3. L’atmosfera di revisionismo strisciante ha coinvolto anche la vicenda del processo Priebke, le cui conclusioni nella fase chiusa all’inizio di agosto e almeno per il momento superata dall’accettazione della ricusazione del collegio giudicante da parte della Corte di Cassazione sono state largamente influenzate dalla volontà di rimuovere dalla nostra coscienza i momenti più inquietanti della nostra storia. Se già in passato abbiamo evitato di fare i conti con le nostre responsabilità, concedendo generose assoluzioni a tutti i livelli, i cinquant’anni passati dagli eventi sotto giudizio del tribunale sembrano autorizzarci a fare piazza pulita della memoria di momenti tanto terribili nei fatti quanto ingombranti nel ricordo, perchè non adeguatamente elaborati e collocati in una visione globale.Il modo in cui il processo Priebke è stato seguito dall’opinione pubblica e dai massa media e ancor più il modo in cui esso è stato condotto devono indurci a una severa riflessione critica. Si trattava in primo luogo se non dell’ultimo di uno degli ultimissimi processi per crimini contro l’umanità che si celebrano a carico di imputati del periodo nazzista in Italia. Esso era circondato quindi da grande attesa nell’opinione pubblica internazionale, molto più di quanto non sia avvenuto in Italia. La sua rilevanza è stata svilita in primo luogo dalla stampa di destra, anche più sbracata di quella autenticamente neofascista contro i partigiani autori dell’attentato di via Rasella e per ciò stesso considerati, con un evidente sfrontato ribalatamento delle responsabilità, i veri responsabili della strage delle Ardeatine. Una tesi affiorata sulla base di fragili e discutibili tracce documentabili anche nel saggio di uno storico forse in cerca di pubblicità pubblicato da una casa editrice di grande diffusione: un ennesimo esempio di come in un grande momento di incertezze anche culturali sia possibile arrivare al pubblico senza avere nulla di serio da dire, solo per amore di un po’ di clamore. Nessuna seria opera di preparazione è stata fatta dalla stampa o dalle istituzioni per segnalare l’importanza del processo di cui era imminente l’apertura. All’infuori della Comunità ebraica di Roma, direttamente chiamata in causa dal processo, ancora una volta lasciata isolata nel suo dolore e nelle sue aspettative, nessuna mobilitazione d’opinione pubblica ha accompagnato l’attesa del processo. Sappiamo che ad una delle ultime udienze ha presenziato una classe di scolari tedeschi in visita a Roma, ma nessun insegnante delle scuole romane o italiane ha pensato di cogliere l’occasione del processo per aprire con i ragazzi la discussione su uno squarcio così rilevante della nostra storia, ossia non solo l’occupazione tedesca, ma anche le responsabilità dei fascismo per la guerra, per la disfatta e infine per la divisione del paese sino alla guerra civile. Dal suo punto di vista la stampa, ma soprattutto la televisione, ha sottolineato la tendenza a visualizzare il presente immediato, calcando la mano sul mostro nazista, con l’evidente contraddizione di presentare in questa veste un ultraot- tantenne, prescindendo da una adeguata presentazione dei precedenti e del contesto storico in cui si realizzò l’azione di Priebke, si noti un personaggio che non ha mai negato la sua partecipazione ai fatti imputatigli: ne ha contestato la rubricazione e l’interpretazione datane dalla pubblica accusa, ma non il fatto di per sé della sua presenza alle Ardeatine e del ruolo di comprimario che vi svolse. Ma verso l’e- sterno tutto questo svaniva nel nulla di una rappresentazione assolutamente priva di mordente e di convinzione. Ancora una volta, il fatto di cronaca ha avuto la meglio sulla ne- cessità di richianìare l’evento storico e il significato del processo come processo non ad un uomo ma ad un sistema, che era l’unica ragione che chia- mava in causa il problema della memoria e la necessità di non dimenticare. Le stesse carenze culturali mostrate da stampa e televisione si sono riprodotte malauguratamente nella corte deputata a celebrare il processo. Al di là della inadeguata definizione del reato, in un paese in cui il concetto del crinúne contro l’umanità non sembra essere entrato nella cultura giuridica e politica dominante, ad onta della presenza al tribunale de l’Aja che dovrebbe giudicare i crimini contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia di un giurista italiano che è anche uno dei massini esperti di diritto internazionale nel campo dei diritti umani, la conduzione del processo ha mostrato ad ogni piè sospinto l’insufficiente consapevolezza del presidente della corte del significato storico del suo compito e della dimen- sione storica degli eventi dei quali stava occupandosi. Sulle manchevolezza della corte credo che tutto sia stato largamente già detto. Così sulla insensibilità nei confronti delle vittime e dei parenti delle vittime; sulla frettolosítà nel volere realizzare l’escussione dei testimoni, come se il contorno delle emozioni inevitabili in una tragedia come quella evocata non facesse parte appunto della abnormità dei fatti in discussione e non potesse indurre la corte a valutare la dimensione del crimine, ma fosse un fatto privato e collaterale delle persone diretta- mente colpite negli affetti; sulla ritrosia o addirittura sulla ostilità a rendere un pubblico più ampio partecipe di un dibattito la cui risonanza avrebbe dovuto coinvolgere una cerchia ben più larga di opinione pubblica, ostinandosi a restare nel chiuso di un ambiente assolutamente inadatto a garantire la necessaria pubblicità e risonanza. E ancora la limitazione drastica dei testi e degli esperti proposti dalle parti civili a sottolineare la non necessità di approfondire il comportamento personale dell’imputato nel contesto che ne avrebbe messo in evidenza il ruolo di indispensabile ruota di un meccanismo più complesso e che avrebbe smentito la rappresentazione edulcrata che doveva emergere dalle intenzioni della corte. Non è da tacere infatti che a favore dell’imputato giocò fin dall’inizio il pregiudizio che egli avesse agito in obbedienza ad ordini superiori, come se questi ordini non fossero essi stessi espressione di un ordinamento operante contro l’umanità. Né di approfondire il contesto della situazione di oppressione nella Roma dominata dall’occupazione tedesca e dal collaborazionismo fascista. Tutto ciò non poteva non creare le premesse per la vergognosa sentenza che avrebbe mandato libero Priebke. Ebbene, di fronte alla prospettiva sempre più evidente di un processo che via via che passavano i giorni veniva progressivamente svuotato del suo significato e svilito nei suoi contenuti – si pensi alla pasticciata chiamata in causa del teste Hass e ai suoi rocamboleschi risvolti -, è mancata qualsiasi iniziativa di opinione pubblica capace di richiamare l’attenzione sulla gravità dei fatti in discussione e sulla gravità di comportamenti che si orientavano verso una attenuazione in ogni caso di responsabilità, riconducendole interamente alle vicende personali di un uomo, al quale all’età avanzata non potevano non riconoscersi tutte le possibili attenuanti. L’incapacità della corte, e per essa soprattutto del suo presi- dente, di distinguere tra il caso personale e il contesto storico nel quale esso si collocava, doveva essere l’ultimo atto della tragica inadeguatezza di pronunciare una sentenza che rendesse veramente giustizia all’uomo e insieme alla storia.
4. Ho citato una serie di manifestazioni cumulatesi negli ultimi mesi a cavallo tra il revisionismo strisciante che serpeggia nella nostra società, forse senza confini netti tra campi e schierainenti politici e revisionismo vero e proprio di chi, non solo non vuole che sia tenuta viva la memoria di un’epoca nella quale sono state poste le radici della nostra libertà, ma ambirebbe anche a cancellarne le tracce e a capovolgerne i valori. E’ mancata finora una analisi seria di ciò che,queste manifestazioni significano. Non c’è dubbio che esse sono il frutto di interpretazioni del fascismo che ne hanno edulcorato la sostanza tirannicida e liberticida, traendone un bilancio ottimistico dal confronto con il più duro e devastatore regime nazista, ma tacendo le corresponsabilità del fascismo stesso per la primogenitura dei regimi di tipo fascista in tutta Europa e per la solidarietà concreta data al processo di destabilizzazione della pace in Europa e all’affermazione del terrore totalitario nell’Europa intera, con le guerre d’aggressione e la dominazione imperialistica e razzistica. Non possiamo perciò continuare a ribaltare unicamente sugli storici revisionasti le responsabilità di una situazione politico- culturale che non appartiene soltanto alla destra politica, ma che sembra estendersi ad estendersi a larga parte dell’opinione pubblica senza distinzione di appartenenza, perché fare i conti con la propria storia è sempre un’impresa difficile e dolorosa come individui e come collettività. Perché un rapporto pacificato con il proprio passato è un rapporto meno traumatico e più rassicurante. Credo viceversa che sia necessario un severo esame non soltanto dell’esperienza fascista, senza respingere ovviamente i nuovi apporti documentari, e i nuovi spunti interpretativi che emergono dalla ricerca storica, ma anche senza compiacenze verso nessun tipo di astorici ed estetizzanti abbellimenti, una storia della quale peraltro rimangono ancora aperti alla ricerca non pochi aspetti. Per rispondere ai quesiti che la situazione politico-culturale pone oggi con forza è necessario ripercorrere criticamente la problematica del modo in cui dopo la caduta del fascismo come regime e dopo la liberazione la società italia- na, le sue istituzioni, la giustizia, la cultura hanno condotto la resa dei conti con il fascismo. Non possiamo non riflettere sulla responsabilità che nel produrre la situazione attuale hanno avuto una superficiale valutazione dell’esperienza fascista soprattutto nel momento dell’epurazione e della creazione delle nuove istituzioni democratiche e repubblicane, e una sopravvalutazione nella fase trionfalistica della Resistenza delle capacità di metabolizzare le corpose sopravvivenza dell’eredità del fascismo e della sua estrema propaggine, la Rsi. Non basta appellarsi, per assolversi da precise responsabilità, all’indiretto contributo che gli stessi alleati, a differenza di quanto avvenne in Germania, un paese che non conobbe l’armistizio e che dovette essere interamente occupato per porre fine alle operazioni militari, diedero a impedire una netta soluzione di continuità con il passato, per il fatto stesso di avere bisogno del governo Badoglio come interlocutore e garante dell’applicazione delle condizioni d’armistizio. L’armistizio dell’8 settembre 1943 fu, a differenza di quanto avvenne in Germania, il grande discrimine che preluse alla rinascita del paese contro il fascismo. Ma esso fu all’origine anche l’occasione che consentì a molti esponenti del vecchio regime e dell’amministrazione ad esso legata di evitare la resa dei conti con il passato. Quanti alti funzionari dello stato, dall’ammistrazione nei più diversi settori, alle forze armate, sfuggirono ad ogni rigore epurativo per il fatto stesso di avere rifiutato l’ordine della Repubblica sociale di spostarsi al nord. Le generose sanatorie che accompagnarono il passaggio dal fascismo alla repubblica furono parte non secondaria nei processi di rimozione che stesero più di un velo su responsabilità personali e responsabilità istituzionali ,inipedendo che si acquisisse piena e collettiva consapevolezza delle conseguenze della politica del fascismo. Sono mancati nella fase di rilancio della vita democratica gesti simbolici di grande rilievo a sottolineare la frattura con il passato e la volontà di rinnovamento del paese. Per contro, uno degli esempi più clamorosi della inadempienza del nostro paese è il fatto che l’Italia non abbia mai onorato l’impegno a giudicare i propri crirninali di guerra, alimentando così quel diffuso e autocompiaciuto giudizio sul buon comportamento degli italiani che è funzionale soltanto a un obiettivo di autoassoluzione, ma che non contribuisce in alcun modo al chiarimento delle responsabilità, che vengono viceversa occultate sotto il velo pietoso di un malinteso patriottismo. Troppi luoghi comuni e la tendenza a superficiali assolutorie sono diventati fatti politici e culturali sui qualidobbiamo tornare a interrogarci senza troppa indulgenza.