Compagni e compagne di ogni genere e condizione (permettetemi così un sorriso sulle questioni, in realtà serie, discusse in apertura di Congresso), vorrei cominciare questo breve intervento da una frase che è stata pronunciata ieri e con la quale non sono d’accordo. Non sono d’accordo con gentilezza, intendiamoci; e capisco benissimo la logica con cui quella frase è stata pronunciata; ma non sono d’accordo, se non altro per questioni di espressione linguistica nelle quali ravviso, forse per mia deformazione, ragioni anche di sostanza.
È stato detto, nel corso di un intervento che su altri punti ho condiviso, che in Aned – e specialmente al congresso – non si dovrebbe parlare di politica, perché diverso, forse più alto, sarebbe il nostro compito. Mi pare invece che l’Aned sia uno di quei luoghi dove proprio si debba parlare di politica: per il fatto che tutto è politica, intorno a noi, come di regola in ogni tempo e paese.
La nostra associazione ha un grande pregio, è pluralista e insieme unitaria. Ha anche un difetto: non rappresenta una presenza politica. Nulla a che vedere, ovviamente, con la politica politicienne: ma è (credo) nostro compito affrontare, più che ogni questione politica, ogni questione politicamente, cioè con sguardo volto a quanto accade nella società, per potere, in questa stessa società, essere una voce civile ascoltata, che esprima istanze riconosciute come importanti sia dalle istituzioni sia dalla cittadinanza e lo sappia fare con forza e visibilità.
Si è obiettato, nell’intervento cui sto replicando, che occuparsi troppo di politica potrebbe ferire l’associazione perché rischierebbe di condurre a un conflitto tra diverse sensibilità. Ma proprio mettere in luce la differenza delle sensibilità trovando, nel nome della tragica storia di sopraffazioni, divisioni, violenze di cui ci facciamo carico, una via comune di sintesi mi sembra l’auspicio migliore, invece, per una realtà come la nostra, che tanto ancora ha da dire e da dare: cosa peraltro emersa limpidamente dalla relazione del nostro Presidente, quando in particolare ha indicato le tre linee guida del percorso che l’Aned dovrà seguire a suo avviso nei prossimi anni, dando un particolare rilievo alla necessità che l’associazione svolga un ruolo di riferimento e coordinamento sulla ricerca storica (non solo memorialistica), specialmente in rapporto – si torna lì – alla deportazione politica.
Molti interventi hanno poi fin qui presentato esperienze concrete o progetti ideali di grandissima vitalità e intelligenza, per cui non ne offrirò altri da parte mia, esprimendo solo ammirazione e piena condivisione per discorsi come quelli di Maria Chiara Acciarini, di Marco Menin, dei compagni e delle compagne delle Sezioni emiliane.
Due parole in più vorrei dedicare, però, proprio in senso anche politico, alle parole secondo me particolarmente importanti di Ambra Laurenzi, che ha affrontato il problema – sentito da molti – del linguaggio. Il linguaggio – i linguaggi tutti, come nelle suggestioni di Giuliano Banfi – con cui parlare di deportazione, di lager, di universo concentrazionario.
Si è detto, in riferimento soprattutto ai giovani e ai Viaggi della Memoria, della necessità di trovare una via empatica e nitida per entrare efficacemente nella questione, a partire magari dalle storie di tanti uomini e donne cui restituire la dignità di un nome e di una vita che non li schiaccino sul dramma del campo. Concordo, purché però la mozione del sentimento sia anche quella della ragione e la mozione della memoria sia anche quella della storia.
Noi non dobbiamo semplificare, ma dobbiamo chiarire. Perché per arrivare a chi è più giovane – ma anche a chi non è più tanto giovane, badate bene, giacché il problema della confusione dei linguaggi riguarda tutti, e io sono contrario a esagerare, diciamo così, nella distinzione tra fasce d’età della cittadinanza cui ci rivolgiamo – per tutto questo certo, i linguaggi debbono adeguarsi: si adeguano alle condizioni delle persone cui parliamo, si adeguano a noi stessi, si adeguano al contesto nel quale ci troviamo e che noi dobbiamo saper leggere, saper capire, con il quale bisogna entrare, come si diceva, in confidenza, comprendendolo in maniera sintetica ed efficace. Però poi il linguaggio deve soprattutto andare a puntare alla chiarezza, all’esattezza, alle regole che dava Calvino nelle lezioni americane, se vogliamo; lì deve puntare; ed è giusto che il linguaggio delle ricorrenze (sono d’accordo: e non al cento, ma al duecento per cento) debba partire dai casi particolari, familiari, umanamente riconoscibili. I casi particolari siano però lo spunto di partenza per arrivare al generale, perché questo è il nostro compito, credo: il nostro compito educativo nei confronti dell’intera società e non solo di una comunità con cui per caso o per impegno si crei un legame preferenziale, posto che prima di tutto vengono certo le fasce più giovani di popolazione, se non altro perché hanno anche più tempo per riflettere e ricercare ancora su questi argomenti, assumendo il ruolo che ora cerchiamo di svolgere noi.
Muovere dal particolare, è stato detto benissimo, da una storia riconoscibile, e da questa arrivare al generale, che porta a riflettere sul percorso storico, a integrare il sentimento con la ragione. Un percorso di cui noi siamo ancora una parte, che non è finito, che non dobbiamo chiudere nel dettaglio in maniera esagerata, perché altrimenti potremmo dimenticare (questa sarebbe un’operazione anche molto ambigua ideologicamente, non a caso tentata spesso dagli anti-antifascisti) che quel particolare si inserisce in un grande percorso della storia; e nello stesso tempo giustamente evitando quell’eccesso, per così dire, di scientificismo tecnico per cui ci si dimentica dell’emozione umana che invece è sicuramente la prima leva per i nostri corpi e per le nostre menti: credo sia questo il senso del nostro stesso essere riuniti in queste assise: il percorso che va dal particolare al generale.
Partire dai casi singoli, che sono i casi che ognuno di noi ha conosciuto, per ragioni familiari, associative, e arrivare alla sintesi generale del nostro dover continuare a vivere in qualche maniera intellettuale l’esperienza della deportazione e progettare una sua vita nell’esistenza di chi verrà dopo di noi.
Quando ieri abbiamo svolto le nostre discussioni statutarie, non è stato un mero rituale: si è parlato prima dell’importanza dei rituali; credo che siano veramente fondamentali nella vita di tutti, perché il rituale non è pura immagine, è sostanza: il nostro dibattito ha avuto sostanza, nonostante magari ogni tanto possiamo avere trasceso o pensato chissà che, perché in effetti discutere sulle parole giuste vuol dire discutere sulle idee giuste. Vuol dire mettersi a confronto con la necessità di trovare una sintesi da condividere per portare con noi la nostra rete di esperienze, di riflessioni e di pensieri. Dal generale al particolare: noi siamo partiti cominciando dalla discussione su di un articolo e siamo arrivati alla sintesi di uno statuto. Questo è il simbolo, nel nostro piccolo, nella vita associativa, di quello che secondo me è il nostro compito culturale e politico, per tornare da dove ero partito.
Jacopo Marchisio