La transizione è lunga. Si esce solo con riforme compiute, che consentano di ridisegnare il bipolarismo. Nuove regole. Chi le vuole. Chi non le vuole. Chi le vuole per il Paese perché il bipolarismo funzioni nell’interesse del Paese. Chi le vuole per sé, per continuare ad avere una garanzia di vita e di sopravvivenza. Perché a volte il bipolarismo può anche cancellare una serie di presenze, che non superano, a volte, addirittura il peso ponderale che può avere un prefisso telefonico: lo 0,2%. La transizione riguarda, quindi, non soltanto le regole per il funzionamento, ma riguarda anche i singoli partiti. Bisogna che questi partiti trasformati sviluppino ulteriormente la loro trasformazione per portarla alla fine, alla conclusione. Cambi nome. Ma, dopo aver cambiato nome, devi cambiare davvero, devi esserela cosa nuova, con contenuti nuovi, con finalità nuove. Allora, se questo è il bipolarismo sul piano politico, immaginiamo, a seguito dell’intreccio di cui parlava il professor Enzo Collotti, che cos’è il bipolarismo sul piano culturale. Sul piano culturale l’agire politico nell’ambito del bipolarismo trae ispirazione proprio dal revisionismo. Cioè, il revisionismo è stato la premessa culturale che ha preparato o ha voluto, in un certo senso, preparare la delegittimazione delle forze di sinistra, togliendo loro legittimazioni che potevano derivare dall’origine della nostra democrazia, nella nostra Costituzione, nella lotta di Liberazione, nella guerra di Resistenza. Il revisionismo vuol vanificare tutto questo. Adesso, il bipolarismo senza regole si avvale di questa posizione e anche dell’incertezza a combatterla, anche dalle forze di sinistra. E esatta questa sottolineatura della incertezza. lo ho colto nella relazione di Collotti quegli accenni a quelle debolezze intrinseche, culturali e politiche, anche di certe forze della sinistra della maggioranza, quando non riescono a comprendere che farsi carico delle ragioni degli altri è un accettare un’equiparazione di queste posizioni, accettare quindi una vanificazione, accettare che sia posto in dubbio il ruolo fondamentale della Resistenza nella nascita della nuova democrazia, che potrà essere trasformata, modificata, avere regole nuove, ma che ha una data di nascita. Perché la democrazia non muore l’8 di settembre, ma nasce l’8 di settembre. L’amore di patria non muore l’8 settembre. Il senso della nazione, della comunità non muoiono l’8 settembre, ma nascono con l’8 settembre. E, quindi, con l’8 settembre vi sono ragioni di chi combatte per questo e ragioni di chi è contro. E sono ragioni diverse. E una stessa persona non può farsi carico delle due ragioni, se non indebolendo estremamente l’azione culturale, che poi crea un’atmosfera da anno zero, nella quale, poi, l’attività di tipo politico diventa indifferente per la generalità dei cittadini. Ecco, quindi, quello che noi vogliamo dire con “Per quale democrazia?”. Per quale democrazia dobbiamo lottare e che cosa dobbiamo fare: se tacere perché la senectute ormai rende più congruo per noi il silenzio o se, invece, per la necessità di portare avanti una battaglia culturale, non sia invece necessario apparire di più per essere di più anche sul piano culturale nella ricerca della memoria e nella proiezione nel futuro di questa memoria. Ecco, è questo revisionismo culturale che noi dobbiamo combattere, ma dobbiamo combattere inducendo anche le forze politiche a tenerci in considerazione attraverso questa nostra presenza. E anche attraverso la presenza, per esempio, dei processi. E’ vero che noi non abbiamo processato i nostri criminali di guerra. Ne avevamo tanti e non li abbiamo processati. Non abbiamo neanche espropriato dai profitti di regime quelli che li avevano conseguiti in tanti anni. Non abbiamo espropriato quelli che avevano accumulato profitti di guerra. Non abbiamo rinnovato lo Stato. E la continuità è stata quella di avere nel’45 tutto l’apparato che aveva il fascismo. E noi, per rinnovarlo, abbiamo aspettato, poi, altri 20 anni. Bene, i processi, però, non solo non li abbiamo celebrati nei confronti dei criminali di guerra nostri, ma non li abbiamo neanche celebrati nei confronti dei criminali di guerra tedeschi. Ecco il processo per Fossoli. Ma a Fossoli, con un pretesto di repressione per rappresaglia (perché così fu detto ai fucilandi: “Voi siete fucilati per rappresaglia, uccisi per rappresaglia”), in relazione a fatti che erano accaduti a centinaia di chilometri di distanza, senza che quelli che vivevano a centinaia di chilometri di distanza sapessero che, per rappresaglia, venivano uccisi 67 uomini a Fossoli. Questi sono 67 ormicidi. Sono quindi da perseguire, anche se il maresciallo Hage e il tenente Tito hanno 85 anni. Sono da perseguire perché, attraverso questa pubblicizzazione del delitto e dei crimini, si capirà meglio. E questo vale anche per i fucilati al passo del Turchino. Questo vale anche per quelli del Martinetto. Questo vale per gli impiccati di Bassano del Grappa. Questo vale per tutti quanti. Noi dobbiamo mandare avanti questi processi e combattere la mentalità e la cultura, che in questi processi emerge. è vero, la sentenza Priebke è stata obliterata, dalla decisione della Cassazione di recepire la ricusazione sollevata dai familiari dei fucilati. E qui c’è un errore. Non bisognava lasciare la questione soltanto nelle mani, come parte civile, degli ebrei. Perché gli ebrei, in fondo, erano una minoranza dei 300 e tanti fucilati. Mentre, invece, si trattò di una repressione politica di estreme conseguenze.