Riproduciamo integralmente il discorso del presidente della Camera Luciano Violante, tenuto all’inaugurazione
della mostra su La liberazione dei campi e il ritorno dei deportati, il 5 novembre scorso nella capitale, ringraziandolo per l’autorizzazione concessaci.
 
 
Almeno 40.000 italiani deportati in maggioranza per motivi politici, 10.000 scomparsi, oltre 9.000 italiani ebrei rinchiusi nei lager a causa della loro religione fatta coincidere con l’appartenenza ad una razza: sono le cifre della barbarie subita dai cittadini del nostro Paese negli anni del sangue, della volontà arrogante, stupida e terribile, dell’uomo di umiliare e distruggere l’altro uomo.
Migliaia di partigiani torturati ed uccisi. 650.000 soldati italiani catturati dopo l’8 settembre ’43, deportati nel Reich, ed in larghissima maggioranza poi capaci di rifiutare la libertà che venne loro offerta in cambio dell’adesione al nazifascismo: sono le altre cifre, gli altri volti, dell’Italia che resistette e combatté per la libertà insieme a chi finì a Mauthausen, ad Auschwitz, ad Ebensee, a Bergen Belsen, a Ravensbrück, a Dora, alla Risiera di San Sabba di Trieste, nei campi transito di Fossoli, Borgo San Dalmazzo, Bolzano.
Sono queste le donne e gli uomini, morti, o sopravvissuti all'”inferno dei vivi”, che hanno vinto sulla barbarie nazifascista. Li ricordiamo perché chi vive ha il dovere di riprendere i valori per cui gli altri sono stati imprigionati, sono morti, e renderli criteri guida della propria vita. Ma c’è un’altra ragione perché la memoria di quegli anni sia mantenuta viva. Solamente il rapporto tra le generazioni che si sono succedute nella storia di un Paese può dare a quel Paese il senso della sua identità nazionale. Questa identità si ritrova ripercorrendo il filo che attraversa i fatti decisivi della nostra storia, lontani e vicini, per scoprire dentro quei valori e dentro questa storia il significato unitario che li rende nostri, riferibili al modo in cui noi italiani sentiamo la nostra appartenenza al Paese.
Noi oggi possiamo essere uniti e liberi perché ci fu la lotta di Resistenza, la Resistenza armata e quella civile, e perché ci furono donne e uomini capaci di opporsi alla barbarie accettando il rischio di essere deportati nei lager.
Richiamarne le ragioni serve a riappropriarci dei valori che ispirarono quella lotta e quella forza di resistenza.
I partigiani mentre combattevano, non sapevano se avrebbero vinto o perso. Nei campi i deportati politici ed ebrei, gli internati militari, erano tenuti il più possibile all’oscuro delle vicende belliche e politiche. Tutto faceva pensare che avrebbero perso, che lo sterminio e la Shoah non si sarebbero potuti arrestare prima dell’eliminazione totale. Eppure furono in tanti a combattere, in tanti, nei campi a resistere. Furono in tanti a cadere, fucilati, torturati nelle carceri, per gli stenti nei lager, ma furono in tanti a prendere il loro posto. E furono tanti che caddero per la semplice, profonda ragione che erano italiani, testimoni di una nazione che non voleva piegarsi. Colpevoli di vivere in una terra in cui si combatteva per la libertà. I primi caddero perché combattenti, o perché erano di religione ebraica. Gli altri caddero perché testimoni. Ricordiamo gli uni e gli altri con lo stesso affetto, con la stessa memoria. Quella generazione ci ha lasciato una lezione, che va rinnovata nella storia e nella memoria.
Per questo la mostra promossa dall’Aned è importante. Una mostra che è molto di più di una rassegna iconografica: è appunto un percorso intenso nel ricordo, nella storia, per rinnovare la memoria. Ed è fondamentale che questo itinerario sia stato concepito e realizzato per una parte significativa da studenti e docenti universitari. In tal modo si è raggiunto un duplice obiettivo. È stato costruito un documento storico-iconografico che rende immediatamente percepibili le violenze perpetrate sui deportati per affermare l’arroganza stolida e inumana del totalitarismo, le difficoltà del rientro e quelle ancor più dure degli anni in cui, per vie diverse, si è realizzata una confusione, se non una vera e propria cancellazione della memoria.
Dall’indomani della liberazione, e per decenni gli organi di informazione, ma anche ampi settori del mondo politico, hanno infatti confuso i deportati con gli internati militari, e tutti questi con i reduci. Negli anni ’40-’60 lo spazio editoriale per le loro memorie fu particolarmente limitato, mentre la storiografia ha lasciato questi temi ai margini della sua riflessione sino ad anni molto recenti. Tutto ciò ha determinato ulteriori sofferenze, nuovi isolamenti e solitudini per chi aveva già subito sulla propria pelle, nel proprio animo, le lacerazioni inflitte dagli uomini inumani dei lager, dai kapo. Sul piano politico e storico ciò ha determinato una sottovalutazione, più o meno consapevole, del ruolo che i deportati politici, ed anche gli internati militari (la vicenda di Dora insegna), ebbero nella lotta antifascista, nella costruzione della democrazia, nell’affermazione dei valori che furono poi alla base della Costituzione.
Questa mostra, e le iniziative collaterali dei prossimi giorni, assumono un grande valore proprio per l’accento posto su queste lacune, su questi sfasamenti prodotti nella coscienza civile e politica degli italiani nell’epoca della Repubblica e della democrazia. Le manifestazioni del Comitato, le testimonianze che saranno rese nel corso di questa settimana, permetteranno infatti di comprendere le ragioni più profonde ed autentiche per cui nella nostra Carta fondamentale trovano ampia tutela i diritti inviolabili dell’uomo e delle persona, non solo quelli del cittadino, e così il principio delle pari dignità sociali.
Ma, dicevo, che le modalità con cui è nata la mostra costituiscono un ulteriore valore di questa manifestazione, valore che va apprezzato e rilanciato. Il fatto che in misura così rilevante essa sia realizzata da studenti è di per sé un elemento formativo e di crescita culturale di straordinario valore per chi non ha vissuto quegli anni. Gestire insieme agli studenti la ricostruzione della memoria e la diffusione della conoscenza delle vicende legate alla deportazione è un modo incisivo con cui si ferma nella coscienza di ognuno la consapevolezza dell’orrore della violenza e dello sterminio, ma anche il rischio dell’oblio e la necessità della memoria.
È in questa direzione che tutti dobbiamo impegnarci per promuovere la diffusione della memoria degli stermini che hanno accompagnato e seguito la seconda guerra mondiale. I ragazzi italiani non hanno, se non eccezionalmente, nella loro formazione la visita ai luoghi dello sterminio nazista. Occorre fare in modo che le ragazze ed i ragazzi italiani, come fanno i loro coetanei tedeschi, olandesi o francesi, conoscano con i loro occhi quella realtà ed imparino quanto è tragicamente facile porsi sullo scivolo che porta alla distruzione dell’altrui dignità. Per questo è importante l’inchiesta condotta sulla coscienza storica dei giovani europei che verrà presentata qui il 18 novembre. Ed è con questi stessi intenti che quest’estate, dopo una visita a Ravensbrück, ho scritto al presidente del Consiglio chiedendogli di valutare l’opportunità che nella prossima legge finanziaria siano inseriti stanziamenti per favorire le visite ai campi di sterminio. Il presidente Prodi mi ha risposto tempestivamente, sensibilizzando i ministeri competenti.
Confidiamo in un rapido avvio di questa “iniziativa della memoria”, assicurando così anche ai ragazzi del nostro paese un momento importante nel loro percorso formativo.
Proprio in questi giorni, quando la Chiesa cattolica avvia una serrata riflessione sull’antisemitismo e sulle ragioni che determinarono, secondo le stesse parole del pontefice, “un’attenuazione delle coscienze di fronte alla Shoah” è importante avere consapevolezza che solo la memoria di quei fatti, rivissuta in ognuno di noi, nella chiarezza e nella forza della loro evidenza storica, della loro disumanità, costituirà il vero argine contro qualsiasi nuovo tentativo di distruggere l’altrui dignità. Bisogna riuscire, come ci propone questa mostra, a coinvolgere le nuove generazioni nella riflessione comune, nella comprensione dei fatti e dei meccanismi che resero possibili i campi di concentramento, la deportazione politica, la Shoah, ma anche i silenzi dei contemporanei, l’indifferenza attorno ai deportati che rientravano. E, d’altra parte, un’indagine pubblicata lo scorso anno (si tratta del questionario “Dai lager alla ‘pulizia etnica’: razzismo ed intolleranza tra storia ed attualità”, distribuito a studenti delle superiori in Val d’Aosta) ci dice che sono i ragazzi stessi a voler sapere di più sui campi di sterminio: ben il 95% di loro.
La stessa inchiesta ci informa che il 55% non conosce la realtà dei campi in Italia, mentre per il 63% c’è ancora molto da dire e da documentare su quanto avvenne nei lager perché “sono stati sempre poco valorizzati i testimoni, preferendo ad essi un racconto mediato da considerazioni generali”. Ma un dato ancor più rilevante è che alla domanda “perché il giovane assume atteggiamenti di intolleranza?”, in una risposta che ammette l’indicazione di tre possibili cause, il 50.9% risponde “per scelta ideologica”, il 59.7% “per disorientamento”, il 30.9% “per affermazione di identità”. Essi ritengono, inoltre, che la prevenzione della violenza e dell’intolleranza non si ottenga con una forte repressione, ma invece proprio con una maggior informazione (43%) e con strutture sociali (33.3%).
Anche alla luce di questi dati vi è, allora, un altro obiettivo che dobbiamo raggiungere, quello della penetrazione in spazi sempre più ampi del mondo dei giovani. In questo senso credo che, anche in Italia, si debba avviare un’opera capace di togliere quella patina opaca che ogni tanto le parole, o i riti, di alcuni momenti celebrativi depongono sulla realtà di quei fatti.
Se vogliamo davvero raggiungere i più giovani in questa “iniziativa di diffusione della memoria” è necessario evitare che un eccesso di sacralizzazione commemorativa, o una mera demonizzazione di quei momenti storici, compromettano la percezione, la conoscenza e quindi il rifiuto e la condanna del nazifascismo anche nella forma in cui quella concezione oggi, a volte, si presenta nelle nostre strade. Solo così non si riprodurranno i miti dell’Eroe negativo o un’altrettanto pericolosa indifferenza che è la premessa per qualunque degenerazione politica.

on. Luciano Violante
presidente della Camera dei Deputati