Celebrazioni di Amay a St. Vincent, il 7 settembre 1995 – Dal cimitero partigiano di Amay, sotto il Col di Joux, c’è una vista stupenda della valle di sotto. Però la giornata del 7 settembre fu nuvolosa. Durante la cerimonia per i partigiani valdostani sepolti lì potevamo appena vedere St. Vincent; la gente stava in piedi sul pendio della collina, tranquillamente, mentre si sollevarono i gonfaloni e la tromba suonò. Per la seconda cerimonia, però, in memoria dell’arresto ad Amay e della deportazione ad Auschwitz di Primo Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim, è scesa la nebbia. Ci siamo serrati in un semicerchio attorno alla targa; di nuovo si sollevarono i gonfaloni dell’Anpi, dell’Aned, del Comune di St. Vincent, e di nuovo la tromba suonò. Guardandomi attorno vidi tutti con la nebbia sulle spalle; dietro di loro ci fu solo la nebbia, e la valle non c’era più. Quindi ero certamente la persona più estranea ad Amay quel giorno. Ma ci sono venuta perché sto scrivendo una biografia di Primo Levi. Ciò che sapevano gli altri dall’interno, perché l’hanno vissuto, o perché l’hanno vissuto i loro genitori o i loro nonni, io lo sto imparando dal di fuori, leggendo, parlando, venendo a cerimonie come quella. Ho capito forse una metà di quello che capivano loro: la metà di Primo Levi, la metà ebraica. Questa metà, però, anch’io la capivo dall’interno, siccome sono inglese soltanto per fortuna: i miei genitori se la sono cavata fuggendo da Vienna a Londra nel 1938. Ad Amay – in Italia – non solo sto imparando del passato, lo sto recuperando. E questo è doloroso, com’è sempre doloroso un recupero del genere. E’ questa, perciò, la metà delle celebrazioni ad Amay di cui posso riferire: il ricupero doloroso di ciò che Primo Levi chiamò “la memoria dell’offesa” contro gli ebrei. Per me, e credo per tutti, questa cerimonia è stata d’aiuto in questo senso. In primo luogo perché il comitato per la celebrazione del 50° anniversario della Resistenza, e la Regione Valle d’Aosta, hanno desiderato commemorare, assieme con i loro caduti, tre partigiani ebrei, arrestati nella zona e deportati ad Auschwitz (da dove una, Vanda Maestro, non è tornata). In secondo luogo perché tutti sono venuti a tutte e due le cerimonie. Tutti gli estranei (sono stati estranei anche loro) venuti da Torino e Milano per ricordare Primo,Vanda e Luciana, molti di.loro ebrei, sono arrivati presto per poter commemorare anche i partigiani valdostani; e tutti i valdostani – c’erano delegazioni da tutta la Val d’Aosta, persino una della Francia – sono saliti con noi, e sono rimasti anche loro nella nebbia per Primo, Vanda e Luciana. Finalmente perché è stata ideata qualcosa che, in modo perfetto, ha riunito il passato e il presente, l’offesa e il suo ricupero. Nella cerimonia della Pasqua ebraica, nella quale si celebra la liberazione degli ebrei dalla schiavitù nell’Egitto, il più piccolo bambino presente fa la domanda: “Perché questa notte è diversa di tutte le altre notti”. Ad Amay il più piccolo bambino presente era Daniel Lascar, nipotino di Emilio Vita Finzi e Elena Ottolenghi (che hanno superato la guerra l’uno rifugiato in Svizzera e l’altra nascosta nel Basso Canavese). Daniel, di sei anni, ha tolto dalla targa le due bandiere, l’una italiana, l’altra valdostana: simboleggiando in sestesso la continuità della vita ebraica in Italia, e unendo con la sua partecipazione la nostra commemorazione con quella antica ebraica.
C’erano cinque discorsi, di cui nessuno troppo lungo
Prima Giulio Dolchi, presidente dell’Anpi, Val d’Aosta; poi il sindaco di St. Vincent, il presidente della Comunità ebraica di Torino, e il presidente Nazionale dell’Aned, Gianfranco Maris; infine, il presidente della Giunta Regionale della Val d’Aosta. Lia Montel Tagliacozzo, presidente della Comunità ebraica torinese, ci raccontò la storia dell’arresto e della deportazione di Primo, Vanda e Luciana; gli altri affermarono l’importanza di non scordare mai queste storie, e di raccontarle ai nostri figli. Verso la fine parlavo (sottovoce) con un vecchio partigiano di St. Vincent, il cui fratello fu uno di quelli che avevamo onorato. La conversazione finita, mi sono accorta che l’ultimo discorso si svolgeva in tutte e due le lingue, l’italiano e il francese: il che mi rammentò che ci sono molte divisioni in questo paese, e molti ponti a traversarle. (Ce ne sono anche altre, dove secondo me non si devono costruire i ponti, come la divisione tra i partigiani e quelli che loro resistevano. Comunque questo è un altro discorso, nel quale ho ancor meno diritto di entrare). Mi permettete di riferire, invece, chi c’era per Primo, Vanda e Luciana. La sorella di Primo, Anna Maria, anche lei partigiana G.L., sua figlia Lisa, e tutti i suoi cugini e cugine sempre a Torino; la cognata di Vanda, Carla Consonni Maestro, e sua figlia, anche lei Vanda. Luciana Nissim, l’unica dei tre ancora in vita, non poté venire. (Mandò un telegramma di ringraziamenti, che però sarà arrivato troppo tardi, e non è stato letto). Invece c’erano molti amici stretti di tutti e tre – per esempio Silvio Ortona di Torino, Eugenio Gentili di Milano e Guido Bonfiglioli da Cagliari; e ancor più ex-deportati, ex-partigiani, storici e studiosi, tutti amici di Primo Levi – per esempio Bruno Vasari, presidente dell’Aned del Piemonte, e Italo Tibaldi, Giorgio Diena, Ugo Sacerdote, Gabriella Poli. Infine, a parte di Luciana Nissim ci sono altri due ancora in vita, che però non potevano assistere. Sono accennati sulla targa, ma senza essere nominati, e vorrei nominarli qui: Guido Bachi di Parigi e Aldo Piacenza di Torino, i quali sono stati tutti e due arrestati insieme con Primo, Vanda e Luciana, però hanno avuto la fortuna di evitare la deportazione al Lager nazista. Li ricordiamo; ricordiamo Primo, Vanda e Luciana, e ricordiamo i partigiani valdostani. Però questo, alla fin fine, serve? Possiamo davvero insegnarlo ai nostri figli, di modo che saranno armati contro ogni pericolo che avvenga di nuovo? Più vado avanti con questo lavoro di recupero, più mi pare difficile per ogni generazione di insegnare qualsiasi cosa a quella seguente. (Credo, tristemente, che Primo Levi abbia avuto un’esperienza simile). D’altro canto, qualche cosa si può sicuramente tramandare (più per le azioni che non per le parole, beninteso). Quindi è sicuro che non dobbiamo mai arrenderci: se non possiamo fermare la tendenza al male nella generazione dopo, come non nella nostra, comunque dobbiamo dare la speranza e l’incoraggiamento alla tendenza al buono che c’è in ogni generazione. Però, in fin fine è importante ricordare, onorare gli sforzi e le sofferenze delle generazioni precedenti. Finita la cerimonia, sono rimasta sul pendio nebbioso e vuoto, a rileggere la Shemà di Primo Levi, incisa sulla targa. E mi sono accorta che, in questa sua grandissima poesia, è solo questo che egli ci chiede. Non ci chiede di guardare in avanti, ma indietro; di considerare ciò che vediamo, e di ricordarlo. Meditate che questo, è stato: Vi comando queste parole.
Carole Angier