Parlo in nome dell’ANED, della quale faccio parte come figlia di Maria Arata, un’antifascista, deportata politica, di appartenenza socialista, matr. n.77314 nel campo, noto anche a Liliana Segre, di Ravensbrück, l’inferno delle donne, al quale sopravvisse senza avervi smarrito la speranza negli uomini, la fede, l’amore per la vita e per la contemplazione della natura.
E’scomparsa nel 1975 all’età di 62 anni, tre giorni dopo avere assolto al dovere della testimonianza con la scrittura dei suoi ricordi.
Ringrazio per l’invito che dà voce ad una componente vasta dell’universo concentrazionario, quello dei deportati politici: nella società italiana più di 30.000 triangoli rossi conobbero la deportazione nei lager della morte e dell’annientamento ottenuti attraverso il lavoro massacrante, l’esposizione alla fame e al freddo.
Si sa che nell’inverno del 1944-45 i sopravvissuti furono sottoposti alle marce della morte che avrebbero dovuto portare sempre più a ovest le migliaia di superstiti-testimoni della ferocia nazifascista, dato l’avanzare da est dell’Armata Rossa.
Sino al 5 maggio, data della liberazione dell’ultimo campo (Mauthausen) le probabilità di sopravvivenza si assottigliavano per la severità delle temibili e ricorrenti selezioni, legate anche al sovrappopolamento crescente dei campi, in cui arrivavano gli Häftlinge dei campi evacuati.
In questo luogo, in cui Liliana Segre depone ogni anno parole umane e vere, è dunque giusto che i deportati politici possano testimoniare la loro condivisione della memoria con lei e unire al ricordo delle vittime ebree quello di coloro che furono perseguitati perché dissero NO.
Molti politici partirono anch’essi dal binario 21, il più delle volte verso Fossoli, come nel caso di Poldo Gasparotto, militante del partito d’Azione, comandante delle forze resistenziali a Milano, torturato a San Vittore, internato a Fossoli e poi ucciso il 22 giugno su ordine del Comando SS di Verona. Egli ha lasciato una precisa testimonianza del mortifero luogo in cui ci troviamo e delle operazioni che vi si svolgevano.
Nel suo diario descrive: “Sbarchiamo nei sotterranei della stazione centrale, dove colla solita gentilezza veniamo introdotti e subito rinchiusi-sempre in 45-in un vagone merci dove, anche se non fossimo al buio, non è possibile trovare né un fiasco d’acqua né un bugliolo o alcunché di simile. Ci accoccoliamo, si può ben dire, gli uni sugli altri e, nel calore soffocante, e nel tanfo, attendiamo.
Le ore non passano mai, in compenso passa un ferroviere e audacemente apre tre finestrini, protetti da grate, sulle testate del vagone. Dopo complicate manovre, spostandosi sui binari lateralmente, anche il nostro vagone raggiunge il grande ascensore, e viene issato alla stazione centrale, dove i tedeschi si accorgono dell’apertura dei finestrini e li richiudono. Siamo desolati, il senso di soffocazione aumenta…”.
Ma di qui partirono anche treni diretti a Mauthausen, per esempio nel caso di Angelo Ratti qui presente, superstite di Gusen. Partì il 4 marzo 1944 ed arrivò il 13 marzo. Con lui tra gli altri, in quel convoglio Roberto Camerani di cui avete conosciuto nelle scuole la mitezza della testimonianza. Uno dei deportati che più si è speso nelle scuole.
Molti di quelli che scelsero di dire NO, erano in ancora giovanissima età, come Italo Tibaldi, giunto sedicenne a Mauthausen e che ha dedicato tutta la sua vita alla ricostruzione dei convogli che dall’Italia repubblichina scaricavano la merce umana nei lager e che continuarono a partire sino all’ultimo. Basti citare il trasporto del 22 marzo 1945 da Bolzano con arrivo il 24 marzo 1945. Dobbiamo dire ai giovani che i “triangoli rossi” erano donne e uomini che si assunsero la responsabilità delle loro scelte e andarono incontro alla deportazione e molto spesso alla morte.
Scelsero di esprimere il loro dissenso rispetto ad altre scelte politiche quali quelle delle discriminazioni ‘razziali’, codificate da leggi approvate e votate.
Dobbiamo ricordare che i politici dissero di no scegliendo la strada del confino, dei tribunali speciali, della prigione, dell’arresto, delle torture finalizzate a ottenere la denuncia della rete cospirativa e resistenziale alla quale appartenevano. Dissero di no. Ne sapevano qualcosa le suore del carcere di S.Vittore che si prestarono a loro rischio e pericolo a fare da staffetta con biglietti e notizie tra il carcere e le famiglie e i resistenti.
E’ in atto il riconoscimento dell’opera svolta da Suor Enrichetta Alfieri nel carcere di San Vittore. Un’umile suora che fu poi sbattuta, una volta scoperta, nella cella più fonda e più buia di cui lei stessa ignorava l’esistenza. Come non sottolineare la tragica divaricazione tra i comportamenti di un’umile suora e le parole negazioniste che in questi giorni ci hanno reso inquieti, hanno ferito noi tutti, donne e uomini liberi, credenti e non credenti, perché erano parole e comportamenti provenienti da chi dovrebbe esercitare un alto e responsabile magistero spirituale?
E’ altrettanto grave l’irriconoscenza del mondo politico attuale proprio nei confronti di chi ha restituito dignità alle istituzioni democratiche, di chi ha fatto sì che anche l’oppositore più arrogante avesse la possibilità di esprimersi nel contesto di un disegno costituzionale nato dal sacrificio di moderni eroi quali gli uomini e le donne uscite dai campi.
Ma ogni generazione ha il proprio compito: a noi che crediamo nei valori che le nostre madri e i nostri padri hanno trasmesso spetta di raccogliere in un’unica memoria la storia dell’antifascismo, della Resistenza italiana, della persecuzione ebraica, della deportazione e della cosiddetta ‘soluzione finale’, senza permettere che vengano scissi come qualcuno desidera, i rapporti di causalità tra le responsabilità del fascismo e i crimini che a partire da questa stazione e da tante altre stazioni vennero scientemente pianificati e burocraticamente organizzati. Si tratta di rivendicare per ogni uomo l’appartenenza alla specie umana.
Già nel 1947 Robert Antelme , partigiano e deportato francese, sottolineava lo specifico grido nato dall’umanità dei campi con queste parole:
«Gli eroi che conoscevamo della storia o della letteratura, sia che abbiano gridato l’amore, la solitudine,l’angoscia dell’essere e del non essere, la vendetta o che si siano eretti contro l’ingiustizia o l’umiliazione, non crediamo tuttavia siano mai stati spinti a esprimere come sola ed estrema rivendicazione, il sentimento ultimo di appartenenza alla specie.
Dire che allora ci si sentiva contestati come uomini, come individui della specie, può sembrare un sentimento retrospettivo, un sentimento di cui solo poi si ebbe chiara coscienza. Eppure, è questo il sentimento che fu più continuamente vissuto, ed è quello, esattamente quello che gli altri volevano. La negazione della qualità d’uomo provoca una rivendicazione quasi biologica di appartenenza alla specie umana».