Giuseppe Filippini Battistelli vive a Trieste 

Ufficiale nella prima guerra mondiale, rifiutò l’arruolamento nella Repubblica sociale. Arrestato, assistette alle selezioni per le rappresaglie agli attentati ai partigiani. Fervente anticomunista, organizzò una associazione “concorrente” dell’Aned con l’aiuto di De Gasperi. Ripropongo qui un mio articolo apparso sull’Unità del 3 dicembre ’95.
Il suo atto di nascita è scritto a mano, con calligrafia svolazzante: Giuseppe Filippini Battistelli è nato a Loreto, in provincia di Ancona, il 4 dicembre del 1891. Suo padre risulta impegnato nella più invidiabile delle professioni: “Possidente” c’è scritto sul certificato. A 104 anni, Giuseppe Filippini è il decano dei sopravvissuti ad Auschwitz. Vi arrivò che aveva già 53 anni; vi resistette quasi un anno. E ancora oggi è lì a raccontarla. Se gli chiedi come sta, risponde che insomma, potrebbe andar peggio: “Qualche giorno fa mi hanno fatto l’operazione agli occhi, e ci vedo molto, molto meglio”. Però è preoccupato per l’Italia, ed è amareggiato: “Le cose nel nostro paese vanno così male, che forse sarebbe meglio andarsene che restare. Qui si sta sfasciando tutto. Il paese ha imboccato una china che lo condurrà aI disastro. Temo che sentiremo di nuovo colpi di moschetto, di nuovo, come già li abbiamo intesi una volta”.
Chissà a che cosa si riferisce, quando dice così, lui che nella sua lunga vita di “colpi di moschetto” ne deve aver sentiti tanti. Se pensa alla prima guerra mondiale, che visse al fronte, come ufficiale di artiglieria, o alla seconda. Della “grande guerra” Filippini parla quasi con rimpianto. “Era bella quella guerra, sa? Una guerra di gentiluomini, non come la seconda, che è stata una macelleria. Allora, quando ci capitava di fare prigioniero un ufficiale austriaco, gli davamo la mano e fumavamo insieme una sigaretta prima di affidarlo ai carabinieri che lo portavano nelle retrovie. E anche con i soldati c’era un’altra disciplina, un altro senso dell’onore… Ricordo un episodio. Nei giorni dopo Caporetto dei nostri soldati sbandati sono entrati in un paese, hanno rubato e stuprato delle ragazze, come si usa ancora adesso in Jugoslavia. Solo che allora i responsabili di quei misfatti sono stati presi e messi al muro: uno si e uno no li hanno fucilati, perchè l’onore dell’esercito italiano deve essere difeso”.
Finita la grande guerra il giovane ufficiale marchigiano si fermò a Trieste, dove aveva conosciuto una signorina che poi ha sposato. Laureato in medicina andò a perfezionarsi aVienna in otorino-laringoiatria. “All’inizio ero fascista. Ma poi capii che il regime stava andando per una strada che non mi piaceva, e mi dimisi dal partito senza fare tante storie. E divenni antifascista. E invece tanti, che dopo la guerra sono andati coi comunisti, ci misero pochi minuti a passare dalla parte di Mussolini, quando salì al potere. lo, saputo che il Duce veniva a Trieste, pur di non avere storie ho preso su moglie e figlia e con la macchina me ne sono andato a Parigi 15 giorni, e son tornato solo quando tutto il can can era finito”.
Arrestato per essersi rifiutato, lui ufficiale, di combattere contro l’esercito al quale aveva giurato fedeltà, nei primi mesi dell’occupazione nazista Filippini conobbe lo spavento dei detenuti tra i quali i nazisti “pescavano” per trovare le vittime delle loro rappresaglie alle operazioni partigiane. E da allora non ha cambiato idea: Io ho amici dappertutto, ce l’ho solo con i partigiani. Loro mettevano le bombe, e noi ci andavamo di mezzo: venivano i tedeschi e chiamavano a caso dalle celle: tu, tu e tu, e li fucilavano”.
Dal carcere di Trieste, nel ’44, Filippini fu prelevato un brutto giorno e caricato insieme ad altri 16 compagni di sventura su un treno diretto al Lager nazista di Dachau, a pochi chilometri da Monaco. Probabilmente era il più avanti con gli anni dei gruppo. “Di quei 17, dice adesso, sono tornato solo io. Gli altri sono tutti morti laggiù”. A Dachau restò 6 mesi. Poi fu caricato su un altro “trasporto”, in carri merci sotto scorta: sei interminabili giorni di viaggio per arrivare ad Auschwitz (“Non a Birkenau, ad Auschwitz, quello con le casette di mattoni”), E giusto dire che nella sua lunga vita fu quella l’esperienza più difficile? “Non so. Lì ho sofferto tanto, certo. Ma almeno eravamo tutti uguali. Io sono ateo, ma sono amico degli ebrei come di tutti gli altri. E ad Auschwitz ho trovato tanti amici veri. A Dachau invece c’erano delle discriminazioni, c’erano certi politici, tra i deportati, che avevano dei privilegi, non facevano i lavori più pesanti per esempio. C’era meno solidarietà”.
Nel gennaio del ’45, quando si preparò la tragica evacuazione del Lager di fronte all’avanzare dell’esercito sovietico, Filippini riuscì una volta ancora a scamparla: “Eravamo rimasti in pochi nel campo. Un plotone di tedeschi era arrivato per fucilarci, ma fu fermato dall’arrivo di una squadra di donne russe, credo fossero circasse, che disarmarono i tedeschi e ci liberarono”.
Da uomo libero restò ancora nel campo “cinque o sei mesi”, collaborando con il medico russo che era stato incaricato di dirigere il campo, nel quale restavano tanti deportati in condizioni gravissime, e dove si curarono anche dei feriti che arrivavano dal fronte. In seguito
andò a Cracovia, dove lavorò “nell’ospedale del dottor Meyer”. E poi iniziò un lungo giro, per evitare di passare per la Jugoslavia “dove gli italiani li fucilavano”. Fu in Romania, in Bulgaria, in Grecia. Di lì “con una nave americana” sbarcò a Napoli nella primavera del’46. Voleva rientrare a Trieste, ma il regolamento dell’amministrazione militare della città impediva l’ingresso agli ufficiali superiori. “Ci pensò De Gasperi a farmi tornare: c’è bisogno di te, mi disse, chiedendomi di organizzare una associazione di ex deportati e perseguitati politici – che io fondai – da contrapporre a quelle dei comunisti”. Perchè il Nostro fu anche democristiano. “Sono restato fino a che la Dc non andò nel centro-sinistra, con Fanfani. Allora ho scritto una lettera e mi sono tirato fuori”. Ride ricordando quella volta che andò a Roma a rivendicare a De Gasperi i soldi che quello aveva promesso alla sua organizzazione. “Avevano dato l’incarico ad Andreotti, che allora era giovane, ma già comandava a Roma. E Andreotti aveva mandato i soldi, ma li aveva mandati ai comunisti! E cosà ho dovuto far baruffa con quei tangheri per farmene dare degli altri”.
Sono storie lontane. Alla vigilia del suo centoquattresimo compleanno il vecchio superstite di quella macchina di sterminio che fu Auschwitz guarda il mondo di oggi con scoramento. “Si sono indebitati oltre ogni limite, mentre i democristiani ci mangiavano sopra. E come pensano di pagare quel debito, contratto in massima parte con l’estero? E chi lo pagherà in questo paese di voltagabbana, di spioni, dove si è perso il senso dell’onore? lo sono fiero di aver combattuto per la Patria, mi hanno dato anche delle medaglie al valore. Ma adesso penso che finirà a schioppettate, come l’altra volta ……
A 104 anni si preoccupa per il futuro. Vecchio nemico dei partigiani, fiero oppositore dei comunisti, Giuseppe Filippini al telefono ringhia ancora, da vecchio leone anticonformista. Auguri sinceri di lunga vita.
D . V.