Gilberto Salmoni
Una storia nella storia. Ricordi e riflessioni di un testimone di Fossoli e Buchenwald
a cura di A.M. Ori,
Torino, EGA, 2005 (Quaderni di Fossoli 3), 160 pp., € 10,00.
Il libro di Gilberto Salmoni è un altro testo di scrittura spontanea tra i molti che la memoria “a freddo” sta producendo in questi anni e che non mancano di aggiungere tasselli testimoniali sempre preziosi quanto tragicamente evocativi. Ma questo testo è, in un certo senso, stra-ordinario per la tesi di fondo che l’autore sostiene e che è anticipata, nelle sue premesse, dal sottotitolo: Ricordi e riflessioni, scrive Salmoni: cioè viene assolto, per così dire, il dovere della testimonianza, ma poi sono le due sfere, quella affettiva e quella razionale, che intervengono ad organizzare il percorso mentale del riaffioramento e della rielaborazione.
Salmoni fu un deportato razziale genovese di soli sedici anni, prima internato a Fossoli, poi deportato a Buchenwald, fortunatamente rimasto sempre insieme al fratello maggiore. Scomparvero invece ad Auschwitz la madre, il padre e la sorella. Le tappe della deportazione sono ricostruite con precisione, ma anche con leggerezza, quasi volendo riportare sulla pagina l’innocenza dell’adolescente che solo molto più tardi, a detta dello stesso autore, saprà collocare la sua storia personale in un meccanismo da indagare secondo un ottica sistemica.
La stra-ordinarietà della tesi dell’autore è quella di una, per così dire, nostalgia di uno stato esistenziale irrepetibile nel dopo-Lager e nel presente. C’è come il rimpianto per una innocenza perduta. L’autore non parte dal pensiero materialistico per individuare nelle sovrastrutture alienanti in cui siamo immersi le ragioni dello snaturamento della condizione umana, le cause della competizione o della violenza presenti nel vivere sociale. Semplicemente parte dai ricordi e dalle emozioni di un ragazzo deportato ingenuo e, in qualche modo, protetto dagli adulti, per individuare ciò che è possibile cogliere di grande e di eroico nel comportamento umano di fronte all’estremo. L’alienazione del presente emerge, per così dire, da questa incredibile controprova sperimentale. Salmoni chiama quella del Lager una situazione di laboratorio. L’azzeramento delle differenze sociali, dei motivi di competizione (“la conquista di maggior guadagno, l’avvicinamento a una bella donna … condizioni irreali e impensabili…” pag. 69 ; “..per la maggior parte degli internati la situazione di laboratorio fu operante al cento per cento, con la parificazione dell’abbigliamento, dell’alimentazione, delle chiamate giornaliere per i trasporti nei campi satelliti, dell’aleatorietà e ingovernabilità della propria situazione”, pag. 97 ) creano, del tutto al di fuori delle intenzioni dei nazisti (concetto, più che da ribadire, da rilevare nelle sue implicazioni quasi grottesche!), l’esperimento di un uomo autentico (“la personalità di ognuno non era camuffata o alterata dall’appartenenza ad una classe sociale, dall’istruzione più elevata, da un abbigliamento ricercato, da un linguaggio più preciso e grammaticalmente corretto. La personalià di ognuno era nuda ed era frutto del profondo di ognuno … l’essere meschini o generosi, l’egoismo o l’altruismo erano evidenti, non potevano essere celati … personalmente non vedevo tracce di atteggiamenti subdoli, tortuosi. Allora non mi sarebbe venuto in mente di cercarli”, pag. 98).
Questo laboratorio sperimentale del Lager, creato per azzerare identità e corpi, ottiene, invece, di de-strutturare gli individui, riportandoli ad un comportamento interamente naturale, li libera da incrostazioni che ne avevano bloccato la spontaneità. Fa rinascere generosità e primordialità di gesti ed emozioni e permette, con la nudità del corpo e dell’animo, la riscoperta del gesto solidale e dell’innocenza.
Ne consegue il “paradosso del dopo”, e cioè quanto sia stato difficile accettare una ristrutturazione culturale e psicologica dell’io in base alle categorie del vivere normalmente inteso: competizione, intrighi, ipocrisie, presenti anche nell’azione politica, da cui l’autore, dopo l’impegno immediato al ritorno dal Lager, si allontana , vedendone i limiti etici delimitati dall’opportunismo e dai compromessi.
In coerenza con queste riflessioni, condotte dopo un approdo dell’autore dall’attività di ingegnere agli studi di psicologia, e cioè in coerenza con una rivisitazione per così dire positiva della propria esperienza, la narrazione ci configura un adolescente che recepisce tutto ciò che intorno a sè riporta al bene, non vede il male perché lo respinge anticipatamente per istinto, prima di riconoscerlo o dover assorbirlo. L’animo di chi racconta rimane fanciullesco anche nella rievocazione: i compagni lo proteggono, quasi un padre è il fratello che riesce a tenerlo vicino. Lo stato di innocenza è assediato da eventi quotidiani inquietanti ma il percorso di formazione rimane positivo e vitale: “Rifletto solo ora che, pur essendo nudi, non ci veniva in mente di guardare quanta carne ricoprisse le nostre ossa. Probabilmente ci rassicurava di sentirci ancora ben saldi in piedi e in condizioni di lavorare” ( pag. 61).
Il racconto limpido della deportazione percorre ordinatamente tutte le tappe canoniche della persecuzione: la promulgazione delle leggi razziali che colpiscono una famiglia borghese, agiata, profondamente italiana, la permanenza sospesa, ma non priva di momenti od incontri suggestivi, nel campo pur triste e sinistro di Fossoli, fino alla vista, ad Innsbruck, durante una sosta, della scritta “Auschwitz” sul vagone che a Fossoli aveva ingoiato la madre, il padre e la giovane sorella. Infine l’ambientamento a Buchenwald, dove l’adolescente si lascia orientare da sentimenti semplici o reazioni istintivamente difensive (“mio fratello apparteneva a una categoria diversa dalla mia, alla categoria di quelli che cercavano qualcosa di più dell’adattamento, dell’assuefazione, della solidarietà … cercò contatti più segreti e pericolosi, per entrare a far parte di un gruppo politico che voleva realizzare ben definiti programmi di azione, di sabotaggio sul lavoro… Questo movimento di pochi …non era percepito da chi, come me, accettava quanto gli accadeva come un gioco del destino contro il quale c’era poco da fare”, pag. 97) , fino ad approdare al bilancio dell’esperienza in cui dover collocare con una certa quale spiegazione la scomparsa dei genitori ed il fenomeno Auschwitz. .
Qui Salmoni sembra quasi tradire l’ordine con cui ha proceduto nel raccogliere i suoi pensieri. E forse nello scrivere ne è consapevole.
Ritornano, quasi involontariamente ossessivi, i concetti di “tollerabilità” e di “controllo”: “dico a me stesso che questa attività, questo ritornare sul passato, vanno tenuti sotto controllo, non deve squilibrarmi”(pag.102), “per superare le delusione della politica non mi restava che crearmi una sfera controllabile, una famiglia mia ”(pag. 99), “è innegabile che ritornare su quei tristi avvenimenti mi provoca qualche turbamento, per il momento tollerabile ”(pag. 105).
Si intuisce il permanere di (o lo scoprire?) un trauma nascosto alla coscienza, anzi tanto più presente quanto più relegato nel profondo e denegato. (“Nel corso della stesura di queste pagine mi sono reso conto che l’esperienza della deportazione ha inciso su di me più di quanto pensassi ”, pag.104; “Perdere mamma e papà, la sorella … è stato ed è molto doloroso. E’ stato un lutto troppo forte e non ho potuto che alleggerirne il peso, considerandolo come una fatalità prevedibile ed ineluttabile, dato il momento storico …Ho deciso di continuare a vivere”, pag.104).
Una rielaborazione sospesa, parole quasi leggere rispetto forse all’inespresso.
Bella ed evocativa la documentazione sulle vicende della famiglia Salmoni (per esempio sulla mancata discriminazione nonostante la buona condotta morale e politica), interessantissimi, nell’Appendice documentaria curata da Anna Maria Ori il Bollettino della sezione comunista di Buchenwald e gli appunti di E. Zanotti (sempre appartenenti all’archivio Gilberto Salmoni) redatti in Buchenwald dall’aprile al giugno del 1945, ripresi e riaggiornati successivamente, relativi all’attività politica clandestina del campo nonché all’insurrezione, cui parteciparono 31 italiani (ne vengono riportati i nominativi). Altri elenchi fanno il punto storiografico anche sul censimento del campo al momento del rimpatrio.
La curatrice ha organizzato con precisione il materiale intrecciato tra storia e memoria, facendo ben compenetrare i due ambiti e i due registri linguistici , che infatti si illuminano vicendevolmente, mentre, nell’introduzione, dipana con chiarezza i grovigli emotivi sottilmente impliciti nelle riflessioni dell’autore.
(Maria Grazia Davoli)