Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento svolto da Gianfranco Maris, presidente dell’ANED, a nome del Comitato organizzatore della manifestazione centrale per il Giorno della memoria 2007, in piazza del Duomo a Milano nel pomeriggio di domenica 28 gennaio.
Nella giornata dedicata al ricordo del genocidio degli ebrei, della deportazione dei militari italiani nei campi di internamento nazisti, della deportazione dei partigiani e degli operai italiani nei campi di annientamento, puntuale arriva l’ennesima minaccia del presidente iraniano Ahmadinejad.
Un’onda di odio pronunciata in un luogo di preghiera, in una moschea di Teheran, una bestemmia!
“Grazie ai nostri cuori puri – ha detto – con la benedizione di dio vedremo presto il crollo di Israele”.
Stia certo , nessun dio benedirà mai queste sue parole. Dalle quali emerge, chiara, la finalità della conferenza che ha convocato in Teheran, per negare la verità del genocidio del popolo ebraico: evocare l’antisemitismo, come un fuoco sacro, per realizzare quella convergenza dell’Iraq, della Siria, del Libano, della Palestina, che consenta all’Iran di rappresentare l’egemonia dell’intera regione con il terrorismo e la violenza.
Sarebbe una grave insipienza definire folle la minaccia e vuota di realismo politico.
Perché i delitti contro l‘umanità perpetrati dalle potenze dell’asse, dal nazismo e dal fascismo, furono resi possibili proprio dalla insipienza grave con la quale le democrazie europee e del mondo inizialmente sottovalutarono le minacce del nazismo.
Il genocidio del popolo ebraico non è un mito, non è una favola, è sangue, è lacrime, è morte, è annientamento di donne, vecchi, bambini.
È fatto di delitti di stato perpetrati quotidianamente, per anni, fuori e dentro ai campi di deportazione.
Sangue, lacrime e morte sono le fucilazioni del distretto di Lublino del battaglione 101 della polizia di sicurezza del Reich.
Sangue, lacrime e morte sono le fucilazioni di massa degli Einsazkommado mandati al seguito delle truppe che nel giugno del 1941 invasero l’Unione Sovietica, sono gli stermini nei campi di Chelmo, Belzec, Sobibor, Treblinka in Polonia, sono gli stermini nei campi di Maly Trostinec in Bielorussia e di Saimisti in Serbia; sono le concentrazioni dei grandi ghetti di Lodz, di Varsavia, di Terezin, di un popolo che viene portato all’estremo della vita, per fame e malattia e preparato per le selezioni delle camere a gas in Birkenau.
Sangue, lacrime e morte sono la volontà di annientamento totale di un popolo, portato avanti con un delirio criminale, senza precedenti, curando addirittura, con marce della morte, il trasferimento in altri campi dei superstiti di Auschwitz, perché altrove, non potendo più la morte a costoro essere data in Auschwitz, venisse comunque compiuto il loro destino.
Non è vero che il 27 gennaio 1945 sia la data nella quale si conclusero sofferenza e sterminio del popolo ebraico.
Ricordo che, nel gennaio 1945, lavoravo nella cava di pietre di Gusen di Mauthausen e sul binario che serviva la cava arrivarono dei carri ed io con altri fui comandato a svuotarli.
Pensavo che fossero pieni di sacchi di cemento, di attrezzi, di roba. Nei carri, gelidi, erano ammassati, coperti di stracci, semi nudi, tanti, tanti piccoli corpi, immobili, senza parola, senza sguardo, pur essendo ancora vivi.
Donne immobili nell’attesa della morte, trasportate da Auschwitz per riceverla, la morte. E così fu, nelle camere a gas di Hartheim.
Ma alla negazione del fatto genocidio, qui da noi, in Italia si aggiunge la menzogna quotidiana, reiterata, sulle responsabilità della deportazione ebraica e del suo sterminio e si nega che Salò sia mai entrato, come scrisse lo storico De Felice, nel “cono d’ombra della Shoah”.
Ma chi fu che in Verona, nel novembre del 1943, nella seduta di fondazione costituzionale della R.S.I., scrisse, nel 7° punto della carta, che gli ebrei, nati in Italia, cresciuti nel nostro Paese, allevati nelle nostre scuole, combattenti e caduti della prima guerra mondiale, inseriti nel tessuto connettivo della comunità, parte della sua civiltà e della sua cultura, erano, qui da noi, considerati stranieri e nemici dello Stato”?”.
Chi fu, se non il segretario del partito fascista di Salò, Alessandro Pavolini, al quale l’amministrazione comunale di Rieti, ancora il mese scorso, voleva intestare una via?
Ma chi fu che, dopo pochi giorni, emise l’ordine di polizia n. 5 della R.S.I., con il quale veniva disposto l’arresto e il concentramento di tutti gli ebrei di Italia, se non il Ministro degli Interni della R.S.I. Buffarini Guidi?.
Chi fu che riempì le carceri del nostro Paese e del campo di Fossoli di Ebrei, merce per i carri del binario 21, se non gli uomini armati di Salò? Sì, quelli, proprio quelli che nella passata legislatura la maggioranza voleva equiparare ai combattenti degli eserciti impegnati nella guerra contro i nazisti?
Ecco la memoria, ecco la storia!
Ecco la mia condanna per il silenzio colpevole offensivo, che emargina dal ricordo dei crimini nazisti e fascisti la deportazione dei 600 mila nostri militari dopo l’8 settembre del 1943, la deportazione dei partigiani, la deportazione degli operai, che nell’occupazione tedesca stupirono il mondo con scioperi che aggredivano politicamente l’occupante ed il fascismo di Salò, attingendo, in un Paese messo a ferro e fuoco, con in atto una vera e propria azione di annientamento dei civili, dimensioni quasi insurrezionali, per chiedere la fine della guerra e delle torture, la pace, la liberazione dei prigionieri.
Una memoria emarginata! Sì, emarginata!
Come se i 36.000 morti partigiani ed operai, assassinati nei campi di sterminio nazisti, fossero un dato residuale di una guerra civile e non un elemento fondante della nostra Costituzione e della nostra Repubblica.
Voglio ricordarli io, qui oggi, in questa Piazza del Duomo, sotto la nostra Madonnina, sotto la quale “se viv la vita”.
Voglio vestire i panni del testimone e ricordare i volti di quelli del mio gruppo, che, portato a Fossoli, conobbe, il mattino del 12 luglio 1944 la selezione e l’assassinio di 67 compagni al poligono di tiro del Cibeno; che, quando giunse il mattino del 5 agosto 1944, nel campo di Mauthausen fui immediatamente selezionato, per depurarlo degli inabili al lavoro e Bracesco, un compagno di Monza che aveva perso una gamba in un’azione partigiana, e un giovanetto contadino, partigiano, costretto in un busto di gesso per una ferita alla spina dorsale, e un vecchio operaio della Breda, malandato, furono immediatamente portati alle camere a gas di Hartheim.
E che, prima della liberazione, vide i pochi superstiti ancora in vita selezionati sulla piazza dell’appello il 21 aprile 1945, 4 giorni prima della liberazione del nostro paese, per essere immessi in un gruppo di 800 deportati, i quali, tutti insieme, in quella sola notte, furono gasati in una baracca del campo.
Io vi ricordo tutti, compagni miei, ogni giorno, e vorrei che tutti vi ricordassero.
Sui campi era scritto “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi.
Vorrei che si insegnasse nelle scuole, di ogni ordine e grado, perché non basa delegare alla società civile un giorno per la memoria, perché è nelle scuole che il cittadino si forma, è nelle scuole che il cittadino deve ricevere la cultura, è nella scuole che i giovani devono conoscere l’etica e le coordinate di una vita di dignità, di una storia che sia insegnamento di vita; vorrei che si insegnasse nelle scuole che non è il lavoro che rende liberi, ma la cultura e che la cultura senza memoria è cosa inutile.
Gianfranco Maris