Una pagina di storia troppo spesso trascurata
In questi giorni la Chiesa cattolica, sia a livelli locali (come nell’episcopato francese) che in Vaticano, ha sollevato con clamorose iniziative il tema della responsabilità cristiana nella persecuzione degli ebrei, e con questo la necessità di rivedere i comportamenti del passato; in queste occasioni si è ripetutamente parlato di una richiesta di perdono dei cattolici agli ebrei.
Davanti a questi problemi è importante valutare quale possa esser la reazione ebraica, e in particolare quali siano le riflessioni religiose e teologiche che possano indirizzare il comportamento degli ebrei in queste circostanze.
Sul tema del perdono nell’ebraismo, e sulla capacità ebraica di perdonare, ciò che in generale si conosce è una serie di informazioni distorte e calunniose, che sono proprio la conseguenza diretta di una campagna antica e sistematica contro l’ebraismo, condotta fin dalle origini dalle Chiese contro l’ebraismo; secondo questa immagine distorta, l’ebraismo sarebbe una religione basata unicamente sulla giustizia, a differenza del cristianesimo, basato tutto sull’amore.
In realtà entrambe le religioni, sia pure con determinate differenze, hanno una concezione teologica nella quale entrambi gli aspetti, quello della giustizia e quello dell’amore sono presenti e praticamente indissociabili.
Secondo l’ebraismo l’umanità non potrebbe sopravvivere senza la clemenza e la misericordia divina, che riconosce le debolezze dell’uomo, ne cancella le colpe e gli concede la possibilità di ritornare sui passi sbagliati e costruire una nuova esistenza. Dio non desidera la morte del malvagio ma il suo pentimento, affinché viva in modo migliore.
Da queste premesse deriva un’intera costruzione teologica, che esamina i molteplici aspetti del problema. Le azioni dell’uomo hanno implicazioni su vari piani, come il rapporto con Dio, con gli altri uomini, con la natura.
Quando si commette un’azione scorretta bisogna ripararla, cercando di eliminare le conseguenze negative in tutte le direzioni. Ad esempio, nel calendario ebraico esiste, come è noto, un giorno speciale, il Kippùr, che è destinato all’espiazione delle colpe commesse nei confronti di Dio; ma i reati commessi ai danni di altri uomini non sono perdonati a Kippùr, devono essere perdonati dagli offesi, e proprio per questo motivo è obbligo nei giorni che precedono il Kippùr recarsi a chiedere scusa a chi è stato danneggiato e offeso. E d’altra parte l’offeso ha un preciso obbligo di perdonare, così come viene insegnato che Dio perdona le colpe commesse nei suoi confronti.
Il ragionamento su questi principi mette in evidenza alcuni concetti che, per quanto siano ovvii ed essenziali, nella prassi comune rischiano di essere dimenticati. Ne possiamo considerare almeno tre. Il primo riguarda lo stretto rapporto esistente tra chi commette un reato e chi è stato offeso.
È il colpevole che deve chiedere scusa e l’offeso che deve scusare. Nessuno può assumersi il compito di chiedere scusa o di perdonare per altri. Il secondo principio è che la richiesta di scusa non ha senso se non c’è una coscienza della gravità del reato, e un’intenzione precisa da parte del colpevole di non commetterlo più; il pentimento vero si riconosce quando il colpevole, messo un’altra volta nelle circostanze identiche che avevano prodotto il reato, riesce a trattenersi e a non ripeterlo. Il terzo principio è che ogni azione ha diverse conseguenze, sia sul piano morale, che su quello penale, che su quello civile ed economico, e che ognuna di queste conseguenze deve avere la sua riparazione.
Chi diffama una persona, non solo deve chiedergli scusa, ma deve riparare con azioni opposte e conseguenze efficaci il danno provocato; chi ruba non solo deve ristabilire un rapporto psicologico positivo con chi ha danneggiato, ma deve restituire il maltolto. Per molti altri reati la riparazione non è possibile, e la legge indica la sanzione necessaria per sanare, su piani di equità, il danno inferto al singolo e alla società, e per impedire ad altri, con il timore della sanzione, la ripetizione del reato.
Trasferendo questi concetti generali al problema del perdono della Chiesa agli ebrei, emergono alcune problematiche. Per quanto riguarda il passato, c’è da rilevare l’assenza di coloro che sono stati maggiormente offesi, tutti coloro che nel corso dei secoli sono stati perseguitati, umiliati, torturati, uccisi, perseguitati anche dopo la morte.
Nessuno oggi, anche se discendente diretto, ha il diritto di cancellare con il perdono ciò che è stato fatto ad altri. E anche dalla parte di chi ha offeso, i persecutori dei secoli scorsi non ci sono più; e coloro che oggi presiedono le stesse istituzioni non possono parlare a nome dei predecessori; il passato non si può cancellare, ciò che è stato è stato, e deve servire di monito per il futuro.
Per quanto riguarda questo secolo, bisogna fare un’ulteriore distinzione: non si può dimenticare che non pochi dei “persecutori”, coloro che condividono e trasmettono le tradizionali dottrine di opposizione cristiana all’ebraismo sono ancora vivi e attivi. E non è la loro voce che si ascolta in questi giorni, quanto quella di altri, innocenti o pentiti, che condividono la loro fede, e che giustamente si vergognano di loro.
In questi termini parlare di perdono è fuorviante. Non si possono confondere due diverse realtà.
Una è l’intenzione viva e sincera di costruire un nuovo rapporto con l’ebraismo, eliminando o rivedendo nella tradizione cristiana tutti gli insegnamenti aggressivi antiebraici; ed è un dato estremamente positivo, che merita tutta l’attenzione e il sostegno. L’altra è la pretesa di chiamare tutto questo con il nome di “perdono”, come se ciò potesse essere chiesto o concesso, e con il rischio di nascondere con un velo pietoso l’enormità dei delitti compiuti per secoli, con determinazione perversa e recidiva; questa del “perdono” sarebbe solo una ipocrita liturgia, offensiva per tutti.
La richiesta di “perdono” può partire solo da responsabili viventi, pentiti, ed essere diretta a coloro che sono stati da loro offesi; le possibilità che questo si verifichi sono estremamente ridotte.
Una volta chiarito che non di perdono bisogna parlare, se non in casi del tutto particolari, bisogna anche indicare gli altri aspetti del problema, che rischiano di restare insoluti, sotto la cortina liturgica delle cerimonie di perdono.
Il processo di revisione oggi avviato con notevole fervore va condotto con rigore e obiettività. Anche se c’è molta autocritica, questo può portare all’autoassoluzione, o alla banalizzazione e alla relativizzazione delle azioni commesse, che come ha sottolineato il rabbino Bahbout (nell’intervista a “l’Unità” dell’8.10.97) vanno riconosciute nelle loro realtà, che non è quella di incidenti di percorso, quanto quella di crimini contro l’umanità. Il riconoscimento delle responsabilità non può essere generico, ma deve coinvolgere caso per caso, dalla responsabilità precisa dei singoli leader (santi, pontefici, dottori della Chiesa), alla individuazione delle vittime (battesimi forzati, famiglie distrutte, beni confiscati ecc.).
Dal punto di vista teologico, inoltre, la dottrina cristiana sull’ebraismo attende ancora una revisione radicale, che gli riconosca un ruolo indipendente e autonomo nella salvezza, e in tal modo lo ponga al riparo da qualsiasi tentativo di evangelizzazione.
E infine tutto questo rischia di restare lettera morta se non viene accompagnato da una informazione sistematica e diffusa, in grado di rieducare milioni di fedeli ad un rapporto nuovo e costruttivo con l’ebraismo che continua ad essere presentato, anche ai nostri giorni, con i caratteri negativi (di religione antica e superata, imperfetta perché senza Cristo, formalista ecc.) che la tradizione cristiana gli ha attribuito per secoli.
Riccardo Di Segni