Giovanni Domaschi,
Le mie prigioni e le mie evasioni.
Memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista

a cura di Andrea Dilemmi,
Verona, Cierre – Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, 2007, pp. X, 409, ill., euro 18,00.


La storia di Giovanni Domaschi ha qualcosa di romanzesco. È, innanzitutto, la storia di due manoscritti ritrovati. Due quaderni scolastici coperti di scrittura fitta ai quali lo stesso Domaschi ha consegnato il racconto dei suoi anni di prigionia durante il regime fascista. Il primo dei quaderni è stato rinvenuto alcuni anni fa tra le carte di Ugo Fedeli conservate ad Amsterdam, presso l’International institute of social history. In tempi più recenti, un secondo quaderno è comparso nelle mani di un antiquario che ne ha proposto l’acquisto all’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
Le memorie di Domaschi si sviluppano attorno alla narrazione dei numerosi tentativi di fuga che l’anarchico veronese mette in atto utilizzando i più classici metodi dell’epica carceraria (segando le sbarre con una lima, scalando il muro di cinta con lenzuola annodate, fuggendo travestito da prete) ed ai quali si deve la notorietà di cui all’epoca egli godeva tra i suoi compagni di prigionia, antifascisti di ogni corrente politica. In due occasioni, a Lipari nel 1928 e a Messina l’anno successivo, gli riesce di evadere dal carcere assieme ad alcuni compagni, ma il sogno della libertà ritrovata si conclude presto con la cattura. Un terzo tentativo studiato con cura in compagnia del giellista Ernesto Rossi, con il supporto della rete di GL e di Carlo Rosselli, viene scoperto poco prima di essere messo in atto a Piacenza, nel 1933. Quella che appare a tratti come una vicenda biografica straordinaria, quasi l’epopea di un Papillon di casa nostra, è in realtà anche la storia comune di un operaio anarchico, di un militante di base della prima metà del Novecento.
Giovanni Domaschi nasce nel 1891 in un paese di campagna a pochi chilometri da Verona. Figlio di genitori contadini, trascorre gli anni dell’adolescenza nella cintura periferica della città, interessata nei primi anni del Novecento da significativi processi di industrializzazione e di urbanizzazione. Attratto dal fascino delle industrie, si occupa come meccanico presso le Officine ferroviarie, il più grande stabilimento cittadino. È questo l’ambiente in cui, oltre all’abilità nel lavoro manuale, acquisce una coscienza di classe e compie i primi passi nella sua attività politica, prendendo parte alle attività di un gruppo di giovani socialisti.
Sono gli anni in cui la corrente sindacalista insidia da sinistra l’egemonia del socialismo riformista; a Verona, dal 1907, alla guida dell’Amministrazione comunale si trova una giunta di coalizione che comprende socialisti e radicali. Il socialismo di Domaschi, come quello di tanti altri giovani nello stesso periodo, è di impronta rivoluzionaria e si orienta verso il sindacalismo. Di lì a pochi anni, lo scoppio del Primo conflitto mondiale e lo sviluppo dell’interventismo segnano fratture insanabili. Nell’opporsi a quei sindacalisti che si erano dichiarati a favore dell’intervento prende corpo la sua adesione all’anarchismo; a quella corrente, cioè, che manteneva inalterato il rifiuto della guerra e la visione internazionalista: un anarchismo, come egli stesso lo definisce, di tendenza comunista e organizzatrice.
Domaschi affronta il dopoguerra con le grandi speranze di trasformazione sociale suscitate dalla rivoluzione russa e dai forti conflitti che caratterizzano il biennio rosso. È attivo nella locale Camera del lavoro di tendenza sindacalista, ma fonda anche un gruppo operaio anarchico di quartiere che funge da centro di raccordo per i nuclei di operai che danno vita all’occupazione delle fabbriche. Terminata la fase ascendente del movimento, si trova a fronteggiare l’offensiva padronale e fascista. Nell’aprile del 1921 viene arrestato nel corso di un conflitto a fuoco che oppone un gruppo di “sovversivi” a una squadra fascista intenzionata ad attuare una spedizione puntiva nel suo quartiere. Trascorre quindi più di un anno in carcere.
Nel novembre 1926, quando vengono varate dal fascismo le leggi speciali, è tra i primi veronesi “di spicco”, leader delle opposizioni, a subire l’arresto e l’assegnazione al confino. Trascorre in prigionia quasi 17 anni, transitando in un numero notevole di carceri e in quasi tutte le isole di confino (Favignana, Lipari, Ponza, Ventotene), dove stringe rapporti fraterni con alcuni tra i più conosciuti esponenti dell’antifascismo come, ad esempio, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini.
Nel 1928 è condannato dal Tribunale speciale a 15 anni di reclusione, alcuni dei quali vengono da lui trascorsi assieme al gruppo dei giellisti rinchiusi negli anni Trenta a Regina Coeli: Rossi, Bauer, Calace, Traquandi, Roberto. Trasferito al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari con gli altri anarchici esclusi dalla liberazione dopo la caduta di Mussolini nel luglio 1943, Domaschi riesce a fuggire nei convulsi giorni che seguono l’8 settembre e, ritornato a Verona, entra nel secondo Comitato di liberazione nazionale cittadino. Svolge attività nella Resistenza fino alla cattura dell’intero CLN e alla deportazione in Germania, nell’estate 1944. Muore nel campo di concentramento di Dachau nel febbraio 1945.
La storia di vita dell’anarchico veronese, costantemente in bilico tra confino e carcere, riassume in sé e restituisce tramite il racconto autobiografico la realtà della repressione messa in atto dal regime contro i suoi oppositori. Repressione contraddistinta, più che dalle violenze e dalle privazioni materiali che comunque non mancarono, dalla completa discrezionalità delle condanne, dalla loro durata indeterminata e virtualmente senza fine, dalla completa riduzione delle esistenze individuali in balìa dell’arbitrio dei sorveglianti. Le pagine che Domaschi ci ha lasciato rappresentano un efficace antidoto al mito del confino come “villeggiatura”, diffuso dal regime già in epoca fascista e recentemente ripreso con intenti revisionisti. I suoi ripetuti tentativi di evasione, messi in atto anche quando tale proposito risulta chiaramente impraticabile, esplicitano la volontà costante di ritrovare la libertà perduta per riprendere il proprio posto nella lotta contro il fascismo e rappresentano, a loro volta, un meccanismo di resistenza. Controllare le proprie energie, organizzare il monotono scorrere del tempo della prigionia in funzione di uno scopo preciso, sono entrambi elementi di un’efficace strategia per sopravvivere all’arbitrio della repressione.
Oltre ad essere una testimonianza importante per ricostruire la storia degli anarchici al confino, gli scritti di Domaschi contribuiscono a disegnare il profilo rappresentativo di un operaio politicizzato dei primi decenni del Novecento, orgoglioso della sua abilità nel lavoro, protagonista di un costante processo di acculturazione da autodidatta, partecipe delle vicende sindacali e politiche locali in prima persona anche se non in qualità di leader; restituiscono, infine, l’impronta di un “tipo” di militante anarchico relativamente diffuso all’epoca: operaio, fautore del sindacalismo, favorevole all’organizzazione. Le memorie di Domaschi sono, in sintesi, un testo utile per comprendere la mentalità, le convinzioni e le scelte di vita di un operaio anarchico della prima metà del Novecento.

Paolo Finzi