Con il termine marce della morte si intendono i trasferimenti (a piedi su lunghe distanze, o in treno, su vagoni scoperti, o anche tramite barcone) di migliaia di deportati verso l’interno del Reich, nei primi mesi del 1945, man mano che gli eserciti Alleati avanzano verso il cuore della Germania. In un primo tempo, le marce hanno una logica ed una propria razionalità: una delle sue finalità è quella di concentrare mano d’opera nelle ultime fabbriche ancora non bombardate dagli aerei Alleati e che sono ancora capaci di produrre i razzi con cui Hitler, fino all’ultimo, si illuse di ribaltare le sorti del conflitto.

Con il passare del tempo, le marce assumono una dinamica propria e pare che il loro unico scopo diventi quello di impedire la liberazione dei prigionieri. Coloro che non riescono a tenere il passo vengono immediatamente eliminati con un colpo alla nuca; in alcuni casi, i deportati provenienti da est vengono utilizzati per scavare trincee anticarro, in inverno, nel terreno ghiacciato, allo scopo di fermare l’avanzata russa. La mortalità durante le marce era altissima: si stima che i prigionieri che perdono la vita durante il trasferimento variano tra i 250 e 375 mila. Secondo alcuni studiosi, come ad esempio D. Goldhagen, le marce della morte, negli ultimi mesi della guerra, diventano l’estremo strumento di sterminio a cui i nazisti decidono di ricorrere, per continuare a perseguire gli obiettivi della soluzione finale e più in generale di tutto il sistema di sterminio.