Su il Manifesto del 5 agosto 2007 è apparso questo ricordo di Bruno Vasari scritto dal prof. Enzo Collotti.


L’infaticabile custode della memoria
La scomparsa a Torino di Bruno Vasari. Sopravvissuto al lager di Mathausen, è stato l’infaticabile promotore di centri studi sulla deportazione nazista di ebrei e prigionieri politici italiani

di Enzo Collotti

Con la scomparsa di Bruno Vasari, morto a Torino il 20 luglio, non è venuto meno soltanto un esponente di primo piano dell’antifascismo storico, un militante azionista della Resistenza, un reduce dalla deportazione politica nei campi di concentramento nazisti. È scomparso un protagonista di una politica della memoria in Italia. Nato a Trieste nel 1911, trasferitosi già prima della guerra a Torino, è stato nel dopoguerra tra gli animatori della vita culturale della metropoli piemontese.
Alto dirigente della Rai, personalità dotata di non comuni capacità comunicative, di viva sensibilità culturale, di grande tatto e finezza nei rapporti umani, Vasari univa nella sua persona il tratto garbato e severo che gli veniva dalla tradizione di una educazione sobria e rigorosa come quella appresa nella natia città giuliana alla scuola di maestri come Giani Stuparich, al quale avrebbe dedicato pagine di grande intensità (raccolte in volume nel 1999), e la tenacia di chi si sente responsabile e investito di una vera e propria missione. Univa tratti ottocenteschi, si vorrebbe dire risorgimentali, ad una volontà realizzatrice e ad una capacità propositiva che spesso lo facevano apparire molto più giovane dell’età che inesorabilmente avanzava.
Fu tra i primissimi memorialisti della deportazione: il suo asciutto ma preciso resoconto del lager, Mauthausen bivacco della morte, ristampato dalla Giuntina nel 1991, uscì nella prima edizione nell’agosto del 1945, a tre mesi dalla liberazione, tanto avvertiva l’urgenza di raccontare, come scriveva, «la tremenda gara di resistenza che ciascuno di noi aveva ingaggiato con la Germania». Testimone e memorialista in persona prima, ha speso la sua esistenza nel dopoguerra per organizzare la memoria degli anni bui aggregando quante più forze, tra i compagni della deportazione ma anche soprattutto fra i giovani, fossero disponibili ad assecondare il suo ideale progetto culturale.
Riprendendo il tema caro a Primo Levi della vergogna di non essere morti, nel 1982 in occasione di uno dei suoi tanti interventi così ebbe a sintetizzare quella che è stata la filosofia della sua esistenza: «Per liberarsi dal complesso di essere sopravvissuti e di avere eventualmente fruito del privilegio della cultura (…) l’unico modo è lavorare intensamente, prodigarsi con tutte le forze per evitare che il massacro dei Lager nazisti possa ripetersi, per divulgare la storia di quei tempi amari e operare nel presente per abbattere le barriere di odio fomentatrici di guerra».
Intrecciò costantemente il ricordo della propria personale esperienza con la fedeltà ai compagni caduti e l’obbligo di trasformare la memoria della deportazione non in sterile reducismo ma in fattore di cultura e di consapevolezza civile. Al convegno di Carpi del 1985, da me promosso, pronunciò parole che come poche altre riflettono lo spirito con il quale aveva tratto la lezione di Mauthausen: «Funziona il Lager – ebbe a dire -, ove si abbia la rara ventura di sopravvivere, pur nella breve, lunghissima in rapporto alle sofferenze, prigionia, da corso accelerato di politica».
Mettendo a frutto anche le relazioni influenti che aveva potuto instaurare nella sua funzione di dirigente di un’azienda accreditata come la Rai nell’ambiente torinese, si fece promotore di innumerevoli iniziative per coltivare la memoria della Resistenza e della deportazione non soltanto facendosi garante nei confronti degli erogatori di fondi ma partecipando direttamente all’elaborazione di progetti di ricerca; egli stesso fu una forza aggregatrice, aperto come pochi alla fiducia nei confronti dei giovani e facendo da ponte fra questi e gli uomini della sua generazione, convinto che soltanto associando la memoria dei deportati e l’elaborazione critica di una generazione più giovane si potesse alimentare un patrimonio culturale e di conoscenze destinato a radicarsi durevolmente nella nostra coscienza civile.
Vice presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ed deportati) e presidente della sua sezione piemontese, sodale di Primo Levi, fece degli ex deportati piemontesi il centro di aggregazione di una attività editoriale e di ricerca che non trova analogo riscontro in altre parti d’Italia, a partire da quel convegno del 1983 che sin dal titolo Il dovere di testimoniare, impostava un impegno di lavoro e un programma di presenza civile. Ispiratore e consigliere, Vasari è stato compartecipe di tutte le iniziative culturali dell’Aned piemontese, appoggiandosi al Dipartimento di storia dell’Università di Torino e a una leva di ricercatori di qualità non comuni. In quel contesto nacque, unico in Italia, l’Archivio delle storie di vita degli ex deportati residenti in Piemonte e successivamente quel volume La vita offesa a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla (1986), che resta tuttora un modello insuperato di raccolta e di utilizzazione dei ricordi degli ex deportati.
Non è qui il luogo per ricordare tutti i convegni, i seminari e le pubblicazioni rese possibili da quegli incontri. L’attivismo di Vasari, il suo timore di arrivare troppo tardi a fare conoscere da quali prove tremende erano usciti gli uomini che hanno restituito dignità e libertà al nostro paese, non era mai connotato di pessimismo; al contrario era rischiarato da note di speranza e dalla sua vena lirica, perché forse un giorno anche Vasari entrerà in una antologia poetica della deportazione. Ricordo tra i tanti incontri vissuti insieme un suo intervento all’Università di Cosenza in cui, rispondendo ad una domanda apparentemente stravagante di una giovanissima studentessa – «Voi nel Lager sognavate? e che cosa sognavate?» -, diede una lezione di autentica poesia, espressione dei valori che avevano aiutato a vivere e ad alimentare la resistenza dei deportati. Vorrei augurarmi che qualcuno abbia registrato quelle parole e che un giorno potremmo rileggerle.
Se un’ossessione aveva Vasari era che nulla andasse perduto di ciò che si diceva nei convegni e negli incontri che promuoveva; il tentativo di sottrarsi a questo impegno lo trovava implacabile. Ma credo che tutti noi che siamo stati coinvolti nelle sue iniziative gli siamo ancora debitori di qualcosa. Da anni perseguiva l’obiettivo di riuscire a fare varare un’opera che manca in Italia e che non è certo di facile realizzazione, quale una storia generale della deportazione, affidata ora a Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli, della quale si dovrebbe avere tra non molto una prima anticipazione.
Una esistenza piena, senza soste. Non a caso il libro-intervista sulla sua vita che licenziò nel 2001 reca emblematicamente il titolo Il riposo non è affar nostro.