La testimonianza di ROSA CANTONI deportata a Ravensbrück
Sono stata deportata anch’io a Ravensbrück. Io forse vorrei dire qualcosa sul come e perché siamo arrivate a fare questa esperienza, dopo l’attività che avevamo fatto prima. Io ero operaia, e sono nata abbastanza tempo fa quindi ho visto nascere il fascismo, ho visto crescere questa dittatura. Sono vissuta in una famiglia antifascista, quindi era logico che col tempo e con tutto quello che la dittatura fascista ha fatto e dove ha portato l’Italia ero disposta a partecipare in piena consapevolezza anche del rischio alla Resistenza in Friuli, perché sono di Udine. E quindi moltissime volte, quando vengo chiamata a testimoniare, a parlare dell’esperienza fatta, e mi chiamano in tanti posti, sia scuole superiori che inferiori, ci vado appunto perché penso che ai giovani bisogna spiegare questa storia nostra, questa Italia che è arrivata a quel punto e che ha avuto una guerra disastrosa che ha portato alla rovina.
Io ero operaia, e forse anche questo mio essere operaia mi aveva portato a partecipare di più. Ero in una grossa azienda, che allora era a Udine, di confezioni di abiti maschili, sarta quindi, e i datori di lavoro erano ebrei e che nel ’38 a seguito delle leggi razziali hanno dovuto licenziarci tutte, perché gli ebrei non potevano gestire una fabbrica così grande, era proibito loro fare questo. Era una fabbrica dove le operaie erano in gran parte donne.
Parlando di donne, osservavo la mostra dove queste donne austriache fanno una vita così…, ma anche qui il fascismo, se vi ricordate, siccome qui siamo abbastanza maturi tutti quanti, aveva delle teorie particolari, cioè diceva che all’uomo sta la guerra e alla donna la maternità, quindi la donna doveva fare tanti figli, tanti soldati, possibilmente maschi, che poi andassero a farsi ammazzare in guerra. E quindi erano cose che colpivano e con le quali non si poteva certamente essere d’accordo a chi stava attento a ciò che accadeva.
Quando è arrivato il momento di partecipare in qualche modo alla caduta di questa dittatura e di questa alleanza tra nazismo e fascismo io mi sono trovata come tante altre, anche operaie, e contadine, ragazze, donne più anziane insieme ai partigiani. Io non ho mai sparato, né dovevo avere anni. Ho portato qualche bomba in una borsa qualche volta, ma avevo altri impegni, perché nella Resistenza c’erano tutti questi collegamenti, c’era da pensare ai feriti, a provvedere a dare quanto occorreva alla Resistenza armata in montagna, e tante altre cose, per cui la nostra partecipazione era preziosa, anche perché le donne non erano come l’uomo. L’uomo giovane veniva fermato per la strada, tutti i maschi giovani venivano perquisiti, veniva visto se avevano i permessi di stare lì, altrimenti dovevano arruolarsi con la Milizia, oppure con i tedeschi, altrimenti venivano considerati partigiani. Quindi gli uomini giovani erano in pericolo continuo, la donna invece non dava tanto nell’occhio, fino a quando non era individuata in qualche modo. Allora potevamo passare i posti dì blocco, magari tutte piene di roba addosso, documenti, carte, ecc., quello che occorreva, ed era un lavoro preziosissimo.
Qualche volta per strade traverse anche portare armi, o altre cose che bastava ci avessero prese e visto cosa avevamo, si capiva benissimo che eravamo partigiane senza fucile, come tanta altra gente che collaborava, magari anziani, che non potevano andare in montagna per l’età. Ricordo che dicevo a un comandante svizzero con cui ho lavorato i primi tempi: “Cosa sto a fare in questa città? Vorrei fare qualcosa”. Dice: “Tu devi stare lì, perché non dobbiamo andare tutti in montagna, e voi donne siete preziose perché potete fare quelle cose che noi non possiamo. Cioè tenere i collegamenti ecc.”
Quindi avevamo partecipato con entusiasmo anche nella fabbrica dove io mi sono licenziata per essere a disposizione totale, e nella fabbrica avevo amiche che cucivano pantaloni per i partigiani, noi gli portavamo il filo e tutto e loro cucivano a casa, senza essere ricompensate. E questo era un grande aiuto, per capire com’era la Resistenza. E quindi anche quella forza che trovavamo, perché eravamo coscienti di quello che poteva capitarci.
Mi ricordo che un giorno passavo davanti alle carceri di Udine, ero con un’altra ragazza di Spilimbergo, e chissà chi di noi due – ci siamo dette – andrà lì dentro un giorno o l’altro. E’ toccato a me, ci sono andata. Comunque faccio per dire che con questa preparazione, questa rabbia, questa voglia di fare io sono andata avanti fino a quando purtroppo un appuntamento dove quello col quale mi dovevo trovare è stato arrestato.
Invece di quello ho trovato quattro fascisti messi lì apposta. Mi hanno arrestata, sono andata in carcere a Udine, e poi deportata a Ravensbrück. Dal carcere di Udine non eravamo tante donne quando siamo partite per la Germania, eravamo una ventina. Erano moltissimi gli uomini perché c’erano stati grandi rastrellamenti alla fine di agosto e in autunno su nelle montagne, c’era il carcere pieno di giovani partigiani. è, venuto un giorno un treno da Trieste lunghissimo che portava dall’Istria, Gorizia, Trieste per andare in Germania tantissima gente, tanti partigiani italiani, sloveni, croati, istriani, e tante donne dell’Istria che a quel tempo erano considerate cittadine italiane, che però loro non si sentivano cittadine italiane perché erano partigiane jugoslave. E questo treno è arrivato a Udine e il carcere è stato svuotato.
In quel tempo che sono stata in carcere mi ricordo che eravamo lì e cercavamo di non avvilirci, dovevamo sentirci forti, eravamo motivate, nel senso che cantavamo canzoni partigiane fino a quando ci facevano tacere, quando il coro era troppo grande urlavano di tacere. E questo dava a noi una certa forza. Non sto a dire perché ne ha parlato assai bene la compagna, cosa significava entrare in un campo di sterminio, in questo caso Ravensbrück. Io dirò solo di un’esperienza, perché lei ha già detto molto.
Quando sono andata io, probabilmente un po’ di tempo dopo, quando c’era tutto il caos, sembrava una bolgia infernale, dormivano testa-piedi nei castelli, sempre vestite, perché levare i vestiti significava magari che qualcuna te li portava via e poi restavi nuda, a me hanno rubato anche le mutande quando davano il pane, e poi ha avuto il coraggio quella di portarmene un altro paio, quella ha mangiato tre etti di pane. Ma non mi arrabbiavo perché – dicevo – qua è così.
Il primo giorno, non so se tu hai sentito mai parlare di una tenda nera, io sono stata dentro il primo giorno che siamo arrivate a Ravensbrück, perché il viaggio da Udine a Ravensbrück per Tarvisio, c’era un vagone anche di famiglie ebree con bambini presi in provincia di Fiume, quindi un viaggio lungo, in vagoni bestiame, e i treni si fermavano e restavano lì ore e ore senza mai mangiare, e freddo. Più su si andava e più freddo c’era. Quando siamo arrivate gli uomini li hanno portati a Dachau e le donne e i pochi bambini che c’erano a Ravensbrück. Allora la storia della tenda nera è questa. C’era la spogliazione, il taglio dei capelli, toglievano assolutamente tutto e poi ci davano quegli stracci.
Io non so se avevate anche voi una croce sulla schiena, c’era questa specie di cappotto che ci davano, roba avanzata da morti, tant’è che quando siamo entrate in baracca poi venivano fuori i pidocchi, ed erano stati disinfestati, ma i pidocchi saltavano fuori dalle cuciture, pallidi perché avevano bisogno di mangiare e venivano all’assalto, venivano a cercare la vita anche loro a nostre spese. Un gruppo di noi, tra cui c’ero anch’io, ci hanno fatto entrare in questa tenda nera, e adesso vorrei dire cos’era questa tenda nera, perché me lo sono tanto fissato in testa che la vedo ancora sempre. Lì vediamo un mucchio di donne tutte vestite di scuro, probabilmente erano ebree prese in qualche paese che non so, arrivate lì in condizioni disperate, perché forse venivano da qualche altro campo, o forse erano venute da qualche ghetto dove avevano già sofferto il soffribile, perché hanno tanto sofferto gli ebrei per tutto quello che è stato fatto contro di loro, senza avere proprio fatto niente, solo perché avevano avuto la colpa di nascere.
In questa tenda nera c’erano queste donne, pallidissime, facevano impressione perché erano ormai morte, probabilmente c’era un senso istintivo di stare assieme, ma erano ammucchiate una sopra l’altra, e quelle sopra erano abbastanza vive, ma non avevano nessuna espressione. Lì erano senza nutrimento chissà da quanti giorni o settimane, senza bere, senza mangiare, un freddo tremendo, abbandonate giorno e notte in una tenda nera. E noi siamo rimaste allibite, c’erano due ragazzine giovanissime che si sono messe a piangere: faranno anche a noi così? Comunque arrivano due inservienti, perché c’erano certe prigioniere che sapevano magari il tedesco, erano francesi, senza essere delle kapò, ed erano addette a certi lavori e accettavano di farli perché avrebbero mangiato una gamella di più. Tra l’altro, a proposito di gamelle, il nostro corredo era solo un pentolino col manico che legavamo attorno alla vita, senza cucchiaio, senza niente di niente.
Con gli zoccoli, io sono riuscita a salvare le scarpe, ho detto non metto gli zoccoli, ho la fortuna di essere piccola e tutti i vestiti erano lunghi, c’erano le grandi che magari avrebbero voluto mettere i vestiti che avevo io, oppure due zoccoli dello stesso piede. Ho tenuto le scarpe che hanno durato quello che hanno durato, erano buone, però qualcuna le aveva notate, prigioniera, e mi sono sentita tirare i piedi di notte un paio di volte che cercavano di levarmi le scarpe.
Arrivano queste due inservienti con una pentola di patate lesse, che probabilmente erano destinate a noi, perché noi arrivavamo dal viaggio, e siccome non eravamo ancora destinate a morire subito, ci avrebbero dato queste patate. Però c’erano queste due sopra che avevano ancora un istinto di sopravvivenza e si sono allungate, non in piedi perché non ci sarebbero state in piedi, e senza un lamento, un gemito, niente, si sono allungate, una si è messa sull’orlo del pentolone che si è ribaltato e le patate correvano per terra. Sono arrivate a prendere qualche patata, ma vedere come cercavano di metterla in bocca, che non riuscivano ad aprire le mandibole quasi, talmente strette dalla fame e dal non mangiare, mandavano dentro con il dito. E quelle che erano distese sotto di loro cercavano con la mano debolmente di tirargli fuori un pezzo di patata di bocca. Questo è stato lo spettacolo che ci è capitato di vedere la prima sera che siamo arrivate a Ravensbrück, per dirvi a che punto erano queste povere donne, che magari avevano avuto distrutta la famiglia e loro erano state lasciate lì a morire tutte quante, per poi bruciarle.
Per noi non era ancora destinato questo, per fortuna che non ci hanno obbligate a mangiare, perché non avremmo mangiato. Come si fa a mangiare quando davanti c’è gente che muore di fame e che ti guarda, magari allunga le mani perché tu gli dia una patata. E le hanno portate via, è venuta una tedesca che ha cominciato a dare calci e a urlare, e si sono rimesse a posto come erano prima, senza un lamento. E sono venuti poi a prendere anche noi che abbiamo raggiunto le altre compagne e siamo andate in una baracca provvisoriamente. E li c’era una kapò tedesca. Era un triangolo verde, però a dire il vero è stata la migliore kapò che abbiamo avuto in quei pochi giorni che siamo stati con lei. Faceva paura a vederla, alta, una faccia e una voce tremenda, aveva il bastone e urlava sempre, e invece non ha mai dato giù il bastone per la schiena a nessuno.
Quando si è chiusa la baracca ci ha detto come ci si doveva comportare: “Guardate di stare attente, di non fare cose che vi costino la vita. Quando uscirete di qui non mangerete così bene”. Ti ricordi le rape? E una sera una foglia di verza così grande, neanche lavata, buttata dentro l’acqua bollente e quella era la cena. Noi poi ci siamo affiatate, eravamo circa 120, ci tenevamo su, anche perché pensavamo che la guerra doveva pur finire, erano gli ultimi mesi; però chi è andato nel Lager molto prima non so come abbia fatto.
La fame era tremenda, pidocchi e scabbia normali, dissenteria, avitaminosi, che poi ci si gonfiava, e una volta ho avuto la testa così gonfia e sono sopravvissuta lo stesso. Quando c’erano le cambiate di campo eravamo una cinquantina tutte con la febbre, e allora veniva una infermiera a misurare la febbre, tutte col sedere in su e da un sedere all’altro il termometro. Se avevamo 39 di febbre non si andava a lavorare. Sono cose che se non fossero tragiche… Comunque era questa la condizione in cui si viveva, e ogni giorno una fila di morti. C’erano le addette a svestirli e con un pennarello facevano il numero sul petto per poi portarli al crematono e segnare la morte sui registri.
Sono cose che non si dimenticano, che non si devono neanche dimenticare, però non voglio dilungarmi perché siamo un po’ tutti reduci da queste cose, da queste tragedie in un secolo tremendo come il nostro in cui è accaduto di tutto. Due guerre mondiali, e poi scoperte grandiose, andiamo sulla luna, e nello stesso tempo l’uomo muore di fame ancora a milioni, si fanno ancora guerre, sembra che l’umanità senta il bisogno solo di ammazzarsi.
Comunque, tornando alle donne, al ritorno sono stati momenti di delusione, però io sono tornata a lavorare, si era riaperta la fabbrica, c’era poco lavoro e le compagne mi hanno eletta delegata di fabbrica. Io ho detto che non mi lasciavano neanche respirare, ma loro hanno risposto che a me il padrone mi ascoltava. Il datore di lavoro era riuscito a nascondersi in Friuli, e così ho anche superato il trauma dei rientro, perché ho dovuto mettermi a lavorare a cottimo. Sono entrata nel sindacato e fino a quando non sono andata in pensione non ne sono uscita, e sono ancora iscritta al sindacato pensionati. E allora tra l’attività sindacale, tra che ero nell’Anpi perché ero stata partigiana, e tutte queste donne alcune si sono ritirate, perché – si dice – le donne anche se hanno fatto qualcosa si sono rinchiuse, ma la vita di una donna è condizionata anche dalla famiglia, se ha figli, poi in certi paesi dicono chissà cosa ha fatto là.
Io mi ero ingrassata perché era come se avessi avuto una malattia, mi era venuta un po’ di pancia e mi dicevano: “Corne sta?” “Benissimo”, io avevo capito, ma la mia pancia era sempre uguale, poi ha cominciato a calare, non è nato niente, ma pensavano chissà cosa era successo. Si è incominciato a parlare della deportazione, a parte quelli che hanno scritto libri subito come Caleffi ed altri, noi non ci sentivamo di raccontare perché sembrava che raccontassimo fiabe, chi avrebbe potuto credere una cosa simile? Invece quando c’è stato il processo ad Eichmann tutti hanno cominciato a parlare e col tempo poi si radunano le idee, perché uscendo da una esperienza simile si ha la testa piena di cose vissute in poco tempo e con quella forza, con quella tragicità per cui si ha bisogno di un po’ di riflessione, di mettere a posto il computer che abbiamo qua dentro. Io ho capito che dovevo arrangiarmi da sola.
Mi raccontavano quelli che non erano stati deportati le loro avventure, le loro disgrazie, le loro rabbie, però nessuno mi chiedeva e io non raccontavo. Ho incominciato dopo. C’era bisogno di rifare tutto, i contratti di lavoro, il diritto alla libertà sindacale, poi c’è stata la legge sulla maternità dove le donne hanno dato un grande contributo di lotta per ottenere questa legge che è ancora in vigore, migliorata, allargata. Quando facevamo l’8 marzo noi avevamo solo il volantino, io facevo delle poesie in friulano, ma si parlava sempre contro la guerra, per la pace fra i popoli e avevamo contro i preti, i ricchi. Poi adesso vediamo che tutti festeggiano, e di questo sono contenta, magari qualcuno non capisce neanche perché è la festa della donna, ma fanno la mimosa. Invece non è la festa della donna, è la giornata della donna, dove si tirano le somme di questa avanzata, perché la donna adesso ha ancora da conquistare, però non è neanche da comparare a com’era una volta.
Io che sono nata nel 1913, il 25 luglio, per cui il 25 luglío ’43 per me è stato il più bel compleanno della mia vita. Sì, le donne hanno conquistato, le vediamo, ci sono delle bravissime donne, ricordate i primi tempi della televisione che venivano fuori quelle due o tre fantoccette, una con una cosa di pelliccia, a leggere il programma e dire buonanotte. Adesso vediamo quelle bravi giornaliste, vediamo la Gruber, altre che parlano, che sanno fare, che vanno a intervistare, che vanno dove c’è la guerra per denunciare. Sì, passi avanti, ma si capisce che è una società difficile da vivere e si vorrebbe tornare indietro. Sentivo l’altra sera le affermazioni della Alessandra Mussolini cui hanno chiesto cosa pensa dell’8 marzo, e ha inveito fortemente contro l’8 marzo, che è una giornata da vergogna. Invece ieri sera sono stata in un paese per festeggiare l’8 marzo, e abbiamo parlato, c’erano donne più o meno giovani, e abbiamo parlato della guerra, della deportazione, e ho detto che bisogna parlarne e bisogna andare nelle scuole. E vorrei anche dirvi che ci sono molte insegnanti sensibili a questo.
Io ho ricevuto parecchie telefonate per prenotarmi per i prossimi giorni per incontri, per parlare della guerra, della deportazione, contro il razzismo, e trovo che i giovani sono sensibili al discorso sul razzismo, sulla violenza, ecc., e bisogna fare di tutto perché queste cose avvengano e perché il mondo migliori.
CARDILLO – Ringrazio la signora anche per la carica di energia e di positività che ci ha dato. Passo la parola alla signora Carriba che ci porta il messaggio di Tullia Zevi.