Lo scorso 27 gennaio ‘Giorno della memoria 2017’ relatore ufficiale a Verona è stato Gilberto Salmoni, Presidente ANED di Genova, deportato a Buchenwald.
La sua orazione e la sua presenza in città per alcuni giorni (presentazione della mostra e del volume ‘Buchenwald 1943-45’, Cierre edizioni e la sua presenza in Piazza Bra sul ‘Carro della memoria’, con rara disponibilità a ripercorrere con delicatezza il calvario dei deportati, hanno lasciato in molti il segno della testimonianza eccezionale di un deportato ‘misto’ (ebreo e politico, appartenente alla Resistenza genovese prima e al Comitato di Resistenza all’interno del Campo di Buchenwald) e di una sorprendente umanità.
Proprio grazie alla presenza nella nostra città, Salmoni è stato contattato da alcune persone per un ritrovamento che ha dello stupefacente …
Non riveliamo nulla di più, lasciando il racconto alle stesse emozionate e emozionanti, stupefacenti e toccanti parole di Gilberto Salmoni, un ragazzino travolto da un destino tanto grande e terribile, così come quello di tutte le vite travolte da quell’ondata di razzismo, di violenza, di settarismo che qualcuno auspicherebbe ancora oggi.
Un suo generosissimo dono, prezioso per quanto ci narra del passato e per quanto suggerisce per l’epoca attuale, per tutti quelli che l’hanno conosciuto e ammirato quel giorno, per tutte e tutti…
LA VALIGIA DI DORA
Nel mese di maggio di quest’anno avevo ricevuto un messaggio da Alberto Zappa (Nino), una persona che non avevo mai conosciuto.
Il suo messaggio diceva: a Bormio c’è una signora che, nel carcere di Como, era stata vicina di cella a sua sorella Dora. Quella signora, allora una ragazza di 17 anni, dopo pochi giorni dall’arresto, era stata liberata. Dora, allora, le aveva dato una sua valigia dicendole: “Prendila. Queste cose non mi serviranno più.” Un messaggio che mi ha riportato indietro nel tempo di molti anni, all’aprile del 1944.
Il 17 aprile 1944 la mia intera famiglia e i due montanari che ci guidavano, erano stati sorpresi, vicino alla frontiera svizzera, mentre facevano un breve riposo dopo una notte di cammino sotto la pioggia e poi sotto la neve.
“Mani in alto”. Fermati e arrestati da due militi fascisti con il fucile puntato, mentre ormai eravamo a un passo dalla salvezza, nella Svizzera neutrale.
Durante il periodo della nostra prigionia in Italia Dora non ci aveva mai parlato di essere stata in cella a Como vicino ad una giovane di 17 anni, che era stata poi liberata.
Purtroppo, nel campo di transito di Fossoli (Durchgangslager), pochi giorni dopo il nostro arrivo, Dora era rimasta vittima di un mitragliamento aereo. Era stata colpita alla testa, al ventre e alla mano destra.
Qualche mese dopo, i nazisti decisero l’evacuazione totale del campo. Dora, pur se classificata ebrea mista, essendo inutilizzabile per il lavoro, era stata destinata a Auschwitz e alle sue camere a gas, assieme a nostro padre. Anche mia madre, che sarebbe stata destinata a Ravensbruck, chiese di unirsi a loro. Così avvenne. Ebbi poi notizia che furono uccisi “alla prima selezione”, cioè immediatamente dopo l’arrivo.
Questo passato tornava a rivivere.
Nino Zappa, aiutato da insolite circostanze, era stato veramente abile a rintracciarmi.
Il 27 gennaio 2017, come ex deportato a Buchenwald, ero stato invitato a Verona a tenere l’orazione ufficiale per il Giorno della Memoria. Nino era a Verona per una visita medica specialistica e il 28 gennaio, su un giornale che riportava cenni della mia relazione, aveva notato che veniva citato Bormio.
Successive ricerche lo hanno messo in relazione con l’editore Frilli, di Genova, che aveva pubblicato i miei due libri sulla deportazione, e così è riuscito a scrivermi direttamente e a farmi sapere che, a Bormio, un’anziana signora, era stata nel carcere di Como, nella cella vicina alla cella di mia sorella Dora e con la quale poteva vedersi quotidianamente, grazie alla bontà della guardiana, una suora, che le lasciava uscire in corridoio. La signora di Bormio, allora ragazza, era stata scarcerata e Dora le aveva dato una valigia con alcune sue cose , dicendole : “A me queste cose non serviranno più.”
Stabilito il contatto, Nino Zappa mi aveva invitato a Bormio per andare dalla vecchia signora Lina, vecchio ormai anch’io, per riavere la valigia che la signora aveva messo in un baule e tenuto lì per 73 anni.
Nino aveva organizzato tutto: incontrarci alla stazione di Tirano, dove sarei arrivato in treno, l’ospitalità nell’albergo gestito da suo fratello poi la visita alla signora della valigia, il cui nome era ed è Lina.
Infine per la mattina dopo, si dichiarava a mia disposizione, per portarmi dove avessi chiesto di andare.
L’appuntamento era stato preso e rimase valido, ma mio genero Massimo Pasquali assieme a mia figlia Raffaella, decisero di accompagnarmi a Bormio in auto. Sono stati ospitati anche loro all’Albergo Dante.
Arrivati a Bormio il 17 giugno dopo l’una abbiamo potuto prendere un breve pasto, poi avere tempo per un po’ di riposo e subito dopo recarci all’appuntamento con la signora Lina.
Il breve pasto in un locale vicino all’albergo ci ha consentito di ammirare un prato molto esteso, ai piedi del bosco e la funivia che, a partire dal mese di luglio, porta alla località Bormio 2000. Un Bormio che non avevamo conosciuto e neppure intravisto durante il percorso che avrebbe dovuto portarci in Svizzera. Avevamo camminato, durante la notte, sotto la pioggia prima e poi, salendo, era iniziata una fitta nevicata che ci rallentava moltissimo.
Dopo il breve riposo, Nino ci ha chiamato. Ci siamo messi in cammino per una bella strada di paese e siamo arrivati alla casa della signora Lina.
Siamo entrati e abbiamo visto una vecchia signora vispa, seduta su una poltrona che ci aspettava.
Oltre a noi e a Nino Zappa con la moglie, c’erano i figli della signora Lina, Alberto, con la moglie Cristina, e Bice Quintavalla. Era voluto essere presente anche il sindaco Roberto Volpato con la moglie. C’era anche la figlia di una delle due guide, Luciana Fumagalli, che, per il colore e l’espressione dei suoi occhi, mi ha ricordato con emozione suo padre.
Abbiamo parlato per un po’ e qualcuno ha ricordato un episodio che era stato raccontato dal carceriere Faifer, che viveva poco lontano ed era morto alcuni anni prima; Faifer aveva ricordato di aver soddisfatto la richiesta di mio padre di avere un catino pieno d’acqua per lavarsi i piedi dopo la lunga camminata che avevamo fatto. Era un episodio che non ricordavo, ma ricordavo che mio padre era veramente maniaco per la propria pulizia.
Mentre si parlava, la figlia di Lina era andata a prendere la valigia di Dora che, per più di settanta anni era rimasta chiusa dentro un baule.
Abbiamo dato uno sguardo fugace all’interno e constatato che c’erano poche cose, ma veramente belle. Mia sorella si era sposata da poco più di un anno e gli oggetti che avevamo visto erano certamente parte del suo corredo di nozze.
Per Lina la valigia, che Dora le aveva affidato, è stata un pensiero costante nel tempo. La valigia era diventata sempre più preziosa ma anche più ingombrante. La custodiva perché era di Dora, una persona con la quale aveva vissuto momenti tragici, entrambe punite ingiustamente per colpe inesistenti, per leggi che una nazione civile non avrebbe mai potuto emanare.
Nei primi tempi ci poteva essere il desiderio di rivedere Dora e di parlare con lei di quei giorni passati insieme nelle brutte celle del carcere di Como. Poi, poco a poco aveva dovuto rassegnarsi e riconoscere che Dora aveva fatto una previsione che si era verificata.
Poi, quando ormai anche lei aveva perso la speranza di rivedere Dora, desiderava almeno che qualcuno la cercasse, venisse a Bormio e potesse constatare, con quanta cura e per quanto tempo Lina aveva tenuto nella sua casa una valigia che assolutamente voleva restituire, se non a Dora, a qualche suo parente, a qualcuno che l’aveva conosciuta e sapeva chi era e come era.
E, allora, aveva deciso di confidarsi e di comunicare a qualche persona fidata questa vecchia storia, sperando che finalmente qualcuno la venisse a trovare, la ascoltasse e potesse prendere quella valigia, che per lei era diventato un pensiero fisso che non riusciva ad allontanare, a dimenticare.
Dopo l’incontro, siamo tornati in albergo per un breve riposo. Poi c’è stata la cena, buonissima, presso il Ristorante Rezia in compagnia dei Bormini.
La mattina dopo, su un fuoristrada di Alberto Quintavalla, figlio di Lina, abbiamo fatto il tentativo di raggiungere il punto dove eravamo stati arrestati. Era molto in alto, subito sotto il crinale che divide l’Italia dalla Svizzera.
Ci hanno informato però che non era possibile raggiungere quella zona perché una frana recente interrompeva il percorso. Quintavalla ci ha portati allora al lago di Cancano dove si poteva vedere un edificio lungo e basso con ristorante e camere.
Quell’edificio era stato la caserma della milizia della Repubblica di Salò che sorvegliava la frontiera.
E’ lì che abbiamo subito il primo interrogatorio da parte di un tenente giovane che, interrogandoci uno per volta, giocherellava con un pugnale divertendosi, ogni tanto, a piantarlo sul tavolo.
Un ricordo triste, di una persona che si divertiva a cercare di spaventare persone ormai condannate a morte. Siamo riusciti a mantenere una certa freddezza, pur essendo coscienti del tremendo futuro che ci attendeva.
Tornati a Bormio Alberto Quintavalla ci ha mostrato una Jeep di sua proprietà che aveva partecipato allo sbarco in Normandia e con la quale, quasi tutti gli anni, prende parte al raduno che viene organizzato per ricordare quell’evento.
Ci ha raccontato anche qualcosa delle sue venti estati trascorse in Antartide. Ci sembrava quasi incredibile che una persona, per vent’anni, avesse passato alcuni mesi in un territorio così inospitale. Un’esperienza che gli ha permesso di mettere a punto attrezzature di soccorso alpino innovative ed efficienti che consentono di salvare anche persone prigioniere di crepacci. Quintavalla ha così migliorato l’attrezzatura del gruppo di soccorso alpino che guida .
Era venuta l’ora di pensare al rientro a Genova. Commossi, abbiamo ringraziato e salutato tutti, con l’intenzione espressa di voler mantenere i contatti e possibilmente rivederci.
Dora era più anziana di me di 10 anni. Quando siamo stati arrestati aveva 25 anni.
Prima delle leggi razziali del 1938 appartenevamo, come si diceva allora, a una famiglia benestante. Vivevamo a Genova in un bell’appartamento.
Le leggi del 1938 avevano provocato il licenziamento di mio padre, impiegato di Stato, Vice Direttore dell’Ispettorato Agrario di Genova e il sequestro di alcuni appartamenti dei quali i miei erano proprietari. Mio fratello aveva potuto laurearsi in medicina e anche specializzarsi in urologia, ma non poteva esercitare la professione. Per noi vivere significava consumare le riserve che ogni famiglia previdente aveva potuto accumulare.
Dora aveva frequentato una scuola per giovani ragazze di buona famiglia, dove venivano insegnate tante cose, in vista di un futuro matrimonio. Dora, oltre al normale programma di istruzione , aveva imparato a cucire, a ricamare, a lavorare a maglia e a decorare con il pennello oggetti vari.
Con molto amore mi aveva fatto due pullover che erano i mie preferiti.
Dora, per sua iniziativa, si era anche interessata alla lingua e alla letteratura tedesca. Aveva studiato con una signora tedesca che abitava a Genova e poi aveva frequentato per alcuni mesi un Istituto a Gmunden, in Austria, sulle rive del lago Chiemsee. Lì aveva visto con preoccupazione, i primi segnali della persecuzione contro gli ebrei da parte dei nazisti. Ci aveva detto che sulle panchine dei giardini pubblici c’era scritto “Ebrei indesiderati”.
Si era innamorata di un bel giovane, ma la sua relazione con il suo futuro marito era stata ostacolata perché lui apparteneva ad una famiglia relativamente modesta e non aveva intenzione di proseguire gli studi dopo la maturità. Loro si amavano perdutamente, ma la mia famiglia non vedeva di buon occhio quella relazione.
I nostri genitori hanno tentato di distrarre Dora e farle trovare altre occasioni accompagnandola in alcuni viaggi. Ma l’amore di Dora e Romolo era rimasto intatto e si era rafforzato.
Si giunse infine al matrimonio che si poteva fare soltanto in chiesa e costituiva un legame esclusivamente religioso, perché le leggi razziali del 1938 prevedevano che chi era di “razza ebraica” non poteva sposare chi era di “razza ariana”.
Nel 1943 Romolo era militare a Ceva e, dopo il matrimonio, Dora l’aveva seguito. Poi si erano riuniti a noi. Al momento dell’arresto Dora era incinta.
Dopo l’8 settembre 1943 , data dell’armistizio con gli Alleati, l’Italia del Nord e Centrale era
Governata dalla Repubblica Sociale di Salò che collaborava con i nazisti occupanti.
Nel carcere di Bormio e anche in quello di Como eravamo stati tutti alloggiati nello stesso penitenziario, gli uomini divisi dalle donne. A San Vittore di Milano Romolo, classificato di razza ariana, fu separato da noi, di razza ebraica .
Quando noi partimmo per il Campo di Fossoli, Romolo fu trattenuto a San Vittore. Tempo dopo riuscì a fuggire e a raggiungere i gruppi partigiani nel piacentino, ma non a mettersi in contatto con noi che, nei primi giorni di agosto, fummo trasferiti: a Buchenwald mio fratello e io, ad Auschwitz mio padre, mia madre e Dora.
Quando, con Renato, dopo la liberazione, siamo tornati a Genova, abbiamo subito scritto a Romolo, marito di Dora, chiudendo la lettera con le nostre due firme. Pensavamo che avrebbe capito quale era stato il destino degli altri. Invece si precipitò a incontrarci e ci chiese dove fosse Dora. Alla nostra risposta, cadde a terra svenuto.
Poi, per un po’ mantenemmo i contatti, ma dopo alcuni mesi Romolo scomparve. Anche i suoi familiari non ebbero più sue notizie.
P.S.
Ringrazio moltissimo la signora Lina Canclini, che ha custodito per tanto tempo e con tanta cura la valigia di Dora, sempre con il desiderio di restituirla. Ringrazio sua figlia Bice Quintavalla. che ha riportato la valigia di Dora alla luce del sole.
Ringrazio Nino Zappa, che ha avuto la non facile capacità di rintracciarmi e sua moglie Maria Luisa.
Ringrazio Gianfranco e Claudia Zappa, che ci hanno amorevolmente ospitato all’Albergo Dante.
Ringrazio Alberto Quintavalla e sua moglie Cristina; Alberto ci ha portato nel territorio dove abbiamo tanto camminato quella notte e nell’edificio, presso il lago di Cancano, dove allora risiedevano i militari che sorvegliavano la frontiera.In più, con cura ed entusiasmo ci ha raccontato alcuni episodi sulle estati trascorse all’Antartide e la sua attuale attività di soccorso alpino.
Ringrazio Luciana Fumagalli, figlia di una delle nostre due guide, Gigi Fumagalli, Luciana, ci ha confidato che il padre ha sempre avuto il cruccio di non sapere quale fine avesse fatto la famiglia Salmoni .
Ringrazio il sindaco di Bormio, bellissimo centro di montagna, ben tenuto e bene organizzato.
Ringrazio altri dei quali non ricordo i nomi (e mi scuso), che ci sono stati vicini e ci hanno aiutato e incoraggiato.
Ai miei ringraziamenti si uniscono mia figlia Raffaella e mio genero Massimo Pasquali che mi hanno accompagnato e mi sono sempre stati vicini in quelle emozionanti giornate .