Premetto che sono al mio primo congresso dell’ANED e non intendo assolutamente esprimere valutazioni o sottovalutazioni del lavoro svolto dall’associazione nell’ambito educativo, quello che più mi sta a cuore, e sul quale mi sento di poter dire qualcosa avendo calcato i pavimenti di scuole statali per una quarantina d’anni.
Siamo tutti d’accordo che è fondamentale rivolgersi ai giovani, e noi che giovani non siamo più da tempo ci sentiamo a disagio a comprenderne il linguaggio. Però sono convito che il problema non sia solo legato alle nuove tecnologie, e faccio un esempio: una quindicina di anni fa ho animato, per alcuni anni, un bellissimo progetto che si chiamava “Fiori di Pace” e che portava a Verona gruppi di ragazzi israeliani e palestinesi che facevano un importante percorso di confronto con l’altro, mediato dall’affiancamento di coetanei italiani. Un giorno, accalorato da un’intensa partita a calcetto, uno dei nostri si tira su le maniche della maglia e improvviso cala il gelo nella stanza: il ragazzetto aveva disegnato sul braccio una svastica. I ragazzi ebrei lo guardano sconvolti, lo interrogano: “Come puoi essere qui a parlare di pace ed esibire questo simbolo?” All’epoca non esistevano gli smartphone, TikTok, Instagram, ma l’ignoranza non era minore. Il problema è più profondo ma per venirne fuori esistono strade più antiche, quelle della relazione profonda fra persone. Se vogliamo diffondere cultura non è sufficiente cambiare linguaggi, ammodernare la comunicazione, rendere il messaggio più accattivante.
E bisogna cominciare dagli insegnanti, non c’è via di scampo. ricordiamo che cultura e coltura hanno la stessa radice etimologica: non basta gettare un seme e sperare in bene, è necessario seguire con cura la sua crescita. Non bastano gli interventi spot, occorre un percorso quotidiano, senza illuderci che le scorciatoie portino lontano. Dobbiamo far capire ai giovani insegnanti che i programmi ministeriali non esistono più da 12 anni, si può innovare e sperimentare, creare esperienze e percorsi di senso che non hanno neppure limiti normativi. Dobbiamo fornire strumenti, idee concrete e condivise, certo rigorose sul piano storico e scientifico: non possiamo lasciare sempre alle case editrici, che fanno il loro mestiere mirando a rientrare dei costi e guadagnarci qualcosa, la diffusione della cultura nel nostro paese.
Oggi abbiamo anche la possibilità di utilizzare l’educazione civica come mezzo per realizzare percorsi di senso, ma senza scordare che dobbiamo permettere ai giovani di realizzare esperienze forti e coinvolgenti: in questo quadro sono evidentemente preziosissimi i viaggi della memoria, ma almeno possiamo partire da mete più vicine. I giovani che ho portato a Marzabotto, a Carpi e Fossoli sono stati profondamente segnati dall’esperienza. Ma non basta: dobbiamo aiutare i loro insegnanti a prendere coraggio, ad affiancarli in percorsi che li aiutino a tradurre ciò che scoprono nella loro vita quotidiana, che li indirizzino ad un reale cambiamento di prospettiva. Ed educare alla critica che parte necessariamente dall’analisi della realtà, educarli alla scelta consapevole: attraverso l’incontro, che oggi è possibile solo in modo virtuale, con giovani come loro che hanno fatto la scelta giusta possiamo aiutarli a crescere come persone migliori.
Marco Menin