Sulla sua esperienza africana il Montanelli “letterato e guerriero” costruì alcuni miti che gran parte dei suoi biografi ha assunto come verità rivelata. In realtà la guerra di Montanelli durò solo dall’ottobre (inizio ufficiale delle ostilità) al dicembre del 1935. Al proposito si veda il saggio del prof. Marco Lenci, “L’Eritrea e l’Etiopia nell’esperienza di Indro Montanelli”, pubblicato nel n° 33 di Studi Piacentini, nel 2003, saggio che è evidentemente sfuggito a Granzotto. Tuttavia un breve cenno, anche se totalmente inesatto, si trova anche nella biografia che di Montanelli scrisse nel 2000 Marcello Staglien “Montanelli. Novant’anni controcorrente” in cui (pag.92) si afferma che nelle ultime settimane di permanenza in Africa Montanelli “aveva dato una mano a mettere assieme un foglio, Il Corriere eritreo…..”. Poiché questa è una delle fonti citate dal nostro biografo, evidentemente la piccola notizia è stata giudicata priva di interesse, o forse troppo poco coerente con la vulgata tradizionale.
Sta di fatto che Montanelli, dopo una ferita non grave nel dicembre precedente, nel gennaio del ’36 dà alle stampe il suo “XX Battaglione Eritreo”, che sarà recensito entusiasticamente nel maggio successivo da Ugo Ojetti e da molti altri, tra cui Goffredo Bellonci. Quest’ultima recensione, ripresa da una precedente pubblicazione su Il Giornale d’Italia, appare il 1° settembre su “Il Corriere dell’Impero”, testata assunta dal diffuso quotidiano di Asmara “La Nuova Eritrea” alla proclamazione dell’Impero nel maggio del ’36, e che il 4 novembre dello stesso anno cambierà ancora nome in “Corriere Eritreo” per disposizioni superiori di riordino della stampa quotidiana in A.O.I., in quanto il nome “Corriere dell’Impero” va al giornale stampato ad Addis Abeba, capitale dei territori coloniali.
Montanelli lavora dunque per La Nuova Eritrea, che è già in crescita di copie, di foliazione e di investimenti, dal dicembre del ’35, per amichevole richiesta del padre Sestilio al direttore Leonardo Gana, che conosce da tempo e con cui è in ottimi rapporti. Indro ottiene così la tessera da giornalista, che al momento non aveva, e che, nel gennaio ’36, con l’ulteriore aiuto di Mario Badoglio, rende possibile sia la pubblicazione su Civiltà fascista di un pregevole pezzo sull’inferiorità razziale “dei negri“, sia il provvedimento con il quale “[Indro Montanelli] viene trasferito dal XX Battaglione Eritreo al Drappello Servizi Presidiari e assegnato a prestare servizio all’Ufficio Stampa e Propaganda” (Lenci, op. cit.).
Di fatto, Montanelli continua a lavorare nella redazione dell’Asmara, fino all’inizio di agosto del 1936, dopo di che gli succede, come presenza costante sul giornale Mario Appelius. Il 14 agosto parte da Massaua il padre di Montanelli, che aveva svolto all’Asmara l’incarico di Presidente di una commissione ministeriale per una sessione straordinaria di esami organizzata per 1839 civili e militari italiani residenti nelle colonie, preparata nei mesi precedenti e conclusasi a luglio.
E’ possibile che la partenza, forse contemporanea, di Indro sia dovuta al fatto che non ebbe esito positivo la proposta del Direttore dell’agenzia Stefani al Ministro della Stampa e Propaganda di nominarlo corrispondente da Asmara (v. Lenci, op.cit. pag.213). Questo non interruppe comunque i rapporti con la testata, per la quale tra il dicembre ’36 e il febbraio ’37 fu inviato a Parigi.
Potrebbe divenire uggioso dedicarsi alla miriade di inesattezze, errori, omissioni e mancate verifiche che costellano il testo del premiato Granzotto, ma di alcune, particolarmente rilevanti, conviene fare ancora cenno.
Tra il dicembre del ’39 e il marzo 1940 si consumò la cosiddetta Guerra d’Inverno tra l’Unione Sovietica e la Finlandia. Montanelli era sul posto ed ancora una volta Granzotto si lascia depistare dai suoi e dagli altrui ricordi e scrive che i numerosi corrispondenti stranieri ” non avendo gli scrupoli né la passione del collega italiano, quando i sovietici minacciarono di bombardare la capitale….se ne andarono alla chetichella, lasciando Montanelli solo.” (pag. 66).
Purtroppo in Finlandia nulla sanno di questo fatto increscioso. Nell’ottobre 1999, in una cerimonia patrocinata dal locale Ministero degli Esteri, fu infatti esposta una targa commemorativa nell’ Hotel Kamp di Helsinki, quello in cui era la mitica Press Room. Erano presenti due dei corrispondenti di guerra dell’epoca, David Bradley (USA) e Carl Adam Nycop (Svezia), in rappresentanza dei 303 giornalisti di 23 paesi che vi lavorarono nel periodo del conflitto. Nel dare conto dell’avvenimento il sito governativo finlandese (http://virtual.finland.fi/finfo/english/kamp_press) cita una corrispondenza di Edward Ward, della BBC, inviata a Londra in data 13 marzo 1940, corredata da una foto di gruppo, piuttosto folta, scattata alla Kamp Press Room il 23 marzo 1940. In essa si riconosce, tra gli altri, Martha Gellhorn, che Granzotto cita come unica altra giornalista rimasta sul campo. Dato l’affollamento non si riesce a capire se sia presente anche Montanelli.
A proposito dell’invasione nazista della Norvegia, la biografia indulge ancora una volta all’aneddoto riferendo che Montanelli fu licenziato (pro tempore) dal furioso direttore del Corriere della Sera perché non avrebbe dato notizie della battaglia aeronavale sullo Skagerrak, di cui aveva riferito l’inviato della Stefani, Mario Appelius e che, secondo Montanelli, costui aveva inventata di sana pianta.
Una piccola verifica avrebbe evitato a Granzotto di cadere ancora una volta in errore per eccesso di credulità. Tra il 9 e il 10 aprile 1940, proprio nello Skagerrak, alcuni sommergibili inglesi, tra i quali il Truant e lo Spearfish, affondarono l’ incrociatore Karlsruhe e colpirono gravemente la Lùtzov, mentre sei cacciatorpediniere inglesi ne affondarono due tedesche danneggiandone numerose altre. Contemporaneamente 10 aerei dell’aviazione della marina bombardarono, affondandolo, l’incrociatore leggero Konisberg. La battaglia continuò nei giorni seguenti sul mare di Naarvik. (www.lasecondaguerramondiale.it/norvegiapg1)
Saltando alcuni anni ed alcuni, o molti, incerti episodi, arriviamo all’arresto, condanna ed evasione di Montanelli, vicende con alcuni aspetti oscuri e dubbi che Granzotto, tutto preso a riproporre, con minime varianti, il già raccontato, non contribuisce a dissipare. Tuttavia, lui stesso nutre almeno qualche evidente perplessità e confessa che non è chiaro perché Montanelli sia stato condannato a morte, oltre a definire l’evasione da San Vittore “un episodio dai contorni indecifrabili” (pag.86), ma la sua sete di verità, storica o biografica, non va oltre.
Le tentazioni (piuttosto che i tentativi) di Montanelli di unirsi alla Resistenza, iniziano, secondo Granzotto, nella prima parte del ’43 con un incontro in Valsassina con esponenti non comunisti, che tuttavia fu così deludente da fargli cambiare idea. Dopo l’ 8 settembre ’43 Montanelli, “ricercato oltre che dai fascisti, dai nazisti” (pag..82), si dà alla clandestinità “appena in temp la mattina dell’ 11 settembre una squadra di soldati tedeschi fece irruzione in Via Solferino, cercando proprio di lui.” Abbandona quindi la casa di Piazza Castello in cui abita con la moglie Maggie e per settimane vive alla giornata, dormendo in alloggi di fortuna, vagando per la città, intrattenendo rapporti con capi milanesi di Giustizia e Libertà come Poldo Gasparotto (lo riferisce Marcello Staglieno op. cit, pag.173, pag.177), anch’egli ricercato da fascisti e tedeschi, che non si è nascosto, ma si limita a cambiare alloggio ogni notte. L’ 11 dicembre ’43 Gasparotto, secondo una biografia scritta da suoi ex allievi del Liceo Berchet, “viene arrestato con alcuni compagni in Piazza Castello, in una imboscata tesa loro dai fascisti con la complicità di un farmacista e del figlio….”. Secondo Montanelli, nella autobiografia raccolta da Tiziana Abate (“Montanelli. Solo un giornalista”, pag 105) “Gasparotto…..era stato arrestato sul portone di casa mia, dove era venuto a cercarmi.”.
In una lettera che nell’agosto del ’44 Montanelli (subito dopo la sua fortunosa evasione e il suo arrivo in Svizzera tra i rifugiati antifascisti) inviò a Luigi Gasparotto, il padre di Poldo, due mesi dopo che questi era stato fucilato a Fossoli il 22 giugno, si legge: “Ci incontravamo quasi ogni giorno quando scendevamo a Milano e io non mi stancavo di ammirarlo(…)..Quando fu arrestato, seppi da Martinelli che Poldo aveva taciuto il mio nome, insieme a quello di tanti altri(….).Quando poi fui arrestato, seppi o meglio compresi, che egli aveva taciuto, negli interrogatori, il mio nome. E a questo silenzio(….)devo la vita.” Le incongruenze che nascono dalle narrazioni suesposte non hanno bisogno di essere evidenziate, anche perché il più incongruente di tutti è Montanelli che, essendo in fuga, veniva cercato a casa da Gasparotto – col quale si incontrava, a suo dire, da clandestino, quasi ogni giorno – e che, essendo stato condannato a morte, diceva che era proprio il silenzio di Gasparotto che lo aveva salvato.
Granzotto, peraltro, sorvola su questi contatti di Montanelli nonostante i risvolti drammatici e interessanti, per passare al successivo ed ultimo approccio di Indro con le organizzazioni partigiane, dicendoci che “Verso la fine di gennaio venne a sapere che si stava costituendo il Clnai, Comitato di liberazione per l’Alta Italia (glielo aveva detto Gasparotto, secondo Staglieno, op.cit.) e gli tornò il desiderio di partecipare alla Resistenza. Si mise quindi in contatto con FilippoBeltrami….” (pag.83).
Secondo Staglieno e Abate fu Beltrami, detto “il Capitano” e già mitico capo partigiano dal ’43, a cercare Montanelli e ad offrirgli il comando di una formazione partigiana della Val d’Ossola. Fu fissato un appuntamento all’alba in una villa sul lago d’Orta dell’ing. Mario Motta, collaboratore attivo della Resistenza che spesso offriva le sue case di Gozzano e di Pella come punto di sosta a Beltrami ed ai suoi. (http://www.anpi.it/novara_verbania/storia/novembre.htm).
Concordemente Staglieno, Granzotto e lo stesso Montanelli nel suo dettato a Tiziana Abate, ci dicono che arrivato all’appuntamento Indro non trovò nessuno perché quella stessa mattina tutto il gruppo di Beltrami era caduto in una imboscata a Megolo (località sul fiume Toce, a circa 15 km dal lago). Staglieno aggiunge che Montanelli era andato all’appuntamento insieme alla cognata di Beltrami e che Motta, dopo il mancato incontro, lo invitò a trattenersi presso di lui. Secondo Granzotto, invece, Montanelli non trovò nessuno ad attenderlo e, temendo di tornare a Milano, non si mosse, ma “Attese gli eventi avendo cura di indossare la divisa di ufficiale,<<perché volevo arrendermi da soldato, non da imboscato.>>” (pag.83).
Due giorni dopo -dichiarano ancora concordemente Granzotto, Montanelli e Staglieno – i tedeschi circondarono la casa e arrestarono Montanelli. Nonostante Montanelli dica che anche il suo ospite fu arrestato, risulta che Mario Motta fu invece a sua volta preso e fucilato il 16 novembre ’44.
Ciò che è strano è che la concordanza delle varie versioni si trova anche nella data di arresto di Montanelli, indicata al 5 febbraio 1944, il che sfiora l’assurdo visto che Beltrami fu ucciso il giorno 13 febbraio ’44.
Montanelli scrisse, in data 14 marzo, una lettera allo zio Alberto Doddoli, cui Granzotto accenna come a un tentativo di depistaggio estremo per salvarsi, perché in essa Indro dichiarava di essere andato all’incontro ” col proposito di annunciare la sua rinuncia ad unirsi alle bande.” Staglieno riporta la lettera (op. cit. pag.178), in cui lo stesso Montanelli dice che la cattura è avvenuta il 5 febbraio e che è probabilmente dovuta ad una spiata della portiera della casa di Piazza Castello. Aveva infatti mandato alla moglie un biglietto per dire dove si trovava (cosa quantomeno illogica e certo imprudente). La portiera aveva detto al latore del messaggio di ripassare all’una, ma questi, al suo ritorno, aveva trovato ad attenderlo la polizia.
Nella lettera Montanelli afferma (come già accennato) che con lui è stato arrestato anche il suo ospite Motta e che entrambi, dopo essere stati condotti a Novara e a San Vittore, sono poi stati trasferiti in una caserma (a Gallarate?) dove egli è stato sottoposto a vari interrogatori e dove, il primo giorno, ha trovato, sotto il suo pagliericcio, un fazzolettino profumato della moglie, “arrestata il giorno prima” (Abate, op. cit.). Sempre nell’autobiografia a cura di Tiziana Abate, Montanelli si spinge a dire che ha riconosciuto il profumo francese che le aveva regalato il giorno prima, il che, per un latitante (stando ai tempi, in realtà già arrestato), e in periodi di guerra e carestia, è quantomeno grottesco.
Anche Granzotto ci informa (pag.83) che la moglie di Montanelli, l’austriaca Margarethe Colins de Tarsienne, detta Maggie, “che sarà poi deportata e condannata a trent’anni di reclusione” era stata arrestata e portata a Gallarate il giorno prima di Indro.
Sempre nella lettera allo zio, Montanelli dice di esser stato lui, attraverso la moglie Maggie, a contattare il Comitato [di liberazione], vale a dire Beltrami, perché voleva prendere il comando di una banda (Staglieno, op. cit. pag. 180) ma di avervi poi rinunziato. Prosegue poi a narrare di aver subito quattro interrogatori e di non aver più visto nessuno da ben 3 settimane (vale a dire, in base alla data della lettera, dal 20 febbraio) e di non avere “nessuna idea di quando si farà il processo” (ibidem, pag. 181).
Secondo Staglieno, Abate e Granzotto, il 20 febbraio (ben prima della data della lettera) Montanelli “al termine di un processo sommario” (pag. 84) viene condannato a morte. Presidente della corte marziale è un certo maggiore Boehme, che Granzotto precisa come Franz Boehme (pag. 85) e di cui Montanelli narra, nell’autobiografia dettata, che venne a dirgli che la condanna non era stata voluta dalla Wermacht, di cui si era guadagnato il rispetto, ma “era già stata scritta” (Abate, op.cit. pagg.107/108).
Anche Granzotto parla di elogi di Boehme a Montanelli, espressi però alla moglie Maggie.
Sull’ufficiale che emise la condanna, la Abate riporta un racconto di Montanelli : “nel ’46, mentre mi trovavo in Germania per un reportage sui processi ai criminali di guerra(…) un giorno capitai ad Heidelberg, dove si giudicava un certo Boehme(…) Nella gabbia degli imputati riconobbi proprio il Presidente del Tribunale(…) Chiesi di poter deporre a suo favore(…) Dichiarai che aveva fatto il possibile per salvarmi la vita. Non venne assolto ma ebbe una pena assai ridotta.“
Granzotto riferisce invece (pag.86 e pag. 101) che Montanelli, inviato dal Corriere a seguire i processi di Norimberga “In qualità di testimone volontario” prese “…le difese di un imputato di secondo piano, il maggiore Franz Boehme….“.
Abate (op. cit. pag. 125) riporta che nell’agosto del ’46 Montanelli rientrò al Corriere e che venne poi mandato come corrispondente a Norimberga (pag.131), dato che parlava bene il tedesco. Le sue corrispondenze non furono però pubblicate sul Corriere della Sera, ma apparvero, nel ’47, sul Corriere d’ Informazione e furono poi raccolte nel libro “Morire in piedi”.
Oltre al principale ed universalmente noto Processo di Norimberga (città scelta in quanto era l’unico centro abitato in Germania che possedesse ancora edifici sufficientemente intatti per ospitare l’evento), il Tribunale internazionale militare tenne, nella stessa sede, altri 11 processi, il settimo dei quali (15 luglio ’47/19 febbraio ’48) riguardava dodici ufficiali della Wermacht accusati del massacro di migliaia di civili in Grecia, Yugoslavia e Albania, oltre a devastazioni in Norvegia ed in altri paesi occupati. (http://www.law.umkc.edu/faculty/projects/ftrials/nuremberg/subsequenttrials) .
Tra gli imputati figurava il generale Franz Boehme, nato in Austria il 15 aprile 1885, accusato di genocidio in quanto responsabile di durissime repressioni in Serbia, dove aveva emanato, nel settembre e nell’ottobre ’41, ordini di servizio per tutti i comandi territoriali, che stabilivano l’arresto a vista per ebrei e sospetti comunisti e inoltre che per ogni tedesco ucciso fossero passati per le armi 100 prigionieri o ostaggi.
Boehme, che si suicidò il 27 maggio ’47 buttandosi dal quarto piano del carcere prima dell’inizio del processo, aveva un lungo stato di servizio iniziato nel 1904 come cadetto, con partecipazione alla prima guerra mondiale, poi con compiti di intelligence militare a partire dal 1927; una presenza come osservatore distaccato presso l’esercito italiano in Abissinia nel gennaio 1936; comandante di divisione nell’invasione della Polonia; comandante di corpo d’armata nel 1940.
Dal 1 ottobre 1940, come comandante generale del XVIII corpo di armata di montagna, prese parte alle operazioni militari che portarono alla caduta della Grecia ed operò anche in Bulgaria e nei Balcani (Granzotto, pag. 75, ci informa che Montanelli fu inviato per il Corriere sul fronte greco dalla fine di ottobre 1940 e che vi rimase per vari mesi). Dall’aprile all’agosto del ’43 Boehme fu comandante militare in Serbia. Dal dicembre ’43 al giugno ’44 risulta esser stato responsabile del comando generale del XVIII corpo d’armata e comandante del distretto militare di Salisburgo. (http://www.bridgend-powcamp.fsnet.co.uk/)
Difficile che questo Boehme fosse in Italia, degradato a maggiore, a giudicare Montanelli nel febbraio del ’44, eppure di lui sembrerebbe trattarsi sulla base del richiamo, per una volta esatto, di Granzotto, a Norimberga e di quello, impreciso, di Montanelli.
In un libro di Luigi Borgomaneri, storico della Resistenza, “Hitler a Milano – i crimini di Theodor Saevecke capo della Gestapo” edito da Datanews, a proposito di Montanelli si legge che “…sulla base almeno della documentazione attualmente conosciuta, non risulta alcuna condanna a morte specificamente emessa a suo carico da comandi nazisti o da tribunali fascisti.” (nota n° 31). Sta di fatto che, contrariamente agli usi correnti, dopo la condanna Montanelli non fu giustiziato.
Staglieno e Granzotto (pag. 84) parlano di “un supplemento di inchiesta” -anche questo altamente improbabile – che ” non mutò lo stato delle cose e il 9 maggio venne trasferito, in attesa dell’esecuzione, al carcere di San Vittore…..“.
Montanelli dice a Tiziana Abate “ Inspiegabilmente, dopo qualche settimana fui trasferito a San Vittore ” (op. cit. pag. 109) e afferma di aver saputo, dopo la fine della guerra, dal suo buon amico Eugen Dollmann (colonnello delle SS e capo dei servizi segreti nazisti in Italia, poi informatore dei Servizi alleati OSS e dopo la guerra agente della CIA) che ” Dalla Germania era giunto l’ordine di sospendere l’esecuzione.” (ibidem, pag. 110).
Il 9 maggio ’44, come già ricordato, Montanelli viene immatricolato a San Vittore col numero 2054, nel ” Quinto raggio – ci dice Granzotto – quello riservato ai politici.”
Lo stesso 9 maggio, come risulta dagli archivi del Lager di Bolzano, viene arrestata a Milano ” Colins de Tarsienne Montanelli Margareth, casalinga, Matricola 3797, blocco F, deportata da Milano il 7/9/1944, liberata a Bolzano il 28/4/1945“. Lo riporta Dario Venegoni nel libro “Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano- Una tragedia italiana in 7809 storie individuali” pubblicato dalla Fondazione Memoria della Deportazione/Mimesis, Milano 2004.
Venegoni racconta che “L’ostaggio forse più conosciuto era Margareth Colins de Tarsienne, moglie di Indro Montanelli. Anch’essa era in Via Resia (a San Vittore) a garanzia di certe intese tra lo stesso Montanelli e Theo Saevecke, il capo delle SS di Milano.” (op. cit. pag 7) e suffraga questa affermazione riportando una lettera clandestina di Ada Buffulini, internata nel campo di Bolzano, a Lelio Bass “…c’è qui con noi la moglie di Montanelli. (…)Ha raccontato che suo marito è uscito dal carcere col permesso dei tedeschi con la promessa di aiutarli. Per questo lei è qui come ostaggio e ha sempre paura che faccia qualcosa ‘contro la sua coscienza’ perché Sevek [Saevecke] ha detto che la sorte di lei, moglie, dipende dalla condotta del marito. Montanelli sarebbe occupato di lavorare in Svizzera, inoltre sarebbe molto vicino a Sevek e insieme con lui dovrebbe esercitare una specie di controllo sul lavoro dei vari marescialli che hanno condotto le nostre pratiche a San Vittore allo scopo di dimostrare le loro manchevolezze ed accentrare tutto nelle mani di Sevek. ( Venegoni, op. cit. pag 26 – lettera reperibile presso l’Archivio Lelio e Lisli Basso).
Maggie Montanelli, che fino alla liberazione fu vice responsabile del Blocco delle donne nel lager, secondo una testimonianza resa a Venegoni nell’aprile 2004 da Onorina Pesce, una ex internata, “si meritò il rispetto di tutte le deportate“. (Venegoni, op cit. pag. 26)
Staglieno ci informa che Montanelli si separò da Maggie nel 1951. La donna risultava ancora viva nel 2001, secondo quanto Montanelli stesso disse a Chiara Calice de La Nazione, in una intervista pubblicata in data 16/6 intitolata “Mia moglie nel Lager”. Non risulta che qualcuno dei tanti biografi o estimatori di Montanelli, in tanti anni, la abbia mai cercata e intervistata.
L’uscita dal carcere di Montanelli viene ufficialmente etichettata dall’interessato e da tutti i suoi biografi come una “evasione”, organizzata in primo luogo tramite Luca Osteria (noto come dottor Ugo), ex agente dell’OVRA e stretto collaboratore di Saevecke, e che, all’insaputa di quest’ultimo – Granzotto ci informa – “faceva il doppio gioco” (pag.87). Lo stesso Montanelli afferma che Osteria “sottobanco si dava da fare per salvare chi era minacciato dai nazisti” (Abate, op. cit.). Secondo quanto raccontato dallo stesso Osteria, “…contattato da personaggi delle componenti resistenziali moderate affinché si adoperasse per la liberazione dei generali Zambon e Robilotti (…) [egli] richiese come immediata contropartita che il CLN rilasciasse una certificazione di antifascismo anche per altri personaggi incarcerati dai tedeschi, così da consentire loro di essere accolti nella Confederazione svizzera (…) Tra i personaggi oltre a Dorothy Gibson, parente del presidente americano Roosvelt, internata dopo la dichiarazione di guerra agli USA, (…) incluse anche il nome di Montanelli.” (Borgomaneri, op. cit. nota 31).
Granzotto (pag.88) riferisce che “Un testimone di quella vicenda assicura che l’operazione ebbe un costo (…) Altri sostengono che il <<dottor Ugo>> non pretese nulla, avendo come scopo non l’arricchimento personale ma la futura benevolenza degli angloamericani…“. Se questo era il suo scopo, non ebbe successo perché, come emerge dal Carteggio del gruppo FRAMA, a cura di Francesca Minuto Peri, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 1997 (Borgomaneri, op. cit. ibidem), già nel settembre ’44 “…i servizi alleati diffidano e danno ordine di tenerlo lontano..”. Inoltre, in un elenco del SOE (Special Operation Executive) relativo alle operazioni dei servizi alleati in Italia dal 1941 al 1948, classificata sotto la voce HS 6/802 c’è una nota intitolata “Piani del Dottor UGO per penetrare i servizi alleati in Svizzera nell’estate ’44. Estratto dal rapporto del secondo interrogatorio dettagliato del SS Hauptsturmfuehrer Theodor Saevecke, 24 giugno ’45. Saevecke riferisce che Ugo, dopo aver liberato Montanelli, Gibson e Zambon, li avrebbe raggiunti in Svizzera e, ostentando la sua qualità di liberatore, di nemico della Germania, mostrandosi desideroso di lavorare con le forze alleate, avrebbe potuto agevolmente introdursi negli ambienti dell’Intelligence alleata.”
Granzotto (pag.87) riferisce di una lettera di Saeveke scritta a Montanelli negli anni ’80 (Borgomaneri dice “negli anni ’70”), nella quale questi scriveva “Una delle cose di cui vado fiero è di aver favorito il salvataggio di un uomo come lei. Perché se crede che sia avvenuto senza o contro il mio consenso, si sbaglia di grosso.“. Che i rapporti tra i due fossero rimasti buoni lo dimostra il fatto che il giornalista depose come testimone a discarico (“rasentando in alcune dichiarazioni il ridicolo e suscitando, per altre, lo sdegno dei familiari” Borgomaneri, ibidem) nel processo per l’eccidio dei partigiani a Piazzale Loreto, celebrato contro Saevecke nel 1999 presso il Tribunale militare di Torino, al termine del quale fu condannato all’ergastolo. Testimonianza, peraltro, coerente con un animus di Montanelli costante nei decenni se, come racconta ancora Borgomaneri, “il 27 novembre del ’63 il Corriere della Sera e l’Unità escono…con un titolo quasi identic’ Chiesta la riabilitazione del boia di Milano’. L’ha avanzata il giorno prima il settimanale Stern, sostenendo che le accuse sono false e infondate, citando anche come pezza d’appoggio un intervento di Indro Montanelli.“
Comunque, con l’aiuto di Osteria e di Saevecke, e forse -disse Indro- del cardinale Schuster, “evadono” nell’agosto del ’44 la Gibson (una superstite del Titanic ed ex diva del cinema muto), Zambon e Montanelli“. Quest’ultimo trova asilo in un campo profughi tra Lugano e Bellinzona.
Granzotto narra con animo partecipe “…l’inqualificabile comportamento dei fuoriusciti di Bellinzona” (pag. 91) che non appaiono molto convinti dal recentissimo antifascismo di Montanelli e che , ci racconta, lo sottopongono ad una specie di processo ideologico al termine del quale concludono “che Montanelli poteva anche essere una spia dei nazisti e l’arresto e la condanna a morte solo una messinscena per fornirgli la copertura necessaria a svolgere il suo lavoro di delatore in Svizzera.” (ibidem). Secondo Staglieno (op. cit. pag.186) “In Svizzera, molti fuoriusciti italiani accusarono ben presto Montanelli: apologia del fascismo.“
Montanelli stesso dice alla Abate (op. cit.) che “..il campo pullulava di italiani. Nessuno di loro era stato condannato a morte dai nazisti, eppure a sentir loro, erano tutti martiri del regime, sempre pronti a propinarmi sermoni di antifascismo.” Fatto sta che, rifiutando di trovarsi “arruolato d’ufficio nell’antifascismo” Montanelli chiede al capo della polizia di Lugano di essere trasferito a Davos e quando quello gli obietta che a Davos c’è il rischio di tubercolosi (veramente ci sono i sanatori!), Indro risponde “Meglio la tubercolosi degli italiani.“
Borgomaneri ci dà, nel suo libro su Saevecke, una versione più sobria e forse più credibile, riportando, nella nota già citata, il brano di una lettera scritta il 13 ottobre del ’44 da Wanda Scimone Diena ad Ezio Franceschini che dice: ” Ho regolarmente ricevuto [i] suoi due bigliettini del 10, con l’ultima postilla: stia tranquillo, di I[ndro] M[ontanelli] non solo non mi fido, ma evito di vederlo (come lei sa io sono in un altro albergo e in perfetta solitudine) e con lui parlo solo di cose frivolissime. Ma è così contrario alla mia natura pensare sempre male di tutti, e non volevo convincermi che egli fosse quello che mi apparve dall’ultimo biglietto, almeno un ‘intrigante’; per questo le scrissi di ‘leggerlo e di considerarlo e di darmi la sua impressione’“.
Granzotto dice che Montanelli non era fascista senza essere antifascista e cita in proposito il libro che questi scrisse proprio in Svizzera, in lingua tedesca, “Qui non riposano”, pubblicato nel marzo ’45 a Zurigo. Da questo testo, che Granzotto afferma essere “una fonte assai rilevante per decifrare l’uomo Montanelli“ – si legge- : “Io non volevo fare politica. Ha diritto l’uomo della strada di non far politica? (…) Ha il diritto un giornalista, che è un uomo della strada, il quale va a vedere e riferire le cose per conto degli altri uomini della strada, ha il diritto di riferire che i fatti si svolsero così e così, e che in essi c’era tanto di bello e tanto di brutto, tanto di giusto e tanto di ingiusto? No, il fascismo disse che un uomo della strada non ha tutti questi diritti. Ecco perché diventai antifascista….”
La citazione è riportata anche, più diffusamente da Staglieno, una delle due fonti principali citate da Granzotto assieme alla Abate, e dalle quali ha attinto generosamente e, talora, con fedeltà assoluta.
Ora, trattandosi qui di un disperato appello di un giornalista al diritto di “riferire che i fatti si svolsero così e così“, bisogna ribadire che Montanelli fu un magnifico e prolifico narratore che è assurto nell’empireo italiano come il più grande dei nostri giornalisti.
Si sa che in Italia il giornalismo praticato, pur vantando, adesso e nel passato, molti ottimi e rigorosi professionisti, non è esattamente, in molti casi, quello che si intende per “giornalismo anglosassone”, conciso, preciso, veritiero, documentato e documentabile. Può il padre putativo, il maestro di tanta stirpe esser stato immune da questi piccoli difetti? Ovviamente, no.
Granzotto (pag.59) riferisce di un “falso d’autore” proprio all’esordio di Montanelli al Corriere: inviato “a seguire un gruppo di giovani fascisti che insieme a coetanei della Hitlerjugend avrebbero percorso in bicicletta la tratta dal Brennero fino a Berlino (…) il servizio si rivelò tanto noioso da indurlo a vivacizzarlo inventandosi di sana pianta un episodio…”. E ancora, narra il nostro biografo (pag.61) che il 3 settembre del ’39, due giorni dopo l’invasione della Polonia, Montanelli “non si limitò a seguire le vicende attraverso il filtro delle quotidiane conferenze stampa di Goebbels. Chiese ed ottenne il permesso di recarsi al fronte e a bordo di una mercedes messagli a disposizione dal Ministero della propaganda (vale a dire Goebbels. Ma che entrature fantastiche doveva avere!) varcò la frontiera …” e incontrò una colonna di blindati su uno dei quali stava Hitler che, al vedere il cronista, scese dal mezzo e gli impartì un comizio ad personam sulla legittimità della guerra e sulla sicura vittoria. Questo reportage non fu ritenuto veritiero e quindi cestinato dal direttore Borelli, mentre Indro giurava sull’autenticità dello scoop (e magari, almeno questa volta, aveva anche ragione).
In merito alla campagna in Africa, Montanelli racconta a Tiziana Abate che Macallé fu presa senza neanche una schioppettata (tal quale Santander e Oslo) e che invece fu una battaglia epica e impressionante quella di Mai-Ceu, cui però lui evidentemente non poté assistere trovandosi, quando avvenne, l’11 marzo del ’36, nella redazione de “La Nuova Eritrea”.
Per quanto riguarda la famosa battaglia per la presa di Santander, Granzotto ci informa che Montanelli andò in Spagna, inviato dal Messaggero, incarico ricevuto a fine giugno ’37 (pag.44 e segg.); che il giornalista non voleva partire subito perché non conosceva la Spagna e voleva documentarsi; che gli ci volle una settimana di treno per raggiungere la frontiera tra la Francia e il Paese Basco; che mandò il primo articolo il 17 luglio da Salamanca, dove si era acquartierato, prendendo gusto al “risvolto romanzesco” della vita dell’inviat “buoni bar da frequentare, interessanti conoscenze e molta conversazione(..) Guerra, insomma, ne vedeva poca….”. Saputo dell’offensiva su Santander, “si accodò alla 5° Brigata di Navarra per darne testimonianza..”. Il 18 agosto del 1937 telegrafò un articolo che, descrivendo la presa di Santander, cominciava così: “Una lunga passeggiata e un solo nemic il caldo...”. Questo articolo costò a Montanelli l’immediato rimpatrio e l’espulsione dall’Albo dei giornalisti e dal Partito nazionale fascista. Granzotto spende molte energie per giustificare l’articolo di Montanelli, sostenendo che anche le corrispondenze della Stefani erano analoghe e cita inoltre un brano di Montanelli che, in “Qui non riposano” …”affermò <<Il mestiere mi ha insegnato a credere solo alle cose che vedo>>. E fu questa la sua difesa…”.
Nel sito www.anpi.it/spagna si può apprendere che Santander fu presa il 24 agosto 1937, dopo una offensiva iniziata il 14 dello stesso mese. Il sito http://213.45.7.12/regioesercito/reparti/mvsn , ovviamente di parte opposta, riporta le stesse date, aggiungendo che “Le perdite totali del C.T.V. in questa operazione sono calcolate in 424 caduti (31 ufficiali) e 1.596 feriti (104 ufficiali) “. La domanda che sorge spontanea è: dov’era e cosa ha visto Montanelli?
Della Norvegia si è già detto, ma è bene aggiungere che qualche colpo fu sparato, visto che vi fu una forte, anche se vana, resistenza antiaerea per impedire ai tedeschi di atterrare all’aeroporto di Oslo.
Montanelli, riabilitato, dopo la Spagna, con l’aiuto del padre e di Bottai, all’entrata in guerra dell’Italia fu inviato come corrispondente sul fronte dell’occupazione della Francia (pag.73) ma “pur trattenendosi una decina di giorni a Mentone, sede del nostro comando (quindi non in zona di operazioni) non scrisse un rigo.“
Dopo un reportage sulle reclute nate nel ’22, anno dell’avvento del fascismo –un servizio, scrive Granzotto (ibidem) non certo all’altezza della fama che si era guadagnata – “…Borelli lo mandò nei Balcani, ‘piazza’ assai più congeniale a Montanelli…” da dove “rientrò in Italia amareggiato” perché non aveva potuto riferire il fatto che Stalin, ancora alleato di Hitler, “stava macellando intere divisioni romene“. In compenso fece molta vita di società frequentando, ci dice Granzotto, l’amante di re Carol di Romania e la regia dimora.
Il 27 ottobre ’40, nella sede del Ministero degli esteri il capo Gabinetto di Ciano gli comunicò che di lì a poche ore, partendo dall’Albania, cinque divisioni avrebbero invaso la Grecia. Montanelli, tenendo il segreto, “poteva imbarcarsi su un aereo diretto a Tirana e trovarsi sul posto, unico giornalista” (pag.75). Granzotto riporta quanto detto da Montanelli nelle sue memorie, dettate alla Abate: “Rimasi su quel fronte vari mesi, senza scrivere quasi nulla, un po’ perché mi ammalai di tifo e molto perché mi rifiutati di spacciare per una gloriosa campagna militare lo squasso di legnate che ci beccammo laggiù.“. Non stupisce che Granzotto dichiari che “Nonostante le premure degli amici (…) la carriera di Montanelli quale corrispondente di guerra era ormai agli sgoccioli.” (pag.76)
Ma, si dirà, c’era comunque il fascismo, il che non spiega una certa reticenza a trovarsi sul luogo delle operazioni, ma giustifica certi silenzi. E allora saltiamo parecchi decenni e veniamo ad epoche più sicuramente libere, andando a leggere un divertente saggio di un noto sinologo, Giorgio Mantici, intitolato “Il giornalismo italiano e la Cina”, pubblicato nel testo a cura di L.Lanciotti, “Conoscere la Cina”, Edizioni Fondazione Agnelli, Torino, 2000.
Il saggio andrebbe letto interamente per la congerie di “perle” giornalistiche che elenca, ma noi ci fermeremo al capitoletto intitolato “Il principe dei giornalisti”, ovviamente Montanelli, di cui Mantici cita un articolo apparso il 1° novembre 1976 sul settimanale Oggi Illustrato, che si occupa dell’appena deposta moglie di Mao. Montanelli esordisce dichiarando di non saper nulla della Cina e che nulla ne sa alcuno in Occidente, salvo uno “ma è morto qualche anno fa. Si chiamava Edgar Snow…”. Scrive Mantici: “Dopo averne, con disinvolta sicurezza e in poche righe, stravolto la biografia (di Snow) Montanelli fa parlare il suo amico, morto quattro anni prima, e gli fa dire una sequenza incredibile di sciocchezze sulla Cina, su Mao e su Jiang Qing. Tutto l’articolo è una citazione virgolettata….” e Montanelli riferisce che Snow (presumibilmente alla fine degli anni ’70) dice che non se la sente di scrivere cosa è successo in Cina dalla rivoluzione culturale in poi “perché sono abituato a documentare ciò che scrivo e in questo caso non posso farlo.” Mantici precisa che Snow ha sempre seguitato a scrivere, e documentare ciò che scriveva sulla Cina, con frequenti viaggi in quel paese fino alla sua morte, nel 1972, e che proprio sulla rivoluzione culturale uscì in quello stesso anno, un suo saggi “Revolution”.
Perfidamente, anche allontanandosi dal tema della Cina, Mantici cita poi un articolo di Beniamino Placido apparso su Repubblica il 20 aprile ’99, in occasione del novantesimo compleanno di Montanelli, nel quale si riporta la lamentela di Soffici che, intervistato da Placido stesso, gli chiede “di non fare come quel suo collega Montanelli” che aveva scritto che il suo cortile era pieno di galline razzolanti, mentre poteva ben vedere che non ce ne era alcuna.
Non è nota, o almeno non è stata diffusa, la motivazione che ha accompagnato il premio conferito a Granzotto, ma se lui, e con lui tantissimi giornalisti italiani si dichiarano discepoli di Montanelli, non c’è bisogno di conoscerla.