Pio Bigo
Il triangolo di Gliwice – Memoria di sette lager
Dell’Orso, Alessandria 1998
Postfazione di Lucio Monaco
di Bruno Maida
Quando, nel 1990, si è svolto a Torino il convegno internazionale dedicato a “Gli ultirni giorni dei Lager”, Edith Bruck ha raccontato la “marcia della morte” che da Auschwitz l’ha condotta a Bergen Belsen e ha ricordato il crescendo di violenza dei soldati tedeschi: “Tra le mille angherie, per rabbia e noia, vedendoci giungere con immane fatica in cima a qualche strada in salita, con i piedi avvolti in stracci ghiacciati, duri e scivolosi, ci ordinavano dietro front, guardandoci rotolare giù giù e ricominciare da capo la salita, lasciando dietro non poche macchie nere di morte nella neve indurita come pietra”.
La lotta disperata per la sopravvivenza, mista ad un’indifferenza verso la morte, peraltro sempre più semplice, quasi irreversibile, è raccontata da Edith Bruck con parole dense dello stupore di chi non concepiva più la possibilità del ritorno, piuttosto che con la rabbia di chi vedeva dilatarsi ancor più la tragedia dei Lager e dello sterminio. Questa rabbia si legge – con parole più semplici ma non meno vere e toccanti – nella testimonianza di Pio Bigo (Il triangolo di Gliwice. Memoria di sette Lager, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1998, 28 mila lire) che da Auschwitz compie la sua “marcia della morte” verso Buchenwald: “Mi ero ormai abituato a queste scene: non avevo più lacrime. Era come se nelle vene mi scorresse non più sangue, ma un veleno tale che, se ne avessi avuto la possibilità, avrei avvelenato tutti quegli assassini di esseri inermi e indifesi, sfruttati fino alla morte. Padri di famiglia, giovani, uomini di cultura e professori di vari paesi europei, dottori, avvocati, persone comuni, così tanta gente cessava di vivere e se ne andava per sempre!”. E queste parole senza appello non si collocano a caso in un racconto che nella “marcia della morte” trova il suo punto centrale sia narrativo sia interpretativo.
Gliwice significa, per Bigo, la salvezza da una selezione che lo dovrebbe comprendere. Si cuce addosso, all’ultimo momento, un triangolo rosso francese che, in quel frangente, finisce per segnare il confine tra vita e morte. Tuttavia, in questa salvezza, vi sono tutte le domande di
chi è tornato vivo; domande sulla casualità, sul senso di colpa dei salvati, sul dovere di testimoniare, anche sul dovere di mantenere vivi, almeno, nomi e volti.
Bigo ha già conosciuto quattro Lager quando giunge ad Auschwitz (Mauthausen, Gusen, Linz, Linz 111) in un percorso di antifascismo esistenziale che lo ha condotto, dopo l’8 settembre, a combattere in Val di Lanzo, dove viene catturato nel corso di un rastrellamento (e il racconto preciso e per certi versi originale di questo episodio sarà indubbiamente utile a chi ricostruisce le vicende del movimento partigiano piemontese).
Dei Lager dove viene deportato, Bigo ci racconta, anzi quasi ci disegna, la forma e le misure di tanti luoghi e oggetti che il lettore di questo tipo di memorie ha sentito tante volte nominare (il cucchiaio, la gamella, la baracca, il lavatoio, ecc.).
Quindi, luoghi e oggetti conosciuti, ma che Bigo, con minuziosa cura, ricostruisce quasi a voler segnare i confini concreti del mondo conosciuto ma quasi impensabile con gli occhi di oggi e con il significato che le stesse parole hanno nella nostra vita quotidiana. Scrive Anna Bravo nella prefazione che “nella fioritura di nuovi testi di memoria che caratterizza gli anni Novanta, questo libro merita un posto di rilievo”.
E’vero, e per molte ragioni: per la capacità che Bigo ha nel raccontare una storia collettiva, facendosi testimone di chi non c’è più e ricostruendo le reti di relazioni esistenti prima, durante e dopo il Lager; per la ricerca continua dell’umanità, non certo per confondere vittime e carnefici, ma per ricordarci che questi ultimi erano uomini, non mostri, e quindi tanto più terribili; per averci fatto conoscere una storia straordinaria, basti pensare ad un’odissea che attraversa sette Lager; per aver sottolineato il tema del ritorno e della sua difficoltà, come integrazione nella nuova società quanto per il peso che tante morti hanno sui pochi vivi.
Ma vi è un elemento in più, una sorta di valore aggiunto del volume, che è fornito dalla postfazione di Lucio Monaco, intitolata “Una memoria lontana”, un vero e proprio saggio sul significato di una memoria che deve fare i conti con il tempo trascorso, con le sovrapposizioni dei ricordi e con i mutamenti del testimone e della storia; e per questo, se vogliamo, ancor più coraggiosa.
Monaco inserisce la storia di Bigo in quella del suo trasporto, cercando numeri, nomi e percorsi che, da un lato e grazie a ciò, rimangono vivi nel ricordo di tutti, dall’altra, consentono al lettore un inquadramento storico, prezioso allo studente, all’insegnante e allo storico, al quale l’autore ricorda indirettamente il grande lavoro ancora da compiere per realizzare un quadro soddisfacente della storia della deportazione politica italiana.
Una bella lezione di storia che vale la pena tenere a mente.