Fausto Coen
16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma
Firenze, Giuntina, 2004 (© 1983)
Bene ha fatto la Giuntina a ristampare questo piccolo ma prezioso libro di Fausto Coen sulla sorte degli ebrei romani sotto il nazismo, e per diversi motivi: il primo, che può essere esteso genericamente a tutti i tragici avvenimenti di quel periodo, è che è sempre bene offrire opportunità per ricordare. Ma poi, entrando nello specifico del libro, è fuor di dubbio che gli avvenimenti narrati, dalla raccolta dell’oro alla “grande razzia”, le riflessioni offerte, dal silenzio del Vaticano all’opera di soccorso prestata da tanti religiosi e conventi, fino al ruolo di Kappler, mantengono inalterato, e non potrebbe essere altrimenti, il loro carattere di drammaticità e di problematicità.
Non è un caso che gli studi sulla shoa continuino a scavare su quel buco nero che fu la deportazione e l’eccidio di milioni di ebrei in tutti i paesi dell’Europa, dall’ovest all’est, mai trovando spiegazioni, se non parziali, all’orrore compiuto da un regime nato in un civilissimo paese della civilissima Europa.
E anche qui, come potrebbe “spiegarsi”, la cattura di 1022 ebrei nel cuore di Roma, donne, vecchi, malati, bambini, e la morte di 839 di loro, “la più alta in assoluto di tutti i successivi trasporti di deportati dall’Italia”, come ricorda l’autore, nei crematori di Birkenau solo qualche giorno dopo, il 23 ottobre, giusto il tempo del viaggio?
Oggi forse la domanda, che si pone anche l’autore, è: perché non fuggirono? Perché non si nascosero? Ma la domanda che si poneva allora, come ci ricorda Coen, era: come potrebbero colpire la comunità romana, così integrata nella città e nel paese, in Italia, con la presenza del papa… “Nonostante le apprensioni e i tristi pensieri, le giornate degli ebrei romani trascorrono dunque tra quella fine di settembre e la metà di ottobre come sempre. Nelle vie dell’antico quartiere la gente circola, chiacchiera, ragazzi e ragazze scherzano, amoreggiano, i bambini giocano come di consueto. Gli artigiani non hanno chiuso le loro botteghe. I negozi sono aperti. Anzi gli affari non vanno troppo male. Proprio in quei giorni si affacciano nuovi clienti: ufficiali, sottufficiali, soldati tedeschi. Hanno metodi educati e non contrattano. Questi tedeschi – pensano a Portico d’Ottavia- non fanno nessuna differenza fra negozi di ebrei e di non ebrei, fra un «ariano» e un « giudeo ».
Tra i vari spunti di riflessione che la lettura offre c’è anche quello sulla drammatica scelta del rabbino Zolli: originario della Galizia, dove era nato nel 1881, era stato rabbino a Trieste per trent’anni e chiamato a Roma nel 1939. “Zolli aveva vissuto le tragiche esperienze dei pogrom e conosceva gli eccessi dell’antisemitismo”; aveva proposto “la chiusura della Sinagoga e degli uffici comunitari, la distruzione dell’elenco dei contribuenti, la distribuzione di aiuti finanziari di emergenza ai bisognosi.” …Poi, visto che i suoi consigli non erano stati accettati, aveva abbandonato la comunità e trovato rifugio al di fuori del ghetto. “Non v’ha dubbio che Zolli avesse visto più giusto dei dirigenti di allora. Ma questo non lo assolve dal suo comportamento” è il duro commento dell’autore.(pp.44-45)
Finita la guerra la comunità ebraica romana non ne accettò il ritorno, nonostante il governo alleato gli avesse rinnovato l’incarico, e nel gennaio 1945 Zolli si convertì al cristianesimo, insieme alla moglie e alla figlia, forse per gratitudine per la protezione offertagli dalla chiesa cattolica. Non si convertì invece la figlia avuta dalla prima moglie.
Pur nella sua singolarità, il caso del rabbino Zolli sembra iscriversi nel quadro delle verifiche interne che le comunità ebraiche si trovarono a fare nel dopoguerra. Penso in particolare alla comunità ebraica bolognese: in quel caso l’iscrizione al partito fascista e la conversione non salvarono dalla deportazione ad Auschwitz, ma chi morì nella camera a gas di Birkenau non è tuttavia ricordato tra le vittime del nazismo!
C’è infine anche un cenno (p.123) al caso della delatrice ebrea Celeste Di Porto, la “Stella di piazza Giudia” di cui scrive Giuseppe Pederiali, (Giunti, 1995) che “indicava le vittime salutandole per la strada”, per 5000 lire a vittima.
È un libro da leggere.
Olga Lucchi