Il fatto era già emerso con chiarezza all’ultimo congresso nazionale dell’Aned. Ancora oggi, a cinquant’anni dalla liberazione dei campi di sterminio, il quadro della deportazione italiana continua a mantenere grandi aree ancora inesplorate. Persino sul numero dei deportati non c’è una parola definitiva. Quanti furono? Quarantamila?Quarantacinquemila? Si usano cifre diverse, come se 5 mila deportati in più o in meno facessero poca differenza. La strada per mettere fine a tanta confusione non può che essere un serio lavoro di ricerca, nel quale inpegnare i centri di studi e le università, che nel nostro paese non è ancora stato nemmeno abbozzato. Intanto qualche realtà locale comincia però a muoversi per proprio conto. E con indubbi risultati.
E’il caso della sezione dell’Aned di Sesto San Giovanni, che proprio in questi giorni ha concluso un censimento sulla realtà dei propri deportati, che nei prossimi mesi dovrebbe essere dato al le stampe con il contributo dell’Amministrazione comunale sestese. Si è trattato di un lavoro assai impegnativo, durato circa tre anni, che è arrivato ad un primo punto conclusivo soprattutto grazie alla passione e alla tenacia di uno dei dirigenti della sezione sestese dell’Aned, Giuseppe Valota.
Oggi sappiamo che da questa città, chiusi nei vagoni piombati, partirono 285 persone, di cui 9 donne. Anzi: 286 per essere precisi, se non fosse che uno di questi, tentò la fuga in territorio austriaco, lanciandosi dal treno in corsa. Gli andò bene, se la cavò con qualche ammaccatura e riuscì a fare ritorno in Italia in circostanze rocambolesche. Gli altri 285 invece arrivarono a destinazione e soltanto in 92 poterono imboccare la strada del ritorno. Ben 193 invece finirono i loro giorni tra la Germania e l’Austria, fucilati dai nazisti, massacrati dalle percosse, sfiniti per fame e per troppo lavoro, giustiziati in una delle tante tappe di trasferimento da un Lager all’altro, così frequenti soprattutto sul finire della guerra.
La maggior parte, 117, finì a Gusen: soltanto in 24 si salvarono.
A Mauthausen finirono in 49, 34 morti e 15 sopravvissuti; 19 ad Hartheim, tutti morti; 17 a Bolzano, che invece sopravvissero e 12 ad Ebensee, 9 morti e 3 superstiti. Il resto venne disseminato, una vera e propria diaspora, in altri 44 tra campi e sottocampi.
Pesante il contributo delle fabbriche sestesi, tra cui emerge la Breda, con i suoi 150 deportati, più della metà della deportazione sestese: 109 morti e 41 sopravvissuti. Ugualmente tragica la lotta antifascista dei lavoratori della Falck, che pagò con 76 deportati, 52 dei quali non tornarono dal Lager. Dati incompleti invece per la Pirelli, ed è questo uno dei punti che si cercherà di chiarire più avanti (magari quando sarà possibile la consultazione dell’archivio aziendale), che segna (solo?) 17 deportati. E invece certo che il 23 novembre del 1944 ci fu un rastrellamento che comportò l’arresto di più di 180 operai, ma non si è ancora riusciti a ricostruire l’esito di quella vicenda.
Il punto di partenza imprescindibile della ricerca è stata la documentazione raccolta una trentina d’anni fa, in occasione dell’indennizzo che il governo tedesco concesse ai deportati e ai loro familiari, e la corrispondenza che allora intercorse con la Croce Rossa di Arolsen, custodita gelosamente in sezione. Poi naturalmente la consultazione di alcuni archivi aziendali, primo tra tutti per importanza quello della Breda. Infine, un paziente e attento lavoro di incrocio con i tanti libri, documenti e testimonianze pubblicati in questi cinquanta anni sulla deportazione.
Angelo Maj