La testimonianza inedita di don Paolo Gariglio
Sul tragico pomeriggio del 9 gennaio ’45 pubblichiamo la testimonianza inedita del parroco don Paolo Gariglio
Sul tragico pomeriggio del 9 gennaio ’45 pubblichiamo la testimonianza inedita del parroco don Paolo Gariglio
Ero un ragazzino quindicenne in quel primo pomeriggio del 9 gennaio ’45 quando, in compagnia di Giovanni Battista Bernardi (un giovane geometra del CLN di Lingotto, rappresentante la DC), mi recavo a Giaveno. Dovevamo portare un boccettino d’inchiostro emulsivo e alcuni fogli di carta pelure necessari per il proto di qualche volantino o manifesto che sarebbe dovuto stamparsi clandestinamente presso una litografia torinese (Litografia Gili, via Pomaro 7, quasi all’angolo di corso Orbassano. Non c’è più).
L’appuntamento era con alcuni giovani della SAP della Val Sangone al Comando, mi pare alle dipendenze di Asteggiano e Maddalena. Se non erro uno di questi giovani sarà poi il cognato del geom. Bernardi; era un ex allievo dell’oratorio salesiano “E. Agnelli” dove redigeva un giornalino dal titolo emblematico “T.4.”, grazie al quale i fascisti si insospettirono e lui si diede alla macchia. Ci si doveva incontrare fuori Giaveno, lungo il muro della villa di un industriale di cui non ricordo il nome. Ricordo solo che gli uccisero un figlio e che la villa fu donata ad una congregazione di suore. La villa era sulla direttrice di Coazze, ben prima del bivio per Forno, salendo sulla destra. Mi è rimasta impressa perché non era la prima volta che facevo il galoppino della carta stampata da ragazzi salesiani dell’Agnelli o di via Caboto. Stampavamo in quella litografia grazie alla complicità di un dipendente, tanto che né il sig. Gili (padre), una persona piccola, baffuta come Occhetto, amabile e innocente, né il figlio se ne accorgevano.
Allora le litografie stampavano con macchine enormi che mandavano avanti e indietro una lastra di pietra (lito) con sopra impresso il contenuto della carta pelure. I salesiani di via Caboto redigevano dispense scolastiche, e noi un innocuo giornalino (“Il bum!”) nelle cui pagine ogni tanto si celava il volantino che subito dopo veniva estrapolato.
Torniamo sul trenino: con Giovanni Battista viaggiavamo sul predellino: non ricordo quant’erano le vetture, certo erano tutte stracolme degli operai della FIAT che avevano concluso il turno. Vicino a me c’era un giovanissimo ragazzo della Muti. Mancava poco alle tre quando al cigolio dei vagoni delle varie giardiniere (si chiamavano così le vetture, almeno mi pare … ), si unì il rombo possente di due caccia, credo americani “mustang” (il mio giudizio è abbastanza esatto perché il mio papà era un contadino dell’aeroporto Mirafiori e in seguito, ben prima di farmi prete, divenni pilota, brevetto che conservo tuttora).
Mi pare tanto che al primo passaggio non spararono o forse i colpi si mescolarono al rumore assordante della frenata. Il mio vagone era in testa, fuggii subito in direzione ovest, lasciandomi alle spalle le montagne e il treno: forse passai davanti alla locomotrice. C’era neve, ghiaccio, freddo, anche se la giornata era tersa. Tutti fuggivano nella mia direzione: mi pare che sullo sfondo ci fosse un lungo cascinale con il portone chiuso; un cascinale che ritenni di rivedere molti anni dopo ancora con le breccie dei colpi sulla parete perimetrale.
Non so come e nemmeno il perché, intesi troppo pericoloso correre in quella direzione: mi voltai e corsi incontro agli aeroplani che erano in virata già per la terza picchiata e raggiunsi il treno buttandomi a terra lungo i binari e le ruote, mi facevo piccino e mi facevo scudo delle ruote e del binario al quale ero accoccolato, esile come una serpe.
Quando finì ero inebetito: vicino a me un ragazzo che mi pare si chiamasse Masera si alzò e poi cadde in una pozza di sangue svenuto; era trapassato da un proiettile e non se n’era accorto!! Seppi in seguito che si salvò. Giovanni Battista non lo trovai che a sera, a casa sua in via Passo Buole: rientrai verso Torino su un camioncino militare che forse aveva dei feriti. Quel giorno la carta pelure (che portavo in una cartellina da disegno stretta da tre legacci) non arrivò a destinazione.
Ancora qualche considerazione: può sembrare strano che un ragazzino cosi giovane fosse già così invischiato nella lotta fraticida di quegli anni di tenebra. Per capirci qualcosa devo narrarvi un episodio significativo. Autunno 1937: è sabato pomeriggio, sono vestito da “Figlio della lupa” (la divisa dei piccoli di prima e seconda elementare) e mi sto recando a scuola per la solita liturgica sfilatina lungo via Genova, Lingotto. Me ne arrivo frignando…
“Perché piangi?”, mi chiede il maestro Borla, vestito in uniforme.
“Perché il mio papà mi ha detto che assomiglio a Badin!”, gli rispondo tutto disperato.
“Chi è mai questo Badin?”, mi chiede il maestro gerarca. “Il mio cavallo”, gli rispondo.
“Ma perché papà ti chiama con il nome del tuo cavallo?”. “Perché ho il sotto pancia … “.
La divisa contemplava, con il fez, la camicia nera, i pantaloni e calze grigioverde con scarpe nere, anche una sorta di cinturino bianco attorno alla vita con due bretelle in croce e sopra una grande M.
I balilla invece avevano il fazzolettino chiuso con medaglione recante la testa del Duce e, attorno alla vita, una fascia di elastico nero.
“Così la tua divisa è simile ai finimenti del cavallo?”.
Lunedì mattino mio padre fu fermato, prelevato, portato al Circolo Rionale Fascista “Filippo Corridoni”, maltrattato ecc.
Seppi l’accaduto soltanto la sera del 26 luglio ’43 quando i miei genitori mi videro sgomento di fronte al tripudio di folla che urlava “Abbasso, a morte il Duce” e saccheggiava le sedi rionali abbattendone i simboli del regime ovunque fossero.
Solo allora mi dissero… Forse sbiancai.
Di sicuro uscii furioso lungo la via gridando “abbasso al Duce”. Poi ci fu l’8 settembre: negli androni e nelle bettole si formarono le prime bande che non erano di soli militari sbandati che fuggivano verso i monti, ma di tanti maturi antifascisti, come i miei zii, il nonno materno ecc. Pur senza lasciare la casa, tacitamente consenziente mia madre, anch’io cercai di mettere il piccolo caiù che un ragazzo può portare alla causa della libertà.