Quelle critiche sono autieducative di Bruno Maida E’ difficile contare le prese di posizione, favorevoli o contrarie, nei confronti del film «La vita è bella» di Roberto Benigni. L’argomento, il modo in cui viene trattato, le caratteristiche artistiche (ma anche le prese di posizione politiche) dell’autore, la collaborazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, sono tutti elementi che non potevano che determinare un dibattito a volte utile, a volte in verità sconcertante. Laddove si critica il valore artistico dell’opera non posso che fare un passo indietro, ascoltando chi se ne intende, e affermando solo il diritto al mio gusto personale. Tuttavia non posso nascondere di aver trovato estremamente convincente il film di Benigni sia nella capacità di tratteggiare (magari con alcune cadute: il grottesco eccessivo con cui disegna il re e la regina; il finale troppo consolatorio) quella fase drammatica della storia italiana sia di coniugare felicemente allegria e dramma, con tratti chapliniani a cui è difficile sfuggire, valga per tutti la traduzione del discorso della SS. Ma il film mi sembra convincente anche nel ritmo, nel plot narrativo, nei personaggi sufficientemente approfonditi, nella recitazione sentita e attenta di Benigni che qui si dimostra davvero un grande interprete. Si pensi alle sfumature che pian piano nel film mutano il volto di Benigni, immagine di un animo sempre più svuotato e alla fine puro involucro divertente ed allegro al servizio delle possibilità di vita del figlio. Laddove, al contrario, interviene l’onda emotiva di chi ha vissuto il Lager o di chi (come Daniel Vogelmann) ne ha conosciuto le drammatiche prospettive di lungo periodo, non posso che condividere e cercare di comprendere la difficoltà con la quale ci si approccia ad ogni opera che tenti di raccontare una dimensione così complessa e apparentemente indicibile. Rimangono tuttavia almeno due piani che necessitano di una ulteriore riflessione e che soprattutto ritengo siano utili per affrontare un dibattito pubblico – ma anche molto sotterraneo – in cui si scontrano idee e sensibilità, troppo spesso quanto inevitabilmente dettate dall’impatto emotivo. In primo luogo, credo che posizioni come quella di Orengo su «La Stampa» o di Teo Ducci su questo giornale – diverse nell’argomentazione ma unite nella sostanza: «il film di Benigni non lo vado a vedere» – non siano condivisibili e si caratterizzino addirittura per un elemento antieducativo. Non sono a mio avviso condivisibili perché – al di là dell’inalienabile diritto a fare ciò che si vuole – fondate sul pregiudizio di chi, come scrive Ducci, si è «rifiutato di vedere tutti gli altri film nei quali registi di vario calibro hanno tentato di far vedere che cosa era e come era un KZ nazista». Di che cosa si discute allora? Del fatto che il Lager non può né deve essere ricostruito perché un’immagine non è in grado di restituire l’immensa complessità di parole come fame, freddo, paura. E’ vero ma non è in grado di farlo neanche una ricostruzione storica e, dirò di più, neanche la più precisa, attenta ed emozionante testimonianza. Ecco dunque che lentamente – e qui il discorso diventa antieducativo – il Lager diventa indicibile, non raccontabile così che lentamente esce dalla storia, proprio da quella storia che uomini come Vogelmann o Ducci hanno fatto tanto per mantenere viva e presente. In secondo luogo, mi sembra che le critiche «storiche» al film siano davvero poco fondate. A partire dal fatto – che mi sembra inequivocabile – che ad un’opera d’arte non si può chiedere una semplice trasposizione della realtà (ma non era il tono eccessivamente documentaristico una delle critiche a «Schindler’s List?») e che forse ad un’opera d’arte ognuno ha diritto di chiedere (e di leggervi) ciò che vuole, appare secondo me discutibile sostenere – come ha fatto su questo giornale Daniel Vogelmann – che nel film si sarebbe dovuto vedere «quel terribile choc che tutti gli ebrei italiani provarono del tutto inaspettatamente». Mi pare, al contrario, che uno dei meriti maggiori del film – proprio nella sua prima parte – stia appunto nel cogliere con senso storico le molte sfumature di consapevolezza e di atteggiamenti che vi furono nel mondo ebraico (e in quello italiano nel complesso) di fronte alle leggi razziali. Allo stesso modo ci mostra come per molte persone la scoperta della propria identità ebraica nacque attraverso l’esperienza di discriminazione e soprattutto di persecuzione. E ancora: ci aiuta a capire come di fronte alle leggi razziali uno degli atteggiamenti diffusi nella comunità ebraica fu proprio quello – alimentato e sperimentato in tanti secoli di persecuzione – di aspettare che «passasse la nottata». Infine ci mostra ancora una volta che la parola Olocausto non bisogna usarla: fu distruzione, fu Shoah, e proprio per questo «la vita è bella»: non perché nel Lager ci sia un’umanità da salvare (lo dimostra il tedesco che vuole conoscere solo la risoluzione del rebus); non perché si debbano trovare elementi necessariamente consolatori; non perché si riproduce il mito «italiani brava gente» (chi organizza la lezione sulla razza ariana? chi dipinge il cavallo? chi è indifferente alla sorte degli ebrei?). La vita è bella semplicemente perché molti dei sopravvissuti dei Lager hanno avuto – in modo assai meno poetico ed iperbolico, in forme incomprensibili ed impercettibili, in gesti improvvisi ed irripetibili – un fratello, una madre ma soprattutto un improvvisato amico che gli ha ricordato la vita con un gesto di solidarietà o solo con un racconto del passato. Spesso è su questo che hanno costruito la possibilità di un futuro. da Triangolo Rosso, n. 2, aprile 1998