L’intervento di Lia Montel Tagliacozzo
Il 7 settembre scorso è stata scoperta ufficialmente presso il cimitero partigiano di Amay (Saint Vincent) una targa commemorativa dedicata ai partigiani deportati Primo Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim. Riportiamo di seguito quasi per intero l’intervento del presidente della Comunità ebraica di Torino, Lia Montel Tagliacozzo, nel corso della manifestazione.
Giustamente il Comitato esecutivo per la celebrazione del 50° anniversario della Liberazione della Resistenza e dell’Autonomia, ricordando il sacrificio dei partigiani, ha voluto mettere a fuoco anche il particolare destino che è toccato ai partigiani ebrei, in quanto ebrei, con una targa che ricorda l’arresto di Vanda Maestro, Luciana Nissim e Primo Levi.
Ci sembra giusto ricordare che l’apporto numerico degli ebrei alla Resistenza è stato in percentuale ben più alto di quello medio della popolazione italiana. Malgrado ciò non è esistita una vera e propria organizzazione ebraica antifascista. Da una ricerca effettuata dalla nostra comunità sul partigianato ebraico piemontese è emerso che la collaborazione alla lotta antifascista era sentita più come un’istanza morale nei confronti della società oppressa che come una risposta di ebrei al nazifascismo. Gli ebrei italiani erano e si sentivano molto assimilati e integrati nella società, e tale assimilazione ed integrazione li portò talvolta anche a schierarsi con i fascisti e numerosi furono coloro che cercarono fino all’ultimo di non vedere e di non capire cosa stava succedendo.
Ma la sorte degli ebrei era destinata ad essere comunque ben peggiore di quella di tutti gli altri italiani, fossero essi semplici cittadini o partigiani.
Nella retata che questa targa ricorda, furono arrestati Vanda Maestro, Luciana Nissim e Primo Levi. I nazifascisti non riuscirono a trovare nulla di compromettente a loro carico, se non il loro essere ebrei e per essi ci fu la deportazione.
Testimonia infatti Primo Levi in “Se questo è un uomo”: “… Tre centurie della Milizia, partite in piena notte per sorprendere un’altra banda, di noi ben più potente e pericolosa, annidata nella valle contigua, irruppero in una spettrale alba di neve nel nostro rifugio e mi condussero a valle come persona sospetta…”.
Testimonia Luciana Nissim: “… venimmo arrestati dai fascisti il 13 dicembre 1943, e trasportati ad Aosta, dove, scoperta la nostra origine ebraica, venimmo poi avviati a Fossoli e di lì deportati il 22 febbraio 1944 ad Auschwitz. ( … ) lo, trasferita prima in un campo di lavoro e poi a Lipsia, riuscii a fuggire dalla grande fila delle deportate verso il 20 aprile e raggiungere gli americani il 25 aprile 1945. Rientrai in Itanlia nel luglio”. Luciana Nissim sposata Momigliano è diventata un’affermata psicanalista e vive ora a Milano.
Della tragica fine di Vanda Maestro abbiamo la testimonianza di un anonimo compagno di prigionia raccolta da Gina Formiggini nel suo libro “Stella d’Italia, Stella di David – Gli ebrei dal Risorgimento alla Resistenza”, di cui riporto qualche brano: “Aveva 24 anni, da poco tempo aveva conseguito la laurea. ( … ) Per lei, come per i migliori di quel tempo e di quella condizione, la scelta non era stata facile, né gioiosa né priva di problemi. ( … ) Non era una donna naturalmente forte, e più ancora della morte temeva la sofferenza fisica. La forza che in quei giorni dimostrava si era maturata a poco a poco, era il frutto di un proposito maturato momento per momento. ( … ) E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato tra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria (in piena lucidità) verso la camera a gas ed il forno di cremazione”.
Anche giovani che non facevano parte di agguerriti gruppi politici e si erano forse limitati a scambiare le proprie idee antifasciste tra amici ad un certo punto avevano sentito il dovere di rendersi attivi nella Resistenza, pur non avendone l’adeguata preparazione tecnica e fisica. Ci spiega Primo Levi: “Non mi era stato facile scegliere le vie della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a “Giustizia e Libertà”. Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli; mancavano gli uomini capaci ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di un’organizzazione inesistente, di quadri, di armi, o anche solo di protezione, di un nascondiglio, di un fuoco, di un paio di scarpe”.
Forse il ricordare questi particolari può aiutarci a non fare della vuota retorica. Affinché queste commemorazioni non si esauriscano negli aspetti esteriori ognuno di noi deve ricordare che il sacrificio di tanti partigiani è stato fatto per noi, per darci un mondo migliore di
cui noi oggi siamo responsabili. Noi ebrei abbiamo forse imparato in particolare a non spogliarci mai della nostra identità e che proprio sulla base di questa identità dobbiamo cercare di far fronte alle istanze della nostra coscienza e all’insegnamento dei nostri maestri per i quali ogni individuo porta la personale responsabilità di tutto ciò che accade nel mondo.
Lia Montel Tagliacozzo