La testimonianza dell’abate Bernasconi 
“Poco dopo la sua nascita il padre fu fucilato”
Così il 12 gennaio 1952 l’abate Ennio Bernasconi ha ricostruito la storia di Maria Rosa Romegialli e di sua madre.
La madre, deportata durante la guerra, ebbe questa figlia da un altro uomo che, poco dopo la sua nascita, fu fucilato. Essendo stato bombardato il luogo della nascita, la madre ne approfittò per scappare e fece battezzare la bimba a Villach (4 aprile 1945 – registro XVI – pag. 104 – rz. 4) con il nome e cognome di Rosa Maria Romegialli.
Sull’atto di battesimo, per errore, i cognomi del padre Gusmeroli e della madre Romegialli vennero scambiati e fu esatto il nome di lui, essendo il coniuge legittimo, benché non sia il vero genitore carnale.
Con decreto 23 dicembre 1949 (n. 1844149 Tribunale dei minorenni – giudice Bottesini) del giudice tutelare della Pretura di Milano, la bimba fu affiliata a Ribolini Alfredo di Luigi – abitante a Milano in via Washington 102, giacché la madre ritornata in Italia dopo la guerra, non volle portare in famiglia, con gli altri figli legittimi, questa figlia che non era del marito, il quale non seppe mai di questa creatura e morì ignorandola. La bimba, ricoverata nella Clinica Pediatrica di Milano, fu nel 1946 affidata ai coniugi Ribolini Alfredo e Wassilla e nel 1949 loro affiliata (trascrizione decreto 9/3/1950 registro I parte Il – serie R. Affiliazione avvenuta il 15/3/1950 1111 – registro 1 n. 67. Aggiunta cognome dell’affiliante il 10/6/1950 P. Il – B – n. 218 registro III).
Per desiderio dei Ribolini, ottimi coniugi ben conosciuti da me, il suo atto di nascita fu trascritto in Comune di Milano, come pure è stato registrato il suo atto di battesimo in S. Ambrogio, per comodità in futuro della bimba.

Don Ennio Bernasconi abate mitrato
 

 
Sono passati 50 anni e della dolce Augusta nessuno si ricorda più; i compaesani di Morbegno, i parenti e gli amici sembra che abbiano la memoria confusa e labile sul suo conto.
Aveva 5 figli molto piccoli, un marito in sanatorio e si era dedicata con tutte le sue forze ad una missione molto rischiosa all’interno delle prime bande di sbandati, all’indomani dell’8 settembre 1943. A lei erano affidati numerosi prigionieri alleati (inglesi, croati, americani) che, scappati da un centro di raccolta della bergamasca (Ponte San Pietro) dovevano valicare il confine per rifugiarsi in Svizzera.
Costoro facevano sempre sosta nella sua modesta casa di via Niguarda, trovavano cibo e vestiti civili e con lei superavano i numerosi posti di blocco nazifascisti. A San Martino in Val Masino trovavano una guida staffetta per il passaggio del confine. Augusta salvò allo stesso modo molti militari dell’ex esercito Italiano, specialmente alpini.
Le sue idee erano antifasciste e dai suoi compagni era ritenuta una validissima propagandista di azioni antigovernative. Già nell’ottobre del 1943 aveva contribuito allo sciopero di 160 lavoratrici dello stabilimento serico Bernasconi di Morbegno per ottenere che nessuna donna fosse precettata per partire e lavorare in Germania.
Dei suoi fratelli era stata l’unica a studiare a Milano con immensi sacrifici; aveva studiato anche due lingue estere, il tedesco e l’inglese. Certo Augusta non avrebbe immaginato che saper parlare la lingua tedesca l’avrebbe salvata dall’ inferno di un campo di concentramento.
Nell’inverno del 1943, già segnalata alla Milizia Confinaria, fu arrestata per una velenosa delazione e buttata nelle fredde e umide celle del Presidio delle Guardie nazionali repubblicane. Era presente in quel momento il figlio secondogenito Sergio, di dieci anni, al quale riuscì a sussurrare di bruciare tutti i suoi documenti. Fu picchiata e torturata da alcuni professionisti fascisti, “il duro”, “l’incendiario”, “V1” e “il coniglio”. Costoro subirono giusto processo nel 1946 con la condanna a morte mediante fucilazione.
Il piccolo Sergio subì un trauma violentissimo che segnò per sempre la sua vita.
Sotto scorta dei famigerato “V1” fu portata a Sondrio dove naturalmente fu dichiarata colpevole e inviata nel campo di Mauthausen. Per sua stessa ammissione qui fu violentata in quanto ancora fieramente conservava un briciolo di dignità che l’aveva spinta a ribellarsi alla prepotenza e al sadismo di un “Prominent” polacco. Portò avanti con molto coraggio una gravidanza tremenda e forse fu trasferita nel sottocampo di Peggau, a lavorare duramente per la fabbrica Florians AG di armamenti bellici.
Certamente la troviamo nel marzo 1945 nella città di Graz, quartiere di Engelsdorf, austrasse, 33. E’questo probabilmente un campo per deportati che lavoravano presso la fabbrica Daimler Puch AG Steyrwerke – automezzi per il 3 Reich.
Il 15 marzo 1945 nacque una bimba ad Augusta che per un attimo gioì, subito però, forse perché era in fuga fuori dalla città arrossata da incendi e da bombardamenti americani, si diede da fare per la ricerca di cibo per sé e per la piccola. Forse non era sola e con grande fatica raggiunse la città di Villach, 25 giorni dopo.
Di notte Augusta si recò da un sacerdote per far battezzare la bambina che prese il nome di Maria Rosa Gusmeroli: Augusta volle che il battesimo avvenisse nella bella cattedrale gotica della cittadina tirolese. Lasciava dietro di sé tantissima sofferenza e tanti episodi tristi e crudeli. Ricordava la fame patita, le uccisioni selvagge, le torture, le malattie, ma soprattutto i suoi occhi ricordavano come erano ridotti gli esseri umani, il sadismo dei triangoli verdi, la crudeltà gratuita su poveri esseri ridotti in schiavitù. Mai avrebbe dimenticato questo e desiderava raccontare queste atrocità e gridare affinché tutti sapessero.
Arrivata molto avventurosamente in Italia attraverso il Passo dei Tarvisio, fu curata con la bambina all’Istituto De Marchi. Augusta aveva i piedi semicongelati, molte ferite e molta fame; la bambina era denutrita, aveva la polmonite e urlava in continuazione. Queste urla però erano segni di vitalità e di attaccamento alla vita.
A Milano, nel maggio 1945 ancora non si credeva alla dura realtà dei campi di sterminio, non si credeva all’annientamento di popoli, alla soppressione di ebrei e di zingari, all’uccisione di migliaia di bambini.
Augusta non fu creduta dai suoi stessi familiari, i quali anzi la ritennero fuori di mente e l’abbandonarono a se stessa. Nella sua difficilissima situazione e con la salute molto precaria fu costretta a lasciare i suoi 5 figli in orfanotrofio, così avevano assicurato i pasti e un letto sicuro, mentre un’assistente sociale, la signorina Vassena, una paolina e che tanto bene aveva fatto alle famiglie d’ebrei e a tanti bambini abbandonati, aveva preso a cuore la piccola Maria Rosa. Le trovò una famiglia molto affettuosa in cui la bimba poté crescere tranquilla e serena.
Augusta fu chiusa in ospedale psichiatrico a Milano e a Sondrio. Non aveva mai visite e a un medico spesso chiedeva: “Che male ho fatto per essere così sola?”
Morì improvvisamente un caldo giorno dell’agosto 1955 e calò il silenzio sulla sua esistenza.
Ora io, Maria Rosa Gusmeroli Ribolini desidero far luce sulla vita della mia eroica mamma, una mamma mai conosciuta e con una fase della sua vita molto misteriosa e dolorosa.
Per questo chiedo aiuto a tutti voi reduci affinché venga riconosciuto l’eroismo di questa donna e di questa mamma. Desidero che tutta la Valtellina la ricordi con affetto, con gratitudine e che sulla lapide dei caduti per la Patria compaia anche il suo nome.