Giuliana Tedeschi
Questo povero corpo
Presentazione di Anna Bravo, Introduzione di Lucio Monaco,
Alessandria, Edizioni dell’Orso, Quaderni della Memoria, Collana a cura di Mariarosa Masoero e Lucio Monaco n. 2, 2005
E’ un bel regalo per tutti la ristampa di Questo povero corpo di Giuliana Tedeschi, un testo che aveva visto la luce nel 1946 ed era poi divenuto introvabile.
E’ il secondo volume della collana curata dalla Masoero e da Lucio Monaco, ricercatore infallibile di memorie deportative; il primo numero ci aveva offerto uno scritto di memoria inedito di Grazia Cerchi, che è venuta a mancare da qualche giorno, e ce ne doliamo, ci mancherà.
Nel caso della Tedeschi si tratta di un testo dal valore “storico”, una delle prime memorie femminili della deportazione.
“C’era, dietro, l’intuizione dell’urgenza di lasciare una traccia immediata, di consegnare memoria di quella che più tardi sarebbe stata nota come Shoah, e della deportazione femminile italiana nei Lager nazisti…”osserva Lucio Monaco.
Eppure, nonostante la pagina grigia su fondo bianco e i vecchi caratteri stiano lì a ricordarci l’età dello scritto , l’impressione che se ne ha subito, appena si comincia a leggere, è quella di un testo di estrema modernità.
Con forte accento “femminile” l’esperienza del lager di Giuliana Tedeschi è centrata sulla fisicità del sentire, del suo sentire, come sottolinea nel titolo quello che Lucio Monaco definisce “il dimostrativo di vicinanza”. I luoghi, la vita del lager, le casette in mattoni di Auschwitz e le baracche di Birkenau, il crematorio, la rampa, le selezioni, l’arrivo degli ungheresi, il lavoro inutile e mortale, costituiscono la trama su cui si tesse il dolore e la riflessione di Giuliana Tedeschi.
Le emozioni, la soggettività, che si esprimono nel linguaggio evocativo ai limiti della poesia, fanno di questo testo una narrazione acuta, ricca, pregante, che supera la dimensione temporale della scrittura e del vissuto. Lo sfumare della dimensione temporale è quanto nota anche Luisa Nuvoloni nella Prefazione del 1946 e riprende Anna Bravo nella Presentazione attuale.
“Prigioniera, vivevo al di fuori di ogni convenzione di tempo. La mia vita di un anno fu una lunga, grigia, monotona giornata in cui i fatti salienti erano morte, percosse, impiccagioni.” (pp. 23-24) L’atemporalità della sofferenza e dell’alienazione sono l’atemporalità stessa del lager, privo delle scadenze proprie della vita, in cui è difficile ricordare il giorno della settimana (è stato soppresso il riposo festivo “Bontà loro di quante convenzioni non sono più schiava!” p. 25). Da qui, evidenzia Anna Bravo, l’attenzione alle “illusioni”, quella della fine imminente della guerra, al cibo, alle ricette di cucina come prospettive di vita futura.
Sono temi di straordinaria sensibilità, estranei per lo più alla memorialistica maschile, attenta soprattutto a “certificare”, è sempre Anna Bravo a dirlo, anche per controbattere quella incredulità che ne dopoguerra sembrava avvolgere ogni testimonianza.
“Private violentemente degli abiti, ultimo possesso e ricordo di casa…”, così comincia il racconto di Giuliana Tedeschi; non l’arresto, non il carcere, non il viaggio, bensì la privazione dell’ultimo “ricordo di casa”, e la nudità come offesa al pudore, al reciproco rispetto, alle convenzioni. La pietà per i poveri corpi diviene “disgusto e ripugnanza”, unita alla vergogna dello sguardo maschile “poiché se la differenza di sesso in tali condizioni era un vago ricordo di un mondo lontano, noi eravamo sempre ai loro occhi delle donne o larve di donne e non carne da macello.” p. 18.
Il corpo, e dunque la femminilità, e dunque la maternità, nel lager possono solo essere negate. Edith partorisce in solitudine il figlio destinato alla morte, i corpi delle donne sono oggetto delle folli “sperimentazioni” di Mengele. Ma anche la solidarietà, il raccontarsi le storie, l’improvvisazione di una danza.
E sempre la violenza e la sopraffazione: la forca per le giovani polacche accusate di aver fornito l’esplosivo per la distruzione di un crematorio, le percosse della kapo, e infine la marcia finale: settemila prigioniere in colonna per ottanta chilometri cercano di camminare, sferzate dalle fruste delle SS, uccise appena cadono a terra, “ con i piedi doloranti negli zoccoli o avvolti negli stracci o malcoperti da calzature sdrucite, senza quasi toccar cibo, senza bere, cercando refrigerio nella neve che inghiottivamo con avidità.” p.106
Un ultimo tratto in carro bestiame e l’incontro infine con gli ufficiali francesi. “Qualcosa allora si sciolse in noi. L’emozione dapprima sopita, poi trattenuta, ritardata, dosata con paura, proruppe in lacrime e in gemiti di gioia. Ci abbracciammo tutte, finalmente persuase della nostra libertà.” p. 125
(Olga Lucchi)