Una lettera aperta di Teo Ducci sull’annosa questione del rinnovamento

Se ci sono volentorsi amici dell’Aned pronti  a darci una mano,  perché non si fanno  avanti?

La soluzione è davvero l’allargamento dell’associazione a chi con la  deportazione non ha avuto nulla a che fare?
 
Caro Dario,
a conclusione dell’ultima riunione del Consiglio della sezione di Milano ho sentito ancora una volta la tua appassionata filippica in favore dell’allargamento dell’Aned verso i giovani.
Premesso che la sezione di Milano questa apertura l’ha già realizzata perché nel Consiglio ci siete tu, Gabriella Cardosi, Silvana Fabello, Giancarlo Bastanzetti, Giovanna Massariello e fino a poco fa anche Aldo Pavia, se l’ho ben capita la tua preoccupazione che l’Aned con l’inevitabile estinzione dei superstiti vada incontro all’estinzione della sua esistenza è certamente comprensibile, ma m’induce a ben altre riflessioni.
La prima e la più grave è che, oltre a voi quanti altri figli e nipoti di superstiti o di familiari partecipano alla vita dell’Aned? Perché nella maggioranza di essi v’è il rifiuto di riconoscersi nell’Aned come portatori di un messaggio che trova le sue radici nelle esperienze, nel passato, nell’impegno politico dei loro congiunti? Perché questo passato dice poco o nulla alla loro generazione? Come si spiega questo rigetto? Hanno qualcosa da rimproverare a genitori o congiunti? O all’Aned? Come mai non si rendono conto che la vicenda concentrazionaria dei loro congiunti ha spianato la strada alla loro vita nella libertà e nella democrazia? È una brutta, inquietante serie di interrogativi.
Di fronte a questa grave e tristissima constatazione tu proponi ­ e non da oggi ­ di “aprire” l’Aned ai giovani cioè ad altri giovani che, secondo te, sarebbero disponibili a rinsanguare le esauste vene del nostro sodalizio. Benissimo, ben vengano. Io qui a Milano non ne ho visti né conosciuti. Tu dici che ce ne sono. Ma dici anche che essi “entrerebbero” se gli si desse adeguato spazio negli organi direttivi dell’Aned, cioè con responsabilità e capacità decisionali sugli indirizzi dell’attività, le iniziative e le finanze. A questo punto Gianfranco Maris alza il segnale presidenziale e dice: alt! noi siamo un Ente morale strettamente riservato ai soli superstiti ed ai familiari dei caduti. Chi non è né l’uno né l’altro non può entrare nei Consigli di sezione, nel Consiglio nazionale o nella Presidenza. E una eventuale modifica dello statuto in base al quale siamo stati riconosciuti in Ente morale rischia di farci perdere questo prezioso riconoscimento.
Personalmente temo che la questione sia stata mal posta. Prima di tutto penso che se giovani o meno giovani amici dell’Aned intendessero darci una mano dovrebbero cominciare col darcela, senza condizioni e senza pregiudiziali. Comincino col farsi vivi, comincino a darsi da fare. Ci sono tante cose che si potrebbero, che si dovrebbero fare. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Poi, quando questa attività avrà assunto consistenza e dimensione, si potrà esaminare e discutere un adeguato assetto societario.
Ma, a questo punto, vorrei puntare il riflettore su un’altra zona rimasta nel buio. Parlo della famosa fantomatica Fondazione della quale stiamo dibattendo da almeno trent’anni. Perché la Fondazione dovrebbe essere l’istituzione attraverso la quale la vita dell’Aned si proietterebbe nel futuro, in altra veste, con altre finalità, ma con quella fondamentale del dare un futuro alla memoria. E la fondazione dovrebbe essere aperta a tutti quindi anche ai tuoi famosi giovani. So di battere la lingua dove il dente duole. So di sollevare un problema che a me sembra ovvio e che invece continua a trovare misteriori ostacoli.
Io mi sono stancato di chiedere la costituzione della Fondazione. Guardo al domani con grande preoccupazione e mi chiedo chi raccoglierà il testimone e porterà avanti un discorso che per cinquant’anni abbiamo faticosamente imbastito. Tu pensi ai tuoi giovani. Vorrei che tu avessi ragione. Ma vorrei veder realizzare il tuo proposito prima di sgombrare il campo a mia volta.
Datti da fare, Dario, perché il tempo stringe.

Teo Ducci