Domenica 23 gennaio 2011, presso il Piccolo teatro Studio di Milano, si è svolta una manifestazione unitaria, indetta dal Comitato Permanente antifascista in collaborazione con la Comunità ebraica milanese. Nel corso della serata, inframmezzati da musiche e da letture di testimonianze di ex deportati a cura di artisti del Teatro, sono intervenuti, dopo i saluti di Sergio Escobar, direttore del Piccolo Teatro e di Letizia Moratti, Sindaco di Milano, il rabbino capo Alfonso Arbib, il presidente della Comunità ebraica Roberto Jarach, il presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia, il segretario generale della Camera del Lavoro Onorio Rosati e il presidente dell’ANED Dario Venegoni. Di quest’ultimo pubblichiamo la trascrizione dell’intervento.
Innanzi tutto vorrei ringraziare il Piccolo Teatro – la direzione, gli attori, i musicisti, il regista e i tecnici – per questa serata. Le voci che ci hanno portato sono le voci – vere, autentiche, tratte dalle loro testimonianze – di superstiti della tragedia che oggi noi qui ricordiamo. Sono le voci di una umanità straordinariamente variegata, coinvolta, travolta da questa tragedia.
Nelle deportazioni, anche dalla nostra città – Milano suo malgrado fu per così dire la “capitale” delle deportazioni verso i lager nazisti – vi furono tutte le possibili sfaccettature di questa variegata umanità. C’era Liliana Segre, con i suoi 13 anni, che teneva protettiva per mano il suo sventurato padre. C’era, passò da Milano nel suo viaggio verso la morte, anche Franco Cetrelli, un ragazzino che anche aveva 13 anni, e che aveva avuto la colpa di lavorare come garzone in un negozio di fotografo alla Spezia. Il titolare era stato arrestato perché antifascista, e i fascisti pensavano che Franco fosse a parte di chissà quali segreti. Per questo si accanirono su di lui, lo interrogarono, e lui non rispose, non disse, forse semplicemente non sapeva. Fu deportato a 13 anni, passando per Milano, poi andò a Bolzano e infine a Mauthausen, dove fu ucciso pochi giorni prima della liberazione.
Ci furono tra i deportati milanesi moltissimi ebrei: Liliana Picciotto ha calcolato che più di mille furono gli ebrei che passarono per San Vittore. Accanto a loro, talvolta insieme a loro, partirono anche i lavoratori, protagonisti di quello straordinario movimento che furono gli scioperi del marzo 1944, unico caso di scioperi di massa nell’Europa occupata dall’esercito nazista. Furono migliaia gli operai, gli impiegati, i tecnici arrestati dopo quegli scioperi, e centinaia di loro furono deportati nei campi nazisti.
Ci furono anche tanti intellettuali. Partirono dal Binario 21 per Fossoli, e poi per Bolzano e per Mauthausen le due “B” del famoso studio di architettura BBPR, Banfi e Belgiojoso. E Banfi, come è noto, morì a Gusen nel 1945.
Partirono gli intellettuali come gli analfabeti; erano donne, uomini, giovani, vecchi, bambini. Nel registro matricole di San Vittore c’è la scheda di una mamma ebrea che tra le “Annotazioni del detenuto”, uno spazio che di solito non veniva compilato, fa annotare “Ha con sé una bambina di anni 6 a nome Lina”. Entrambe, mamma e figlia, furono uccise a Birkenau, appena arrivate col treno, pochi giorni dopo quella annotazione.
Penso che sia giusto che ciascuno, in qualsiasi modo coinvolto in questa tragedia, coltivi la memoria del proprio gruppo, della propria famiglia, dei propri cari. Ma è altrettanto giusto – ed è per questo che io mi compiaccio particolarmente della manifestazione di questa sera – che la città ogni tanto sia chiamata a riflettere sulla complessità e al tempo stesso della unitarietà di questo fenomeno. Non vi furono solo pochi deportati: vi fu un’immensa quantità di persone che furono travolte da questa tragedia. Erano tutte persone innocenti, perché era certamente innocente la “bambina di anni 6 a nome Lina”, ma era innocente anche il combattente partigiano che aveva risposto al dovere di opporsi a una occupazione come quella nazista e a una dittatura come quella fascista. Guai se perdiamo di vista questa prospettiva.
Le deportazioni erano diversificate. I campi dove furono mandati i deportati milanesi e italiani erano diversi, anche molto diversi tra loro. A seconda della categoria in cui ti avevano inserito, finivi in un campo piuttosto che in un altro. Potevi stare relativamente “meglio” o anche decisamente peggio. Potevi essere avviato allo sterminio, come avvenne per gli ebrei partiti da Milano, dall’Italia e dall’Europa intera; potevi essere avviato, come avvenne per tutti i lavoratori arrestati dopo gli scioperi, all’annientamento attraverso il lavoro a Mauthausen, un campo nel quale oltre il 60% dei prigionieri trovò la morte, dopo inumane sevizie, violenze e inenarrabili patimenti.
Il sistema concentrazionario era uno, era articolato in molte forme, aveva al suo interno molte diversificate “specializzazioni”, se mi è concesso il termine, ma era un sistema unitario. C’erano campi deputati al lavoro, c’erano quelli deputati all’annientamento, c’erano quelli deputati allo sterminio. Questo mostruoso sistema, che coinvolgeva tutta l’Europa occupata, dall’Atlantico alle porte di Mosca, rispondeva a un disegno dichiarato, quello del nazismo. Un disegno che prevedeva esplicitamente l’annientamento, la scomparsa, la cancellazione di quelle che i nazisti chiamavano “razze inferiori” e delle “bocche inutili”; l’annientamento della classe dirigente dei popoli slavi, i quali erano destinati a servire un domani solo come schiavi per il popolo eletto, tedesco, ariano; l’annientamento di ogni voce contraria a quella del Führer.
Molto spesso dimentichiamo – e invece Teo Ducci ce lo ricordava sempre, ostinatamente – che i primi a pagare per il sistema concentrazionario nazista furono gli antinazisti tedeschi, per i quali furono inaugurati i Lager, a partire dal primo di tutti, quello di Dachau, aperto solo pochi giorni dopo l’arrivo di Hitler al potere.
In queste giornate nelle quali si scava nella ricerca anche di storie e vicende particolari, facciamo bene, la città fa bene a riflettere sulla complessità e sulla unitarietà di questa vicenda. È una storia nella quale – come è stato scritto, uomini comuni, uomini come noi furono i protagonisti di questi massacri. È famoso il caso di quel battaglione di riservisti, persone già avanti con gli anni, padri di famiglia, gente per bene, rappresentanti di quella civiltà tedesca che era allora tra le più avanzate del mondo. Costoro, richiamati sotto le armi e inviati a sparare sui bambini e sulle madri nel fronte orientale non esitarono a farlo compattamente; quasi nessuno si tirò indietro. Erano uomini comuni, come noi, e si resero strumento di questo massacro, di questo sterminio.
Se ricordiamo la complessità di questa vicenda, siamo tutti più forti, più impermeabili al rischio di replicare gli errori del passato. E forse anche così posso cercare di rispondere al rabbino Arbib, che all’inizio di questo incontro ha posto la domanda “Come si fa a impedire che tutto questo ritorni”. Possiamo impedirlo se ricordiamo che quello che oggi ricordiamo fu il risultato di un disegno, non una pazzia di un uomo o di un momento. Fu un disegno, di cui dobbiamo imparare a riconoscere e a contrastare i segni anche nel mondo di oggi, se davvero vogliamo che tutto questo non si possa più ripetere.
Lasciatemi terminare questo mio intervento in un modo del tutto irrituale.
Io sono solito portare a chi mi ascolta, nei miei interventi, il saluto del mio presidente nazionale, Gianfranco Maris, superstite, testimone dei campi di Fossoli, di Bolzano, di Mauthausen e di Gusen. In questa occasione non l’ho fatto, perché Gianfranco Maris è qui con noi. Vorrei che vi uniste a me nel salutarlo: domani Gianfranco Maris, un testimone per il quale il giorno della memoria dura tutti i giorni da oltre 60 anni, compirà 90 anni. Auguri!
Alcune foto della serata