DARIO VENEGONI – Cari compagni, rinuncio per pietà della vostra e della mia stanchezza a farvi un ampio rapporto della mia attività dì direttore del Triangolo Rosso. Il vantaggio dell’attività di un giornalista è anche questo: che lascia tracce tangibilì e che tutti possono farsi un’opinione personale. Quello che è stato fatto in questi anni, quello che ho fatto in questi due anni, da quando la presidenza dell’Aned mi ha chiesto di sostituire lo scomparso Saba alla direzione del Triangolo Rosso l’avete visto tutti. Io dico solo una cosa, che mi sono trovato ad applicare all’Aned una concezione assai ampia ed estesa della comunicazione, una concezìone che mi ha procurato anche qualche problema ogni tanto. Probabilmente sono andato qualche volta addirittura al di là dei compiti che mi erano stati affidati.
Il cambiamento che c’è stato in questi anni, se dovessi riassumerlo in una frase, direi che è questo: oggi il 90%, l’80% della nostra informazione è rivolto verso l’estemo, e solo il 10 o 20% è rivolto a noi stessi. Qualche anno fa era il contrario. Il Triangolo Rosso che io ho ereditato si rivolgeva molto a noi stessi, raccoglieva quello che i giornali dicevano di temi che ci riguardavano e ce li riproponeva. Noi cerchiamo di fare il contrario, perché crediamo che sia oggi questa l’esigenza che l’Aned si trova ad avere davanti.
Arrivo però alla questione che credo tutti si aspettino che io cerchi di discutere di fronte a questo congresso, dopo aver scritto sul TriangoloRosso, forse abusando del mio potere di direttore, un intervento pre-congressuale sull’avvenire dell’Aned, e dopo che il presidente Maris ha avuto la benevolenza di dedicare a questo mio intervento un’ampia parte della sua relazione congressuale. Un intervento provocatorio, qualcuno ha detto, e io francamente non so se posso accettare questa definizione. Chi conosceva i miei genitori, Carlo Venegoni e Ada Buffulini, sa che io sono stato allevato a una scuola dove la provocazione era bandita. Io sono stato allevato a dire ai compagni di lotta la verità, tutta la verità, con animo aperto e senza reticenze. Ed è quello che ho provato a fare in quell’intervento sul Triangolo Rosso, e voi mi perdonerete se mi faccio scudo della considerazione di cui la memoria dei miei genitori gode presso di voi, sicuro di poter parlare a tutti voi come un figlio, se volete un nipote, che confida sulla benevolenza che di solito si porta verso i parenti più giovani.
La prima questione che si pone secondo me è questa: di chi è l’Aned? La risposta è semplicissima. l’Associazione degli ex deportati è degli ex deportati. I figli, i nipoti, la seconda generazione di cui parla Teo Ducci, possono venire qua a fare le loro osservazioni, ma poi quando si tratta di decidere dell’avvenire dell’Associazione è giusto che siano i superstiti a dire quello che vogliono fare. E io per parte mia penso che non posso fare altro che dire preventivamente che mi atterrò a quello che voi deciderete di fare.
Che cosa è stata l’Aned in questi cinquant’anni? Questa è una domandina un po’ più complessa e alla quale non si può dare una risposta spiccia. L’Aned è stata, io penso, l’organizzazione nella quale si è riconosciuta una parte della generazione che è uscita vittoriosa dalla Resistenza e dalla guerra. Nel filmato che abbiamo presentato qua, senza molta fanfara, e che ha per titolo “Testimoni”, lo dice nella sua testimonianza molto bene Ferruccio Maruffi, quando dice: “Noi abbiamo combattuto, noi siamo i vincitori, tutti, i vivi e i morti”. All’intemo di quella generazione l’Aned ha rappresentato la parte che senza dubbio ha pagato il prezzo più alto. Un reparto che aveva combattuto in condizioni tanto estreme che talvolta, non devo essere io a dirlo a voi, persino i vostri stessi compagni, addirittura i vostri stessi familiari quando siete tornati, dopo un po’ vi hanno pregato di piantarla di raccontargli questa storia di orrori, di sacrifici inauditi, di condizioni disumane.
All’interno del grande mondo dei vincitori, di quella generazione che si apprestava a ricostruire il paese, a darci la Costituzione, a plasmare la Repubblica, con tutti i problemi che ne sono venuti, correggetemi se sbaglio, voi avete scoperto 50 anni fa di costituire organicamente, fisiologicamente, culturalmente, quindi politicamente, una parte a sé, che aveva esigenze sue proprie, che avvertiva un forte bisogno di identità collettiva. Per questo è nata l’Aned nel dopoguerra, perché tra i superstiti dei Lager c’era intanto l’esigenza di ritrovarsi, di riconoscersi tra compagni di sventura, di creare un ambito nel quale essere certi di parlare tutti la stessa terribile lingua. Un ambito che nessun partito, nessun sindacato, nessuna organizzazione, per quanto amata, poteva garantire.
Forse qualcuno di voi si sta chiedendo dove voglia arrivare; sono consapevole che questo mio discorso può apparirvi un po’ strano. Non voglio certo venire qui, come si dice, a insegnare la vostra storia a voi, ma voglio ricordare le origini della nostra associazione, perché secondo me ciò è indispensabile per comprendere come oggi in un contesto culturale, prima ancora che politico, tanto differente da allora, la risposta che la nascita dell’Aned diede al superstiti dei Lager nel dopoguerra sia giunta davvero alla scadenza di una verifica non rinviabile.
Io ho scritto in quel mio intervento che è stato ampiamente discusso da molti compagni – e io li ringrazio dell’attenzione e anche della simpatia con la quale hanno discusso la mia tesi – che «l’esperienza storica dell’Aned, così come si è sviluppata in questi 50 anni – sto citandomi – che ci separano dalla fine della guerra si è fisiologicamente conclusa». Non volevo certo fare con voi il discorso cinico di una generazione nuova che ha chissà quali spazi da reclamare a quella che l’ha preceduta; non si tratta solo di prendere atto – questo sì che è fisiologico, e in fondo è il bello della vita – che la generazione dei ragazzi di allora è diventata la generazione dei nonni di oggi; si tratta secondo me di riconoscere che nel corso dei decenni sono mutate le ragioni culturali, politiche, ideali che spinsero 50 anni fa tanti di voi a fondare non genericamente l’Aned, ma questa Aned, e che questa Aned, di cui celebriamo in questo congresso anche il cinquantesimo compleanno, è stata modellata in un ambiente culturale, in un contesto economico, in un quadro politico, in un sistema di valori morali e ideali, in un sistema di rapporti di forze internazionali che non esistono più.
Porsi quindi oggi il problema di una trasformazione dell’Aned vuol dire semplicemente porsi il problema di come rispondere alle esigenze che la realtà del XXI secolo si appresta brutalmente a buttarci sotto il naso. Siamo capaci di affrontare il 2000? Siamo capaci di parlare alle nuove generazioni così come l’Aned alle sue origini fu capace di parlare alla generazione che usciva dalla guerra? Questi sono gli interrogativi che secondo me percorrono tutti i lavori del nostro congresso. Questa è la domanda, e io ho paura che se questa è la domanda – siamo pronti per il 2000 – la risposta è meglio che non ce la diamo perché sarebbe negativa. Cosa possiamo fare?
Abbiamo davanti a noi un bivio. La strada maestra che abbiamo percorso fin qui non c’è più; ci si pone di fronte un’altemativa, e a me pare che sia vano pretendere di ritomare sul vecchio conosciuto cammino. Non possiamo proseguire diritto per la nostra grande via, perché la strada è cambiata, perché il contesto è cambiato, perché ci troveremmo, io ho l’impressione, in breve tempo a ridurci ad avanzare su un angusto viottolo senza sbocco. Io credo che noi dobbiamo fermarci un istante, prendere atto che da soli non ce la possiamo fare, e convincerci che però ce la potremo fare se attorno a noi sapremo mobilitare le forze vive di questo paese. Se potremo mobilitare i figli forse un po’ smarriti della nostra prima lontana stagione di lotta; gli uomini, le donne, i ragazzi, tutti quelli che un po’ ingenuamente ogni tanto si fanno vicino a noi e anche timidamente ci chiedono che cosa possono fare per darci una mano.
A me l’esperienza di questi due anni di intenso lavoro dice che attorno all’Aned c’è un mondo vivo, pronto a dare una mano agli ex deportati, per dare, come diciamo noi in questo congresso, “alla memoria un futuro”. Lo dimostra il film che abbiamo portato qui fresco fresco di stampa, tanto da non avere ancora una copertina definitiva; un film che a chiunque altro in questo paese, e nel mondo, sarebbe costato diverse centinaia di milioni di lire, e che all’Aned non è costato una lira, grazie al lavoro volontario di decine di professionisti che hanno prestato gratuitamente la loro opera per la sua riuscita, convinti che fosse un impegno professionale sì, ma soprattutto un impegno politico. Quel filmetto oggi, lungi dal rappresentare un appesantimento dei nostri bilanci, ci consente addirittura, e questo, pensiamoci, è davvero un clamoroso lusso, di contribuire parzialmente alle spese congressuali, grazie ai contributi che ciascuno di noi è chiamato a dare quando ne acquista una copia.
Io non dico, come forse qualcuno ha inteso, e di questo mi scuso perché se questo è avvenuto evidentemente è colpa mia, che mi sono spiegato male: «l’Aned è morta, tutti a casa». No, tutt’altro. Io dico e lo dico, se me lo consentite, riprendendo la citazione di quel mio articolo discusso, che «a 50 anni dalla fine della guerra questo congresso di Prato dovrà costituire l’occasione per una chiamata a raccolta di tutte le nostre residue energie e di tutte le forze che attorno all’Associazione possono mobilitarsi in questo momento straordinario per dare vita a un’organizzazione nuova, un’organizzazione capace di raccogliere la nostra eredità e di proseguire nella documentazione, se non nella testimonianza dello sterminio nazista e della deportazione».
Io penso, e l’ho già detto, a una Fondazione nazionale nella quale l’Aned possa rapidamente confluire, mantenendo la propria identità insostituibile di organizzazione di testimoni dei Lager, in un contesto rinnovato, organizzato, aperto a nuovi contributi. Io non potrò mai andare nelle scuole a raccontare che sapore aveva la zuppa che davano a voi da mangiare, o se, e come, e quanto facevano male le bastonate che prendevate voi. Questo compito è vostro, e ha ragione Maris a dire, come ha fatto nella relazione, che questa funzione del testimone si esaurirà soltanto con l’ultimo testimone. Affermo invece e di questo sono veramente sicuro, che in questi 50 anni i superstiti si sono caricati di compiti organizzativi, amministrativi, storiografici e quant’altro che oggi possono delegare ad altri.
Dobbiamo ammettere che non riusciamo a fare le cose che facevamo 30 anni fa. Faccio un esempio banale, il primo che mJ viene in mente: se il Triangolo Rosso non riesce a raggiungere puntualmente gli abbonati – e tanti malumori nascono, e io ne so qualcosa, per questo contrattempo – è forse anche perché i superstiti dei lager non si sono saputi trasformare in tecnici di computer. Perché ormai gli elenchi si fanno col computer, noi i computer li amministriamo male, e il Triangolo Rosso non arriva. Poco male, rimedieremo, lasceremo che gli indirizzi li stampino i tecnici di computer; che gli storici facciano gli storici, affideremo le nostre biblioteche ai bibliotecari.
Io non credo che sia questo il nostro problema, di mantenerci abbarbicati a tutte le attività che abbiamo svolto fin qui, supplendo con un’attività volontaria e con un po’ di artigianeria alle carenze che ci si ponevano di fronte di volta in volta. Faccio un altro esempio, che considero il più importante, lo ha ricordato anche il prof. Collotti questa mattina: a cinquant’anni dalla fine della guerra noi siamo lontanissimi dall’aver completato il quadro dei trasporti e della deportazione italiana. Quanti erano di deportati, che nome avevano, dove sono finiti, chi erano, che storie individuali, collettive, che movimenti politici c’era dietro quelle storie? Non lo sappiamo – Anzi! siamo lontanissimi dal saperlo. So che ci sono compagni che di questo si sono occupati da decenni, ed è un lavoro meritorio, del quale l’organizzazione tutta credo debba essere loro estremamente grata. Ci hanno lavorato con enorme impegno, in condizioni difficilissime e spesso anche colpevolmente lasciati un po’ troppo soli.
Ora però di ammettere che con questo metodo non ce la faremo mai. Dobbiamo correggere qualcosa, se pensiamo che sia un nostro dovere lasciare alle nuove generazioni un quadro della deportazione italiana che sia sufficiente per aiutare i giovani che tanto critichiamo, che tanto pungoliamo perché sappiano, perché capiscano, perché sono così lontani, perché non capiscono che cosa è stata la deportazione italiana.
E’ ora di ammettere che con questo metodo non ce la faremo mai. Abbiamo dei compagni che lavorano ognuno per conto suo, ognuno con un suo programma di computer, ognuno con una sua metodologia, lavorando tutti sugli stessi elenchi, rifacendo gli stessi nomi, e gli elenchi completi non li avremo mai. E’ ora di porre questo problema alle Università italiane, alla cultura italiana; bisogna mettere la cultura storiografica italiana di fronte a questo compito cruciale, aiutarci a completare questo elenco che è l’essenza stessa della nostra vita associativa.
Io vi chiedo, ammettere il proprio limite in questa ricerca sarebbe un’intollerabile deprivazione di compiti e prerogative esclusivamente nostre? Saremmo privati di qualche cosa che ci appartiene? O sarebbe un di più, un arricchimento del nostro lavoro? Un modo di mantenere fede ai giuramenti che abbiamo fatto sulle ceneri dei nostri caduti là nei campi, e io dico anche un servizio, una risposta al legittimo diritto delle nuove generazioni di conoscere la storia del loro paese. Questa è l’alternativa. Noi non possiamo uscire da questo congresso senza questa decisione. Dobbiamo decidere se pensiamo di poter andare avanti da soli, se pensiamo di contare sulle nostre forze, o se dobbiamo pensare che è ora di fare appello a tutte le forze sane di questo paese, per fare qualcosa di più.
Questa è la prospettiva, io penso, per noi. E penso che sarebbe veramente grave, quasi drammatico, se perdessimo l’occasione irripetibile del 50° anniversario della Liberazione e del congresso. Il compagno Pietro Amendola dell’Anppia, ha detto, intervenendo nei nostri lavori, che è giunto il momento, visto che si parla tanto di Fondazioni, di dare vita a un’unica grande autorevole forte Fondazione delle forze culturali ideali e politiche che si rifanno agli ideali della Resistenza, accanto alle organizzazioni che dalla Resistenza storicamente nacquero. Concedetemi una nota personale, quasi intima, per concludere. Io ascoltavo il compagno Amendola e non potevo fare a meno di pensare ai miei genitori. A mia madre, che voi sapete quanta energia ha dedicato all’Aned, e al mio vecchio padre, che ha dedicato la sua ultima faticosa uscita per andare a mettere ordine in certe carte all’Anppia, perché non voleva che certe pratiche rimanessero in sospeso. Mi sembrava di vederli, e ho avuto l’impressione di vederli sorridere mentre Amendola faceva quella sua proposta. Vi ringrazio.
GIANFRANCO MARIS – Il vostro applauso credo che sia più che gratificante per Dario Venegoni, il quale è intelligente e sa quanto grande sia l’affetto che ci lega a lui, e sa anche che noi non lo leggiamo e non lo ascoltiamo disattenti, né vogliamo rivendicare ruoli che sono andati erodendosi nel tempo per l’età che ciascuno di noi ha raggiunto. Tuttavia, io credo che le riflessioni che ha fatto qui sono migliori di quelle dell’articolo pubblicato su Triangolo Rosso, perché risentono anche dell’attenzione che lui ha prestato sia alle cose che ho detto io in sede di relazione di congresso, sia a quelle che ha detto oggi il prof. Collotti. Di certo, noi usciremo da questo congresso con le decisioni dovute, utili e necessarie. Strutture per far funzionare la ricerca e la documentazione a livello scientifico con alto contenuto professionale, faremo chiudere le buste e funzionare i computer da altri, rimanendo noi l’anima e il pensiero di questa ricerca che, se non altro, noi sapremo sempre e comunque stimolare. Grazie.