Renato Sarti
I me ciamava per nome 44.787 – Risiera di San Sabba
Baldini&Castoldi, Milano 2001

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Un luogo contaminato

di Moni Ovadia

I piccoli e grandi territori che hanno conosciuto la sofferenza degli innocenti provocata dalla volontà del loro “prossimo” non possono più essere valutati a prescindere dalla violenza di cui sono stati teatro. Le molecole gli atomi e persino gli interstizi della submateria di quei luoghi ne sono pregni. Un articolo della Frankfurter Allgemaine, pubblicato nei primi anni ’90 in seguito al ritrovamento a Berlino dei sotterranei in cui la Gestapo torturava le sue vittime, definiva quel tipo di spazio: kontaminierte Ort, spazio contaminato. Cosa dovrebbe fare una società democratica di simili
zone? Recintarle e renderle inaccessibili? Museificarle? Soluzioni del genere, a mio parere, risulterebbero inutili ed inique. Ritengo che solo un laborioso lavorio di decontaminazione possa restituire quei luoghi all’ umano.

Bisogna attrezzarsi con le risorse della pazienza, riappropriarsi di una modalità del tempo altra dalle cronologie socioeconomiche ipercinetiche della Storia dei nostri anni, che tende a sfuggire alle proprie responsabilità  perché simultanea a se stessa. È imperativo rimettersi in quel cammino di libertà etica iniziato quattro millenni fa e che durerà ancora molti millenni, essere utopicamente consapevoli di compiere il proprio minuscolo dovere nel quadro di un grande processo-progetto. Una nutrita squadra di decontaminatori si è messa al lavoro con coraggio, con la determinazione di chi rema controcorrente, perché il fiume da navigare si è di recente ripopolato di contaminatori prezzolati o per vocazione. Remano i sopravissuti contro la piena del loro dolore che si “rinovella”, remano storici partecipanti e appassionati, che non sono e non vogliono essere obiettivi perché non sono ignavi, remano artisti, teatranti, politici decenti, remano uomini democratici quale che sia il loro credo politico, remano persone perbene per la sola ragione che sono persone perbene. Fra
loro un puntiglioso, certosino, drammaturgo, attore e regista: Renato Sarti.

La sua Trieste, la nostra Trieste (mi sono autonominato cittadino adottivo della città giuliana) ha ricevuto la profondissima ferita di un campo di sterminio che ha piagato le sue fibre. Ha sputato il suo fumo di morte el camin della Risiera di San Sabba, fradel picio di quel de Mauthausen, lo ha sputato in faccia al mare che è madre di tutte le genti. Cinque anni fa, in un giorno di prima estate, Renato ha portato me e altri: attori, musicisti, un coro di bimbi e uno di partigiani, a dare il nostro contributo alla sua idea di decontaminazione di quell’edificio le cui fondamenta sono scese al
centro dell’inferno.

La memoria di quella giornata mi rimarrà impressa per sempre. La Risiera traboccava di una folla di persone che premeva per assistere a un evento fatto di persone vive in quel luogo che era stato di morte, la città si opponeva fieramente alla perversa logica dell’oblio praticata per più di tre decenni per strumentali ragioni “politiche”.

Con commovente tempestività, Renato, preoccupato per la ressa, si era impossessato di un microfono e dava dolcemente pacate istruzioni perché ciascuno potesse trovare il proprio posto per assistere a quel rito di civiltà riacquistata. La sua voce emblematicamente assurgeva a valore di opposizione definitiva alle voci della tirannia necrofora. Le sue parole di rassicurazione confermavano la realtà di quello iato di soli cinquant’anni che per il momento ci protegge tutti dall’orrore nazifascista che proprio lì in Risiera, su quel suolo che noi stavamo calpestando, aveva recluso e annientato esseri umani incolpevoli al suono sinistro di ordini vomitati in una lingua non lingua, mescolati al latrato di cani assassini aizzati dalla
bestiale razionalità dell’aguzzino.

Ricordo vividamente che illuminata da un riflettore teatrale, fra le sbarre di una delle celle baluginava la inconfondibile chioma di Giorgio Strehler, la sua possente voce di barcolano, genio del teatro ed irriducibile antifascista incarnava la voce degli internati. Con lui, con tutti noi, con le parole scarne necessarie assemblate da Sarti, con i grandi versi di Carolus Cergoly, con le imprescindibili musiche di Alfredo Lacosegliaz, la presenza di quelli che non ci sono più.

I Martiri della shoà devono diventare i nostri figli e i figli dei nostri figli di generazione in generazione. Renato Sarti ne è consapevole, per questo tiene a questo progetto come un naufrago alla sua zattera. Sa che non deve andare alla deriva e ha ragione.