Marcella Ravenna
Carnefici e vittime
Bologna, il Mulino 2004, pp. 396.
Il saggio di Marcella Ravenna è uno di quei testi che impongono al lettore una lettura ed una analisi attenta: per comprendere in tutto il loro significato alcuni passaggi talvolta è necessario rileggere certe sezioni maggiore attenzione. L’approccio che l’autrice usa per spiegare la shoah, ma potrebbe funzionare anche per altre atrocità perpetrate dagli uomini contro i loro simili, è quello dell’indagine psicologica: scandagliare i motivi che spingono uomini per altri aspetti del tutto comuni a compiere i delitti più efferati. In questo senso l’approccio della Ravenna non è del tutto nuovo: già la filosofa tedesca Hannah Arendt aveva cercato di spiegare le radici psicologiche di questo fatto e le aveva ravvisate in quella che lei definì la “banalità del male”, una concettualizzazione che suscitò non poche critiche all’interno del dibattito filosofico e storiografico. Ma anche il sociologo Zygmut Baumann ha affrontato questo specifico tema: a suo avviso uno degli elementi che rendono la shoah un evento unico è il processo di modernizzazione ad essa sotteso che comporta anche la deresponsabilizzazione del singolo nei confronti di ciò che compie. In anni molto recenti hanno cercato di indagare questo aspetto, partendo da presupposti più specificatamente storici, due studiosi Cristhopher Browing e Daniel Goldhagen. Entrambi hanno cercato le motivazioni che hanno spinto i riservisti del Battaglione 101, di stanza in Polonia, a macchiarsi di una serie spaventosa di eccidi compiuti contro la popolazione ebraica inerme. Le risposte date dai due studiosi, più volte richiamati dalla Ravenna, nel suo saggio, sono completamente diverse: infatti Goldhagen ritiene che tali eccessi sino imputabili ad una sorta di antisemitismo intrinseco nella popolazione tedesca, mentre Browing fa riferimento a motivazioni diverse, ma nessuna sembra prevalere sull’altra.
Ciò che contraddistingue l’ampio studio di Marcella Ravenna e ne costituisce il pregio è l’ampia analisi che la studiosa fa dei meccanismi di esclusione: a suo giudizio la shoah è stata possibile perché i nazisti, mediante un percorso costellato di leggi, divieti, ma anche grazie ad un uso sapiente e calcolato della propaganda, hanno saputo escludere l’ebreo dalla comunità di popolo. Lentamente questa esclusione ha condotto la popolazione tedesca a nutrire indifferenza verso le sorti dei propri connazionali di religione ebraica. Nei campi di sterminio al processo di stigmatizzazione si è aggiunto quello di deumanizzazione (in effetti i prigionieri dei lager avevano un aspetto così ripugnante da non sembrare neppure più uomini) e questo ha fatto sì che i carnefici non avessero per nulla l’impressione di compiere crimini efferati contro uomini come loro, ma piuttosto contro insetti.
La Ravenna per rendere più chiaro il meccanismo che spinge uomini normali ad assumere il ruolo di carnefici fa riferimento soprattutto agli studi che riguardano il Sé, i processi di riconoscimento o di esclusione dell’altro, la percezione dell’autorità. Soprattutto riprende gli esperimenti di Stanley Milgram , uno studioso americano, che notò che persone normali non esitavano infliggere scariche elettriche sui loro simili allorquando sbagliavano delle riposte, a patto però di non vedere gli esiti della loro azione: questo spiega assai bene il comportamento delle SS nei lager: per lo più tutti i lavori connessi con le camere a gas erano lasciati a prigionieri che divenivano così di fatto i carnefici. Inoltre l’autrice dimostra richiamando gli esiti dell’esperimento di P. Zambardo che non è vero che le azioni violente siano appannaggio di certe persone soltanto. Infatti questo studioso creò in vitro la realtà di una prigione reale ed era sorprendente notare quanto in fretta persone normali assumessero in brevissimo tempo i comportamenti vuoi dei carcerati vuoi dei secondini e questi ultimi, apparentemente fino ad allora persone normali e non violente per natura, non esitavano ad usare i manganelli ed assumere, in generale, comportamenti violenti nei confronti dei loro compagni carcerati.
Tali esperimenti dimostrano che, allorquando siano posti in essere processi che comportano da una parte la discriminazione e la stigmatizzazione di un certo gruppo umano, è possibile che si arrivi alle situazioni estreme della shoah così come di altri massacri di massa. Infatti i carnefici sono convinti che non solo che le loro azioni siano positive, ma anzi che siano di vantaggio ed utilità per la società tutta, tale processo di autovalutazione di sé è ravvisabile nelle dichiarazioni di coloro che lavorarono al progetto eutanasia posto in essere nel Terzo Reich e fra i soldati del già menzionato Battaglione 101. Naturalmente lo studio di Marcella Ravenna non vale solo per i crimini commessi dal Terzo Reich, ma si può benissimo applicare alle varie vicende estreme di cui è costellato il Novecento: i piloti che sganciarono le bome su Hiroshima, come i soldati autori della strage di My Lay, come i torturatori nelle prigioni segrete in Argentina o in Cile non erano affatto uomini deviati o violenti per natura o sadici, ma hanno agito come tali poiché avevano introiettato l’idea che le loro vittime erano il male e come tale stava a loro estirparlo.
Va da sé che se comprendere i fenomeni che conducono all’esclusione di un gruppo dalla società e gli eventuali forme di danneggiamento di cui possono essere vittime non è difficile, lo è invece cercare di comprendere quali meccanismi da un punto di vista educativo e pedagogico possano essere posti in essere per evitare il riproporsi di tali situazioni. E questa è una delle sfide educative agli inizi del nuovo millennio.
Alessandra Chiappano