“Chroniques d’ailleurs”, di Paul Steinberg

Primo Levi ha parlato diffusamente di lui. E non in modo lusinghiero. Nei suoi ricordi sbagliava il nome (Paul, e non Henri) e l’età (17 anni appena compiuti, e non “circa 24”). Ma il ritratto che disegna di questo ragazzo incontrato alla Buna, ad Auschwitz, è così somigliante che neppure il ragazzino di allora osa avanzare l’ipotesi di uno scambio di persona. Era lui eccome, quel giovane francese poliglotta (parlava inglese, tedesco, russo, e naturalmente francese) animato da una furiosa voglia di vivere, che nel Lager si era fatto amici influenti e che non esitò a piegarsi a sporchi servizi pur di ritornare.
“Mi piacerebbe sapere qualcosa di lui, come viva oggi”, ma non ho alcun desiderio di incontrarlo, disse Primo Levi, il quale era certo che quell”‘Henri” dei suoi ricordi era riuscito a salvare la pelle.
Cinquant’anni dopo, il ragazzino di allora emerge come d’incanto dalle nebbie: il personaggio dei libri di Primo Levi è lì, in carne ed ossa, e racconta la sua verità. Gli pesano le parole con le quali l’illustre compagno di sventura bolla la sua figura di deportato amico dei capi (parole che lui, dice, purtroppo ha letto dopo che Primo Levi era già morto). Gli pesa, ma l’ammette: “Come aveva visto giusto! lo ero probabilmente proprio quell’essere obnubilato dall’idea di sopravvivere che egli descrive”, dice verso la fine del suo libro. Le parole di Primo Levi aleggiano a mezz’ aria lungo tutto il racconto che prende le sembianze quasi di una lunga non richiesta autodifesa di un uomo ormai prossimo ai 70 anni, in pensione, alle prese con i fantasmidi quella sua gioventù disperata.
Paul Steinberg racconta delle sue amicizie influenti dentro il Lager, ma sorvola su molti particolari. Racconta dei litri di zuppa supplementari che riusciva a procurarsi, e degli “affari” che “organizzava”, ma quasi mai dei compromessi ai quali dovette piegarli per procurarseli. “La legge del campo è semplice”, scrive a un certo punto. “Si fa del bene quando se ne hanno i mezzi e quando quello è il nostro piacere. In tutti gli altri casi si fa del male, per poco che si detenga una porzione di potere”. Mors tua, vita mea.
Del “male” che fece nell’anno e mezzo che passò ad Auschwitz, Steinberg ricorda e racconta solo un episodio atroce, quando, da braccio destro del capo baracca, diede uno schiaffo a un anziano ebreo moribondo, perché non era stato sufficientemente lesto ad alzarsi dal pagliericcio. Una immagine, dice, che lo tormenta da allora, e che non gli dà pace, tornando ad alimentare i suoi incubi notturni.
Non è compito nostro, 50 anni dopo, dare pagelle o emettere sentenze sulla pelle di un ragazzo di 17 anni catapultato all’inferno. Paul Steinberg ci offre oggi la sua verità così come la ricorda, o forse anche come gli piacerebbe ricordarla. Un racconto tormentato, drammatico, che suona vero, diretto.”Ho un grande dispiacere. Primo Levi non c’è più. lo non avevo coscienza del suo giudizio. Ha detto che avrebbe dato molto per conoscere la mia vita di uomo libero. Sarei forse riuscito ad addolcire il suo verdetto. 0 almeno a fare valere le cirostanze attenuanti. Non saprei se sono in diritto di sollecitare la clemenza della Corte. Si è dunque tanto colpevoli di sopravvivere?”
Si chiude il volume e si rimane col dubbio. Un bel libro, questo, che speriamo trovi presto una edizione italiana. I lettori di “Se questo è un uomo” hanno il diritto di ascoltare anche l’altra campana.