“Ho visto il film, non mi ha convinto”
di Daniel Vogelmann
Confesso che l’altra sera al “Politeama” di Arezzo ero molto emzionato, come mi capita tutte le volte che sto per assistere a un film sull’Olocausto. La domanda che viene sempre in mente in questi casi è se chi non ha vissuto direttamente l’orrore dei campi di sterminio sia “autorizzato” a parlarne, come se l’Olocausto fosse una sorta di “mistero sacro” che soltanto chi lo ha vissuto in prima persona può tentare timidamente di svelare. Sono note a tutti le polemiche nate dopo tentativi analoghi, dalla Scelta di Sofia a Schindler’s List: è sufficiente l’arte, anche la più grande, per parlare dell’indicibile?
E confesso inoltre il mio imbarazzo nello scrivere a caldo queste note di carattere assolutamente personale: criticando, come mi appresto a fare, il film di Benigni, mi sembra di paral male di Garibaldi. … E poi chi osa farlo è proprio un ebreo, che dovrebbe invece essere grato al geniale comico toscano per aver affrontato con simpatia questo tragico argomento (anche sulla “doverosa” gratitudine degli ebrei si potrebbe parlare a lungo…). Comunque, prima del film non ero certo prevenuto, sia per gli apprezzamenti positivi che avevo già letto sia perché ho sempre stimato Benigni (e, intendiamoci, lo stimo ancora, se non altro per la buona intenzione di fare questo film).
Avendo avuto delle illustri e sbandierate collaborazioni, mi immaginavo che dal punto di vista storico-documentario il film fosse pressoché perfetto e soprattutto lo volesse essere. Mi sono invece subito imbattuto in una strana superficialità appena si accenna alle leggi razziali del 1938: dov’è quel terribile choc che tutti gli ebrei italiani provarono del tutto inaspettatamente? Invece, Guido ORefice, il protagonista del film, per niente toccato dalla tragedia (perché fu una tragedia!), si sposa tranquillamente con una non ebrea e apre anche la sua piccola cartolibreria.
Ma il peggio, come sappiamo, doveva ancora venire con l’8 settembre e l’arrivo dei tedeschi. Quando tutti gli ebrei italiani cercarono disperatamente un rifugio, Guido Orefice non sembra preoccuparsi, e quindi viene preso in casa insieme al figlio Giosuè. La moglie sceglie per amore di seguirli e tutti i tre salgono sul maledetto treno che li porta in un campo di concentramento, anzi in un campo di sterminio vero e proprio con tanto di camera a gas e forno crematorio. Sul viaggio infernale nessuno accenno. Orefice scende in buono stato e pronto a scherzare per non rattristare il figlio (lodevolissima intenzione, ma vi prego di credermi: dopo un viaggio del genere – lo so da mio padre Schulim che quel viaggio lo fece con la moglie Anna e la figlioletta Sissel – neanche Dio avrebbe potuto scherzare…). E poi come non ricordare che le donne con i bambini venivano subito avviate alle camere a gas, mentre gli uomini idonei diventavano schiavi. Dov’è nel film l'”ex uomo” di Primo Levi, “che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”? Guido Orefice, invece è sempre piuttosto lucido e allegro, regala perfino il suo pane al figlio: BEnigni e il suo sceneggiatore non hanno mai letto nelle numerose testimonianze che anche i padri e i figli si rubavano il pane pur di sopravvivere, che i tedeschi, oltre a uccidere il corpo dei prigionieri, avevano loro ucciso anche l’anima?
Certo, poi Guido Orefice si “riscatta” morendo per salvare la moglie e il figlio, la guerra finisce con la vittoria (per chi ha potuto vederla) e del dopo non si dice più nulla. Tranne che va bene così, che la vita è bella, che in fondo viviamo nel migliore dei mondi possibili, a parte qualche tragica parentesi, dove però con la buona volontà, il senso dell’umorismo e una sana innocenza ce la possiamo tutto sommato cavare…
Anche mio padre, che da Auschwitz tornò solo (perché evidentemente non fu così bravo da inventare un gioco per la sua Sissel), diceva (per me misteriosamente) che la vita è bella. Ma che strazio nella sua voce, quando lo diceva… Valenti critici cinematografici diranno che il film è una favola a fin di bene e che quindi la verosimiglianza non è importante… Ma allora io mi domando, parafrasando una famosa frase: “Si possono scrivere favole su Auschwitz?”.
E infine un’ultima osservazione: migliaia di ragazzi, che non sanno nulla dell’Olocausto, attratti dal Robertaccio nazionale, andranno a vedere questo film. Quale sarà la loro impressione?