Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento svolto da Dario Venegoni, presidente della sezione milanese dell’ANED, nel corso della manifestazione unitaria svoltasi dentro il carcere di San Vittore in occasione del giorno della memoria 2010.
Ho il compito di portarvi il saluto del Presidente Gianfranco Maris. Chi conosce il suo carattere sa che solo un ordine perentorio dei medici ha potuto trattenerlo lontano di qui oggi, in un giorno speciale come questo.
Credo che comprenderete la mia emozione nel prendere oggi la parola in vece sua, tanto più in questo luogo, che ha un significato particolare per la memoria di tutta la città e anche per la mia famiglia: i miei genitori si conobbero infatti proprio in un cortile di questo carcere, quando – prelevati all’alba dalle rispettive celle – furono radunati insieme a molti altri, in attesa di una corriera che li avrebbe condotti nel campo di Bolzano. La storia, le vicende di questo carcere hanno così fatto parte da sempre dei racconti con i quali io sono cresciuto.
Questo è un luogo di memoria impareggiabile per la città di Milano. Ci parla della sua dignità, del suo contributo alla lotta di liberazione, del sacrificio di tanti antifascisti qui incarcerati e anche dei tanti che di qui furono deportati verso i campi del Terzo Reich. In questo luogo – lo dico parafrasando un famoso articolo di Primo Levi, un messaggio “Al visitatore” del campo di Auschwitz-Birkenau – la memoria delle vittime dei lager nazisti si salda con quella delle vittime della repressione operata per vent’anni dal regime fascista. Molti di coloro che entrarono in questo carcere per uscirne poi solo per essere deportati nei lager nazisti avevano già conosciuto queste celle nei lunghi anni della dittatura fascista; mio padre era uno di questi, era uno di coloro che a più riprese, per diversi anni, era stato incarcerato, anche in questo luogo, a causa della sua attività politica e sindacale antifascista.
In questo senso il registro matricole del carcere di San Vittore sia veramente il grande libro della memoria della Resistenza e della deportazione milanese. Parlo naturalmente del registro matricole del reparto italiano del carcere, perché di quello tedesco non esiste documentazione, come certamente sapete. Lì sono registrati i dati anagrafici di ogni singolo detenuto. C’è una scheda che dice quando, dove e perché è stato arrestato, accanto alle indicazioni sulla sua destinazione. Il tutto è controfirmato dal prigioniero. In molti casi quella firma sul registro matricole è l’ultima testimonianza della vita di molti, moltissimi che da qui sono partiti per intraprendere un viaggio senza ritorno.
Ma almeno per altri due motivi mi pare significativo quel registro, che ci parla della vita e della storia di questo luogo negli anni dell’occupazione nazista.
Esso registra puntigliosamente, in modo direi insostituibile l’enorme numero di organizzazioni armate della Repubblica Sociale Italiana che si diedero da fare per accompagnare il potente alleato tedesco nella sua opera di repressione e di sterminio. Venivano condotti qui donne e uomini di ogni età e condizione che erano stati arrestati dalla Muti, dalla GNR, dalla polizia di frontiera e da una moltitudine di organizzazioni grandi e piccole, milizie fasciste più o meno autonome, che davano quotidianamente la caccia agli avversari politici e agli ebrei. Italiani che braccavano e catturavano altri italiani e li consegnavano ai tedeschi. Da quel registro il contributo insostituibile fornito dalla Repubblica Sociale di Mussolini alle deportazioni emerge in modo incontrovertibile.
Ho trovato all’archivio di stato di Milano il verbale dell’arresto di mio padre. È un verbale stilato da militi della Guardia Nazionale Repubblicana, da italiani quindi, i quali, catturate le loro prede, si precipitarono a scrivere all’Hotel Regina, al Comando nazista di Milano, in qualche modo vantandosi dell’impresa portata a termine. Il maggiore Bossi della GNR che firma il verbale affida al Comando tedesco i catturati, segnalendogliene la pericolosità, raccomandando alla Gestapo una nuova sessione di interrogatori (perché come interrogava la Gestapo non interrogava nessuno, questo alla GNR lo sapevano bene) e infine raccomandando esplicitamente l’invio in un lager: i fermati, scrive testualmente il maggiore Bossi, risultando “pericolosi per la sicurezza interna, vengono proposti per l’invio in un campo di concentramento”. E così fu, in effetti: mio padre, e i due tipografi arrestati con lui in un locale dove si stampavano fogli antifascisti clandestini furono effettivamente avviati verso i lager del Reich, da dove i due tipografi non fecero mai più ritorno.
C’è un terzo motivo per il quale mi sembra che il registro di questo carcere sia importante. Esso testimonia dell’altissimo prezzo pagato dalla città di Milano alla repressione fascista e nazista. Io condivido alcune delle osservazioni fatte anche qui questa sera sulla necessità di approfondire il tema della indifferenza di larga parte della città e in generale degli italiani, i quali di fronte al regime prima e agli occupanti poi scelsero spesso la via del “tirare a campare”. Ma non posso non sottolineare che ci troviamo oggi in un luogo che con tutta la sua storia durante il fascismo e la guerra testimonia dell’altissimo prezzo pagato da centinaia, migliaia di persone che si opposero apertamente, tenendo viva la propria dignità – come ricorda la lapide posta all’ingresso del carcere – “per amore della libertà e dell’onore della Patria”.
Se è vero che la Resistenza non è mai riuscita a fermare con una battaglia in campo aperto un convoglio di deportati, quale che ne fosse la composizione, è vero anche furono migliaia gli uomini e le donne che misero a repentaglio la propria vita per portare un aiuto ai partigiani, alle famiglie di ebrei, agli ex prigionieri alleati, quando non per portare un volantino, custodire in casa una macchina tipografica, una ricetrasmittente, o addirittura delle armi. Giovani, cresciuti col fascismo, ma anche madri e padri di famiglia che rischiarono in prima persona e che – la storia di questo luogo ce lo ricorda drammaticamente – sovente pagarono quel gesto con l’arresto, con la tortura, con la deportazione. O con la fucilazione, come accadde ai 15 Martiri di piazzale Loreto, che proprio di qui furono prelevati per andare verso il destino.
Consentitemi un altro ricordo familiare.
Tre giorni dopo il suo ingresso qui mia madre, una ragazza di buona famiglia, che non aveva alcuna esperienza carceraria precedente, trovò il modo di fare pervenire clandestinamente ai suoi compagni fuori un biglietto molto compromettente e in cui raccontava come era avvenuto l’arresto e che cosa lei e quelli arrestati con lei avevano detto nei primi interrogatori.
Dopo altri tre giorni scrisse un secondo biglietto clandestino e nel quale replicava a una lettera già pervenutale da fuori, sempre per vie clandestine. E così avanti, a una media di una lettera ogni tre o quattro giorni. Non conosco il nome della persona che rischiò in prima persona per questa detenuta che certamente non aveva mai conosciuto in precedenza. Oltre all’agente Schivo, di cui giustamente si tramanda il ricordo, con certezza numerosi altri agenti si prestarono a questo rischioso lavoro nell’ombra. E non solo. Altri – infermieri, suore, personale interno incaricato di diverse funzioni – diedero il proprio contributo, facendo arrivare agli ebrei e a coloro che il fascismo e il nazismo avevano incarcerato come nemici un soffio di speranza, un segno tangibile di solidarietà e di vicinanza.
A me piace pensare che a fare da tramite tra mia madre e la vita fuori sia stata allora suor Enrichetta che – scoperta – fu salvata solo dall’energico intervento del cardinale Schuster. Non ho ovviamente alcun titolo per intervenire nella causa di beatificazione di suor Enrichetta avviata da molti anni. Per quanto mi riguarda, posso dire che solo per questo aiuto fornito ai prigionieri di questo luogo quel titolo appare strameritato.
Voglio insomma ricordare che anche qui, dentro il carcere, una moltitudine di persone hanno testimoniato concretamente che anche nelle condizioni più difficili ci fu chi rischiò patimenti e torture soltanto per portare un aiuto a coloro che al fascismo e ai nazisti aveva trovato il coraggio di opporsi.
Vorrei dire a chi lavora ad ogni livello oggi qui: siate orgogliosi di questi vostri colleghi di ieri e della eredità di dignità e di onore che vi hanno lasciato.
Da figlio di ex detenuti di questo carcere mi sia consentito infine di inviare un saluto ai detenuti che si trovano oggi in questo luogo. Mio padre, che trascorse quasi dieci anni nelle galere fasciste, parlava del carcere come della sua università. E col modo paradossale di rievocare la propria vita che gli era proprio aggiungeva che era stata “una fortuna” per lui avere avuto tanti anni per studiare, per prepararsi al domani. Condannato dal Tribunale Speciale quando era ancora un ragazzo che aveva fatto la quinta elementare uscì dalle carceri fasciste come un uomo che leggeva correntemente inglese, francese e tedesco, e che aveva condotto studi approfonditi di economia, di storia, di filosofia, di letteratura. Io spero che anche per i detenuti di oggi, in così larga parte provenienti dall’estero, questo luogo sappia e possa rappresentare il primo fondamentale gradino di un percorso di riscatto e di rinascita.