La testimonianza di BIANCA PAGANINI deportata di Ravensbrück.

“Per tante di noi il momento peggiore fu il ritorno a casa”

Sono un’ex deportata di Ravensbrück e accanto a me come deportate c’erano anche mia madre e mia sorella; mia madre l’ho lasciata lassù. Ringrazio soprattutto per il posto che ci avete lasciato in questo congresso. E’ vero, le donne difficilmente riescono a parlare della loro esperienza, e forse questo è un male, anche perché delle donne poco si sa. Prima di tutto ci si chiede chi sono queste donne. Erano donne semplici, contadine, operaie, studentesse, qualcuna era già inserita nel mondo del lavoro, ma la maggior parte erano casalinghe, erano contadine. Però avevano una matrice comune: allorquando la loro terra era stata invasa dai tedeschi immediatamente si sono unite agli uomini e anche senza imbracciare il fucile li hanno seguiti in quella che era la loro lotta.
Volevano la libertà della loro terra, non sopportavano che i figli o i fratelli o i mariti dovessero essere presi, deportati in Germania, senza che nessuno facesse niente. Anche loro volevano affiancarli nella loro lotta e nel loro ideale. Alcune addirittura presero le armi in pugno e a fianco dei loro compagni salirono sulla montagna. Altre restarono nelle case, aprirono le case ai partigiani, li accolsero, diedero loro un letto, un cibo, diedero loro i vestiti che gli altri uomini nella loro casa avevano lasciato negli armadi perché potessero scappare, perché potessero togliersi la divisa che avevano addosso e salire sulla montagna. Diedero a questi uomini, più per affetto, più per un sentimento grande di solidarietà tutto ciò che avevano, mettendo a repentaglio la loro vita, e lo sapevano di mettere a repentaglio la loro vita, tant’è lottarono a fianco a loro e con loro pagarono.
Molte di esse, non sappiamo il numero preciso, si calcola sulle 1.000-1.500, vennero arrestate dalle SS, ma prima delle SS c’erano i fascisti che guidavano verso le case per prendere le donne e portarle poi nelle carceri. E nelle carceri queste donne come gli uomini subirono interrogatori feroci ai quali seppero tenere testa nel modo più bello, tanto da meritarsi addirittura il rispetto degli stessi ufficiali tedeschi che le interrogavano.
Poi queste donne subirono la stessa sorte degli uomini. Accusate dei più grandi tradimenti, accusate di essere partecipi di una lotta che vedeva la guerriglia nelle strade, accusate di essere in connivenza con il nemico, vennero condannate a morte, e poi questa condanna a morte venne trasformata nel campo di concentramento, e partirono. Partirono dalle carceri, ammanettate come se fossero dei delinquenti comuni, con sotto la squadra delle SS che con i fucili puntati le guardava, perché la maggior parte di loro venne trasportata da carceri minori alle grandi carceri sui carnion, e come nel nostro caso fummo assalite anche dai partigiani. Ma i tedeschi fecero presto, puntarono i fucili contro di noi e dissero: “O vi allontanate, o le facciamo fuori tutte”. E i partigiani ci lasciarono andare.
A Genova subimmo, noi che venivamo da Spezia, altri interrogatori nella famosa Casa dello Studente, poi finalmente da Genova arrivammo a Bolzano, e da Bolzano tutte insieme noi donne partimmo per un viaggio che per molte di noi fu senza ritorno. E arrivammo in un campo di sterminio, nessuno di noi aveva mai sentito parlare di campo di sterminio. Vi arrivammo una sera verso il tramonto, ci misero all’addiaccio, nessuno di noi sapeva che cosa l’aspettava, perché tra l’altro era un momento in cui il campo era completamente vuoto, tutte si erano già ritirate.
Quando la mattina noi ci svegliammo in questa piazza dove eravamo, cominciammo ad avere sentore di quello che ci aspettava. Non lontano un carro sopra il quale parecchie cose cascavano, e queste cose che cascavano venivano tirate su con un forcone. Chi disse che erano patate, chi disse che erano stracci, fino al momento in cui questo carro non arrivò davanti a noi: erano cadaveri che, nudi, venivano portati al forno crematorio. Capimmo subito che per noi non c’era nessuná misericordia, che molte di noi non avrebbero resistito. L’orrore ci prese, in mezzo alla sporcizia, coperte di pidocchi, coperte di avitaminosi, perché il tributo mensile che la natura richiedeva da noi era cessato e perciò i nostri corpi ne risentivano, si affievolivano giorno per giorno. Veniva una avitaminosi spaventosa, ma dovevamo continuare a lavorare, e lavorammo. Però nel lavoro trovammo anche la forza di unirci.
Queste donne che erano di nazionalità diversa, che non si capivano tra di loro poco per volta cominciamo a crearsi una lingua, la più strana, che era una radice tedesca e una desinenza slava, una radice slava e una desinenza tedesca: veniva fuori un linguaggio strano, un linguaggio di cui noi con queste parole riuscivamo a capirci. E nacquero delle amicizie grandi, profonde, che durarono poi anche dopo; e nacque anche quel desiderio che ci aveva spinto quando eravamo libere alla ribellione, e sabotammo. Poco, con poche cose riuscimmo a sabotare.
Ci fu chi riuscì ad unire insieme dei fili in maniera scorretta in modo tale che le coppe di porcellana dentro le quali questi fili andavano saltassero immediatamente non appena veniva portata la corrente elettrica. Sabotaggio semplice al quale aderirono russe, tedesche, polacche, francesi, italiane, tutte. Nessuno poteva imputarci di questo sabotaggio, il sabotaggio semmai veniva fatto da coloro che non avevano saputo costruire bene la porcellana. Alla Siemens avevamo imparato a saldare i fili in maniera tale che la saldatura durasse poco e i pezzi poco per volta li vedevamo ritornare. O se no a far saltare le macchine che servivano per costruire, per fare la magnetizzazione di alcuni pezzi, saltava la macchina, la magnetizzazione non si poteva fare, la fabbrica si fermava. Una volta, due volte, tre volte, a seconda di quello che potevamo fare.
Ma la guerra stava per finire e poco per volta ritornammo in campo, e nel campo fu terribile, perché era allora diventato come un formicaio di donne che provenivano da altri campi, dalle fabbriche chiuse. I tedeschi erano arrabbiati, mancava l’acqua, mancava il cibo, mancava tutto, e noi deperivamo. Deperivamo tanto che alla fine non potevamo neanche più stare in piedi. E tant’è, alla fine della guerra ci mettemmo in marcia e per otto giorni camminammo fino a che non trovammo gli americani. Una marcia della morte che vide ancora morire nostre compagne che spossate, avvilite per ciò che stava accadendo, venivano ammazzate ancora lì dalle SS con un colpo alla nuca.
E quando fummo liberate trovammo la libertà, sì, ma i nostri corpi erano molto malati, il nostro fisico non aveva resistito, e neanche la psiche. Poi poco per volta la vita ritornò e ritornammo a casa. E vi posso assicurare che il ritorno a casa, fu ancora più terribile. E’ doloroso dirlo, ma chissà perché se le donne allora, e forse ancora adesso, escono dalla loro casa quando ritornano qualcosa hanno subito, qualcosa hanno fatto per poter ritornare, e se non apertamente, ma quasi velatamente, ci tacciarono di essere prostitute. Fu dura. Avevamo sudato sangue, versato lacrime di sangue, avevamo visto morire nel più atroce modo i nostri cari, le nostre compagne, ed essere ritornate in una società che ci respingeva in questo modo è stato forse più duro che non essere morte lassù.
Però poco per volta la vita prese il sopravvento, ma per chi era giovane fu ancora difficile un’altra cosa. Lassù eravamo diventate vecchie, prese dalla sofferenza, e non avevamo più dialogo con quelli che erano giovani con noi, con le nostre compagne, con i nostri compagni di università, con quelli coi quali eravamo soliti andare a ballare. No, non ci poteva essere dialogo. Loro sapevano ancora ridere, noi a malapena si sorrideva. Allora ci chiudemmo nel nostro silenzio, nelle nostre case per leccarci quelle ferite che nessuno si preoccupava di lenire.
Ci preoccupammo molte di noi di ricostruire la casa rimasta vuota, di ricostruire una vita, e ci siamo riuscite. Non lo so in che modo, certo non del tutto, perché il senso, il ricordo del Lager è sempre dentro di noi e prende le nostre vite, non lo dimentichiamo mai questo. Se uno, è difficile spiegare questo, vede morire i suoi cari e li cura, li venera, ha una tomba, è triste ma molto più triste è il ricordo di una morte che si può solo piangere. E per molte di noi fu così. Questa è stata in parte la storia delle donne. Non è che non abbiamo mai cercato di raccontare ciò che è stato, primo perché eravamo forse prese da altre cose, poi perché non ce la sentivamo, perché ci sembrava troppo difficile poterne parlare. Mi sembrava quasi che nessuno potesse credere, e infatti anche adesso qualcuno dice: “Come siete state disgraziate!”
Sarebbe poco essere disgraziate, perciò continueremo forse a tacere, non so, però ce la mettiamo tutta adesso per insegnare come madri, come insegnanti, come donne ai nostri figli e vorrei che questo fosse capito, ad amare quella solidarietà che noi avevamo capito lassù, quella pace che noi eravamo riuscite ad ottenere tra tutte, perché lassù siamo sopravvissute solo perché abbiamo saputo darci la mano l’una con l’altra, e non abbiamo mai guardato se la nostra vicina era protestante, o ebrea, o cattolica, o atea, oppure se era slava, se era croata, o se era francese. No, eravamo soltanto donne, e questo si vorrebbe che l’umanità capisse. Non so se ce la faremo, ma vedendo la società di oggi non ce l’abbiamo proprio fatta, e questo ci dispiace tanto.

INTERVENTO (Simultanea dal francese) – Permettete, a nome dei deportati di Sachsenhausen di abbracciarti e di salutarti, noi che eravamo vicini al vostro campo e abbiamo camminato con voi durante la marcia della morte.

CARDILLO – Forse è sicuramente poco dire grazie alla signora Paganini per la sua accorata testimonianza. Do la parola alla signora Rosa Cantoni, ex deportata.