Sessant’anni anni fa, sabato 5 maggio 1945, era un giorno di primavera soleggiato. In quel giorno meraviglioso, circa alle ore 12.00, comparve davanti all’ingresso del campo di Mauthausen un automezzo della Croce Rossa Internazionale e due carri armati da ricognizione (autoblindo) americani.
L’ex sergente di Stato Maggiore Albert Kosiek comandante del primo plotone del gruppo D del 41° squadrone di Cavalleria Meccanizzata della XI divisione corazzata USA, era sul primo carro e nella meticolosa relazione al suo comando militare scriveva:
Forse il 5 maggio 1945 era un giorno qualunque per voi: noi pensavamo che lo sarebbe stato anche per noi, ma prima del tramonto. Quel giorno noi avevamo partecipato a esperienze che misero veramente alla prova la nostra immaginazione.
Io ero comandante di plotone del primo plotone del gruppo D, 41° squadrone di cavalleria meccanizzata. Noi eravamo di servizio al quartier generale. La missione del mio plotone era di controllare se i ponti di St. Georgen erano intatti, poiché erano sul percorso che doveva seguire il quartier generale da combattimento.
I percorsi erano stati tracciati sulle mappe, procedevano lentamente e cautamente e tutto sembrava piuttosto pacifico.
Improvvisamente ci un sommesso rumore di motore da lontano.
Gli uomini dei nostri veicoli si allarmarono immediatamente. Attraverso i nostri binocoli individuammo una moto e un’auto civile bianca con una croce rossa sul cofano.
Mentre si avvicinavano li tenevamo sotto tiro.
Dall’auto uscirono due capitani SS, l’autista e un uomo in abiti civili. Il civile era un membro della Croce Rossa Internazionale e il portavoce di questo gruppo.
Fortunatamente uno dei miei mitraglieri, Rosenthal di Chicago, parlava e capiva il tedesco. Da ciò che potemmo stabilire da questa gente c’era un grande campo di concentramento oltre il ponte che dovevamo controllare.
L’uomo della Croce Rossa cercava di mettersi in contatto con un generale americano per consegnare questo campo e 400 guardie SS che assicurò si sarebbero arrese. La situazione era difficile perché non c’era garanzia che le strade verso Mauthausen fossero indifese, nonostante il fatto che fossimo stati rassicurati che non avremmo incontrato guai al campo.
Con questo avvertimento finalmente raggiungemmo la città di St. Georgen e continuammo fino ai sobborghi trovando il ponte intatto.
In distanza pensammo di vedere il nostro obiettivo, cioè il campo di Mauthausen. Le sorprese erano all’ordine del giorno, perché ce ne aspettava un’altra. Questo era in effetti un campo di concentramento, ma non quello che stavamo cercando.
Mentre ci avvicinavamo al campo, un capitano delle SS ci venne incontro e mi salutò all’americana, io restituii il saluto. Dopo che Rosenthal lo assicurò che ero un ufficiale, mi spiegò che era il comandante del campo di Gusen. Col capitano c’era un vecchio avvoltoio in uniforme da Volkstrum (milizia) che parlava inglese perfettamente. Con il vecchio come interprete spiegai al capitano SS che occupavamo il campo e ci aspettavamo che lui e tutti i suoi tedeschi si arrendessero.
Egli aveva evidentemente in mente la stessa idea e fu molto cooperativo. Egli aveva un bel numero di guardie e gli spiegai che avrei dovuto raccoglierli al nostro ritorno da Mauthausen.
Come avanzammo giungemmo presto a Mauthausen, era posto sul più alto terreno della zona dove eravamo ed era fiancheggiato da un lato dal Danubio.
Da lontano sembrava una serie di fabbriche.
Sul lato opposto di un tratto di bosco c’era la prima entrata al campo.
L’auto bianca si fermò e gli occupanti scesero. In questa sezione il campo era circondato da una barriera di filo metallico caricata con 2000 volts di elettricità. Oltre la barriera, c’erano centinaia di persone che impazzirono di gioia quando ci videro per la prima volta.
È una visione che non dimenticherò mai.
Alcuni avevano solo coperte che li coprivano, altri erano completamente nudi, uomini e donne insieme, formando la folla dall’aspetto più emaciato che io abbia mai avuto il dispiacere di vedere.
Io scuoto tuttora la testa per l’incredulità quando quell’immagine mi appare, perché essi rassomigliavano appena ad esseri umani. Alcuni non potevano pensare più di 40 libbre.
Il luogo si tramutò in un tumulto e fu evidente che se questa gente non fosse stata fermata rapidamente non sarebbe stato possibile evitare spargimento di sangue.
Con la sicurezza dei miei uomini in mente in ogni momento, sapevo che il compito di ristabilire l’ordine era mio. Udii la gente che gridava in polacco e alzai le mani per farli tacere. Gli dissi quindi nella lingua che capivano di tornare ai loro alloggi e di collaborare con me così che potessi liberarli al più presto togliendo le guardie tedesche.
Essi capirono, grazie a Dio, e collaborarono.
Dopo aver sedato il tumulto, un tedesco alto e giovane che parlava inglese venne verso di me con il comandante del campo e attraverso questo interprete, il comandante mi ringraziò per aver acquietato la folla. Con il comandante al mio fianco, attraversammo la parte principale del campo, con una camionetta ed un autoblindo che ci seguivano. Raggiungemmo un largo portone nel muro di cemento e un tedesco lo aprì.
Entrando per primo fui salutato con la più spettacolare ovazione mai riservatami. Oltre quel portone centinaia di prigionieri erano in formazione e quando entrai erano così felici di vedere un soldato americano che iniziarono tutti a strillare, gridare e piangere. Per questa gente la mia apparizione significava la liberazione da tutta la tortura e l’orrore che li circondavano.
Non avevo mai sentito prima una tale sensazione scorrere attraverso di me come in quel momento. Fu la prima volta che ebbi gente così soddisfatta dalla gioia di vedermi, mentre stavo là guardando la folla capii cosa ciò significava per loro e fui felice di aver fatto lo sforzo di liberare il campo.
In quel momento, tutti i prigionieri mi circondavano. A questo punto uno dei prigionieri avanzò e si presentò come capitano Jack Taylor della Marina degli Stati Uniti che mi mostrò le sue mostrine d’identità per provarlo. Dietro mia richiesta mi disse che due altri americani erano nel campo e un pilota inglese all’ospedale.
Mi parlò alcuni minuti e poi disse che sarebbe andato a prendere le sue proprietà personali e disse che mi avrebbe visto più tardi.
Noi quindi cercammo l’interprete tedesco che parlava l’inglese e raggiuntolo mi disse che il comandante non voleva cedere il campo finché non era certo che noi potessimo tenere sotto controllo i prigionieri. In quel momento c’era una rivolta in cucina, e lui voleva che chiarissi la situazione.
Quando raggiunsi la cucina, la porta era bloccata e dovetti saltare dentro attraverso una finestra. I prigionieri stavano tirando fuori zuppa da grandi pentoloni con le mani per berla.
Io gli gridai in polacco, ma non ottenni niente. Infine sparai alcuni colpi dalla mia pistola nel soffitto ed allora essi iniziarono ad uscire dalla cucina.
Parlandogli in polacco io gli dissi che stavano rendendomi solo le cose più difficili.
Quando uscii di nuovo, i prigionieri erano ovunque ed io iniziai a pregarli per favore di tornare ai loro alloggiamenti che erano oltre il portone.
Sopra il portone c’era una piattaforma che sorvegliava un grande cortile. Sul fianco della piattaforma erano dipinte bandiere delle 31 nazioni rappresentate nel campo. Noi riuscimmo a portare tutta la gente nel cortile e con rappresentanti di ogni nazione che parlavano inglese, salimmo sulla piattaforma.
Io riunii i rappresentanti e chiesi loro di spiegare ai connazionali che dovevano stare nei loro alloggiamenti, perché facendo così avrebbero facilitato la mia liberazione del campo dalle guardie tedesche e quindi il campo sarebbe stato sotto il comando dell’esercito degli Stati Uniti.
Parlavo ai rappresentanti dei prigionieri giù nel cortile. Ciascun rappresentante seguì questa procedura e dopo 45 minuti tutti gli oratori avevano finito. Allora la banda suonò “la bandiera coperta di stelle” e le mie emozioni furono così grandi che improvvisamente la canzone significò per me più di quanto mai avesse significato prima. Molti dei prigionieri piangevano mentre guardavano il nostro plotone sull’attenti che presentava le armi.
Quando interrompemmo il saluto, scoprimmo che il capitano di Marina aveva insegnato il nostro inno nazionale alla banda solo la notte prima.
Nel fondo del cortile c’erano corpi ammonticchiati in una sola massa. Non si sarebbe pensato che erano esseri umani se non si fossero riconosciute certe caratteristiche.
Quindi ci fu mostrato dove gasavano la gente e poi li cremavano in grandi forni. Ci fu detto che sparavano agli americani perché li volevano onorare sparandogli, anziché gasarli o ucciderli in altri modi.
Non vidi mai tanti morti in tutta la mia vita. Vidi cose che non avrei mai creduto se non le avessi viste con i miei occhi. Non avevo mai pensato che esseri umani potessero trattare altri esseri umani in questo modo. Mi chiesi cosa tenesse in vita questa gente. Erano solo pelle ed ossa.
Quindi il tedesco che parlava inglese mi chiese cosa volevo che facessero le guardie tedesche.
Io gli dissi di riunire tutte le guardie all’ingresso principale e far mettere loro le armi negli autocarri.
Trovato il capitano di Marina ritornammo all’entrata principale. Avevamo con noi anche gli altri americani, uno era un sergente dell’aviazione e l’altro un soldato di colore. Gli dissi di aspettarmi su una jeep finché non avessimo rastrellato tutti i tedeschi.
Odiavo doverli far aspettare perché erano molto deboli.
Tutto il mio plotone era occupato a tenere i tedeschi sulla strada e a togliergli le armi.
A questo punto scoprii che il tenente Larkins aveva cercato di comunicare con me per tutto il tempo. Lo chiamai e lo informai di ciò che accadeva e di cosa avevo ancora da fare.
Dopo circa un’ora avevamo tutte le guardie tedesche fuori dal campo e le loro armi su tre carri. Ancora una volta la gente nel campo esultò.
Quindi andai avanti con un autoblindo e una jeep e ci recammo al campo di Gusen, dove avemmo esperienze simili a quelle provate a Mauthausen. Portammo le guardie fuori dal campo e restaurammo l’ordine tra i prigionieri, e quando la colonna di guardie tedesche sotto il controllo del nostro plotone arrivò a Gusen, le guardie da questo secondo campo si unirono alla colonna.
Mi recai al quartier generale del comando di combattimento e dissi loro che stavo portando 1.800 tedeschi e volevo sapere cosa fare di loro.
Non volevano credere alla mia storia ma mi dissero dove portarli.
Era l’una e mezza del mattino quando condussi i tedeschi alla loro nuova sede, un grande campo aperto.
Il mio plotone andò quindi alla casa che io avevo scelto e portammo il capitano di Marina con noi. Gli altri due americani andarono ad un C.P. di fanteria in città. I ragazzi misero insieme del cibo e il capitano si godette il suo pranzo. Ci disse che non avrebbe mai dimenticato il nostro plotone di 23 uomini finché fosse vissuto. Ci disse che non si sarebbe aspettato di rivedere ancora degli americani. Egli era stato condannato a morte quattro volte mentre era al campo ma era stato salvato dai prigionieri.
Doveva andare nella camera a gas il 6 maggio, e cioè il giorno dopo.
Ci disse che a Mauthausen venivano uccise 1.100 persone al giorno.
Ci sedemmo con lui e parlammo fino alle tre del mattino.
Il 5 maggio compimmo la nostra missione e qualcosa di più.
Note circa l’autore:
Albert J. Kosiek servì nella 11° divisione corazzata dal novembre 1942 fino a che la divisione fu sciolta. Prima prestò servizio nella compagnia di ricognizione del 41° reggimento corazzato, poi nel gruppo D, 41° cavalleria dopo la riorganizzazione.
Era sergente di plotone del primo plotone.
Durante il combattimento fu raccomandato per essere nominato ufficiale sul campo, ma rifiutò.
Quando il signor Kosiek lasciò la 11°, fu assegnato alla 90° divisione di fanteria e fu facente funzione di primo sergente di una compagnia delle forze armate di stanza a Wieden in Germania.
Fu congedato dall’esercito a Camp Grant a Rockford, Ill., il 6 dicembre 1945.
Nella vita civile è stato ispettore per la Western Electric e capo ispettore e poi supervisore alla Hoof Products, ambedue le compagnie si trovano a Chicago.
Ha passato gli ultimi 13 anni alla Methode Electronics come direttore al controllo di qualità.
Mr. Kosiek ha cinque figli, quattro ragazzi ed una ragazza, gli ultimi due sono gemelli.