Giorno della Memoria 2009
Conferenza sul tema “Il progetto politico del fascismo e il suo atteggiamento nei confronti degli oppositori”
22 gennaio 2009, Casa della Cultura, Milano
Eros Francescangeli, storico e ricercatore presso l’Università di Padova
“Il fascismo dal sansepolcrismo alla marcia su Roma”
Innanzitutto buongiorno a tutti i presenti. Dato che, oltre all’attività di ricerca presso l’Università di Padova, insegno nella scuola media (anche se momentaneamente in congedo), proverò a non annoiarvi. Il difficile è proprio questo: raccontare il passato senza stancare una platea di studenti. Qui oggi non abbiamo né immagini, né Power point, tuttavia penso che per la vostra crescita – dato che frequentate l’ultimo anno delle superiori – sia importante anche cominciare a ragionare, leggere, ascoltare relazioni, senza il ricorso a musica, immagini o altri supporti multimediali (con ciò, sia chiaro, non intendo dire che non siano importanti). Inoltre, un consiglio che mi sento di darvi è quello di prendere appunti, sia in generale sia su eventuali domande che da porre a me e/o al professor Canali. Per quanto mi riguarda, parlerò delle origini del fascismo, dagli albori fino al 1922; mentre il professor Canali relazionerà sul fascismo-regime. Colgo quindi l’occasione per ringraziare la Fondazione per l’invito ad intervenire, che mi dà modo di affrontare il tema della natura del fascismo delle origini proprio… A proposito, quanti di voi sanno in che città nacque il fascismo? A Milano. Infatti, il fascismo nacque proprio a Milano. Un tipo particolare di fascismo, per molti aspetti diverso da quello storicamente determinato.
La prima premessa metodologica è questa: parlerò di fascismo in senso storico, mettendo in guardia da un uso analogico che spesse volte si fa del termine fascismo. Nel lessico politico dei nostri giorni, il termine viene utilizzato come sinonimo di autoritarismo, brutalità, utilizzo di metodi “spicci”, abuso di potere. Ad esempio, se la polizia pesta illegalmente qualcuno, viene bollata come «fascista». Ma questo è un uso improprio dell’aggettivo, poiché è antistorico utilizzare il termine fascismo per fenomeni che sono sempre esistiti: gli abusi polizieschi o certe forme di illegalismo attuate con o senza la complicità delle autorità non sono manifestazioni apparse con il fascismo e – gli esempi sono numerosi – si sono verificate sotto qualsiasi forma di regime (democratico, comunista, clericale o di altro tipo ancora). Con ciò voglio dire che l’autoritarismo, legale o extralegale che sia, da solo non è sufficiente a caratterizzare il fascismo. Anche il bonapartismo e lo stalinismo, ad esempio, sono fenomeni autoritari, ma non possono essere identificati – a meno di forzature strumentali – con il fascismo. Quest’ultimo è stato – è importante sottolinearlo – qualcosa di specifico. Dico questo perché dilatando l’ombrello semantico del termine fascismo, rischiamo di creare una categoria omnicomprensiva (quindi inutile) di tutto ciò che non è democratico. E in questo processo di banalizzazione e demonizzazione il fascismo viene, nello stesso momento, relativizzato e assolutizzato. Cioè, se ne nega la specificità (tutto ciò che è autoritario è «fascismo», dunque le qualità del fascismo – le sue pericolosissime specificità – non sono uniche), attribuendogli, al tempo stesso, la valenza metastorica di «male assoluto», quasi fosse un corpo estraneo alla nostra cultura. Nel dibattito politico di questi giorni, ad esempio, l’Iran viene definito da alcuni un paese «fascista»; d’altro canto, altri definiscono così Israele, sostenendo che nella lotta contro i palestinesi usi gli stessi metodi dei nazisti… Queste analogie sono forzature inaccettabili. Siamo di fronte a un uso improprio della storia. Una modalità di utilizzo, oltretutto, inutile e controproducente: inutile perché non c’è bisogno di ricorrere alla similitudine con i regimi di tipo fascista per denunciare la violenza della teocrazia iraniana o dello Stato d’Israele; controproducente poiché un osservatore medio avrebbe buon gioco nel demolire un tale debole impianto analitico.
Allora, cos’è il fascismo? Una volta messi in guardia dall’abuso di un uso politico del termine fascismo, vediamo cos’è il fascismo. Innanzitutto, bisogna dire – poi interverrà su questo, meglio di me, il professor Canali – che è preferibile parlare di fascismi al plurale anziché di fascismo al singolare. A livello storiografico, il fenomeno viene declinato al plurale non solo in una prospettiva comparativa con i fascismi europei. Cioè: il fascismo italiano è una cosa e il fascismo tedesco – il nazionalsocialismo – è un’altra; i fascismi dell’est Europa – dall’Ungheria alla Romania – hanno, ciascuno, aspetti peculiari mentre il franchismo ne ha differenti altri (anzi, alcuni studiosi non includono il franchismo tra i regimi di tipo fascista bensì tra quelli di tipo tradizionalista, che è altra categoria). Quindi, fascismi al plurale perché tra loro sono differenti. Chiaramente, voi capite che se io ritengo inefficace la categoria unica di fascismo, non utilizzo, di conseguenza, anche quella di totalitarismo, che include addirittura i paesi staliniani o di tipo non democratico (ma in questa sede non intendo affrontare tale questione).
Ma – per riprendere il filo del discorso – ritengo che il termine «fascismi», al plurale, debba essere utilizzato anche per il fascismo italiano, in quanto ci sono stati, nel corso del tempo, differenti tipi di fascismo. Andiamo a elencarli: c’è il fascismo sansepolcrista, che va dalla primavera del 1919 alla primavera del 1920 (quindi dura un anno); c’è il fascismo squadrista, dalla metà del 1920 all’autunno 1922; c’è – dopo la marcia su Roma – il primo fascismo al potere, che inizia a sperimentare pratiche illegali affiancandole a forme di governo di tipo legalitario (quindi, di fatto, all’interno di un quadro liberale), e che va, grossomodo, dalla marcia su Roma al 1925-26; c’è il fascismo-regime, antidemocratico, totalitario e poi razzista, dal 1926 al 1943; e, infine, c’è anche un ultimo fascismo ossia il fascismo della RSI – la Repubblica Sociale Italiana – che recupera elementi del programma di San Sepolcro ed è antimonarchico (non solo perché «repubblicano» ma anche e soprattutto perché il re rovesciò Mussolini il 25 luglio del ’43). Quindi sono almeno cinque tipi di fascismo. Poi all’interno di queste fasi della storia di questa corrente politica – e soprattutto della fase del fascismo-regime – ci sono ulteriori articolazioni interne (scandite, ad esempio, dalla politica economica o da quella internazionale).
Io parlerò, di fatto, dei primi due fascismi, cioè, del fascismo sansepolcrista e di quello squadrista. E dico subito che il primo fascismo, quello sansepolcrista, personalmente non lo considero un movimento di tipo fascista vero e proprio (ossia storiograficamente inteso) ma qualcosa di diverso. Il movimento fondato da Mussolini, benché abbia in nuce qualcosa che poi si svilupperà nel senso che poi abbiamo conosciuto, è differente dal fascismo del 1920-21 in poi. Renzo De Felice, che è il maggior studioso del fascismo, lo documenta chiaramente: il fascismo del primo anno non può essere considerato tale. C’è una cesura netta, dal punto di vista politico e sociale, tra le poche centinaia di militanti che fondarono il movimento nel 1919 e le centinaia di migliaia di individui che due anni dopo aderirono in massa ai Fasci di combattimento. Anzi, molti dei primi fascisti abbandonano il fascismo tra l’estate del 1920 e quella del 1921; e una buona parte di costoro diventò antifascista, come, ad esempio, Pietro Nenni, che nel 1919 aveva fondato il Fascio di combattimento di Bologna e tre anni dopo era tra i dirigenti del Partito socialista.
Gli altri tipi di fascismo prima elencati, invece, possiamo considerarli forme di fascismo a tutti gli effetti. Vediamo ora il fascismo di tipo squadrista, ovvero lo squadrismo di tipo fascista. Allora, la premessa da fare è questa: solitamente, nel senso comune, si dà per scontato che lo squadrismo sia solo fascista, per antonomasia; non è così perché lo squadrismo è un fenomeno che nel primo dopoguerra, sia in Germania che in Italia, ma anche in altri paesi, è abbastanza diffuso. Per squadrismo, in generale (poi vedremo cos’è in particolare squadrismo fascista), intendo quella tendenza alla formazione di squadre paramilitari o corpi franchi (Freikorps, come venivano detti in Germania), da parte delle organizzazioni politiche. Una pratica normale nell’immediato dopoguerra. Qualsiasi formazione politica – tolta qualche eccezione, ovviamente – costituiva la propria organizzazione paramilitare, la propria milizia privata. E ciò non era illegale. Fino all’ottobre del 1921, con i decreti Bonomi, il modello di “difesa” si ispirava a un modello, diciamo, non giacobino ma liberale, cioè, lo Stato non aveva il monopolio delle armi. Era considerata legittima non solo la difesa individuale (come al giorno d’oggi, certo nei limiti stabiliti dalla legge) ma era ritenuta legittima anche la difesa collettiva, sul modello statunitense (il secondo emendamento, se non ricordo male, alla Costituzione americana garantisce il diritto dei cittadini all’organizzazione delle milizie). Questo era il modello… un modello molto pericoloso perché nell’immediato dopoguerra, circolavano – come potete immaginare –parecchie armi e le persone non erano più le stesse di prima. C’era stato, per l’appunto, il primo conflitto mondiale. Dobbiamo partire da questo dato di fatto: il conflitto mondiale era stato uno shock per i ragazzi che vi avevano preso parte. Nessuno, prima di partecipare alla guerra, immaginava a cosa sarebbe andato incontro (ovvero che sarebbe stata una guerra terribile che portò a un vero e proprio imbarbarimento delle coscienze). Ma la guerra fu anche una forma di politicizzazione perché per la prima volta, i contadini del meridione e i proletari del nord, intesi in senso lato (poiché gli operai di fabbrica erano in produzione e non vennero impiegati al fronte), parlano, comunicano, e cominciano a autorappresentarsi come combattenti.
E finita la guerra mondiale, molti di costoro si avvicinano alle posizioni di Mussolini, cioè colui che più di altri incarnava lo spirito del combattentismo. Come sapete, Mussolini era un ex dirigente socialista (l’ex direttore dell’«Avanti!») che aveva cambiato idea nei confronti della guerra: dall’iniziale neutralismo – che era la posizione del Partito Socialista Italiano – si convertì all’interventismo. All’inizio era per un interventismo, diciamo “cauto”, poi si schierò senza indugi a fianco delle cosiddette democrazie (Francia e Gran Bretagna) contro quelli che venivano chiamati gli «imperi militaristi», gli imperi centrali, cioè l’Austria e la Germania. Un interventismo democratico-rivoluzionario, dunque. Su questo, fate attenzione, perché in alcuni libri di storia si accomuna questo tipo di interventismo a quello nazionalista. Ciò non è corretto, perché nell’estate del 1914, quando ancora quasi tutti – incluso Mussolini – erano neutralisti, i nazionalisti erano sì per l’intervento ma a fianco dell’Austria e della Germania contro la Francia e l’Inghilterra, su posizioni “reazionarie” di irredentismo occidentale (quindi Nizza, Savoia, Corsica e via dicendo). Quando vedono che, di fatto, ci può essere un intervento in guerra ma a fianco di Francia e Gran Bretagna, ricalibrano il loro irredentismo in senso antiasburgico. Seguendo, di fatto, l’interventismo della tradizione repubblicana incarnato da Mussolini; il quale viene espulso dal Partito Socialista ed estromesso – anzi è lui a dimettersi – da direttore dell’«Avanti!». E così, nel novembre del 1914, Mussolini fonda un nuovo giornale, «Il Popolo d’Italia», che ha sede qui a Milano (come l’«Avanti!», del resto).
Durante la guerra «Il Popolo d’Italia», inizia ad autorappresentarsi, nonostante il sottotitolo rechi ancora la dicitura di «Quotidiano socialista», come un giornale, oltre che dei proletari (o meglio dei produttori, che non sono solo gli operai), dei combattenti. E infatti nel 1918 il sottotitolo del giornale di Mussolini cambia in «Quotidiano dei combattenti e dei produttori». Il combattente viene dunque individuato come soggetto sociale e politico e – sia durante il conflitto che nell’immediato dopoguerra – si parla di «trincerocrazia». Ossia che la guida della società – secondo queste linee di pensiero mussoliniane (ma non solo) – doveva spettare a coloro che avevano fatto la guerra, a chi aveva combattuto, a chi si era sacrificato per l’Italia.
Il movimento combattentista, o reducista, nel 1918-19 conosce una forte crescita. Nascono varie associazioni: nasce, innanzitutto, l’Associazione Nazionale Combattenti, ma nascono anche associazioni di ufficiali, di corpo, di specialità, e strutture di reduci con un più o meno determinato orientamento politico (cattoliche, repubblicane ma anche socialiste, quali la Lega Proletaria Mutilati Invalidi Reduci Orfani e Vedove di guerra). Accanto a questo “sentire” combattentistico, nasce anche – in realtà era nato già in guerra ed è una chiave di lettura dell’origine del fascismo – un fenomeno che viene chiamato arditismo… Quanti di voi sanno chi erano gli Arditi? Non lo sa quasi nessuno… Allora, gli arditi – dove ardito, in questo caso, non ha una valenza aggettivante (come sinonimo di coraggioso, intrepido) ma di sostantivo –erano i combattenti dei reparti d’assalto della prima guerra mondiale. Per la verità vengono fondati piuttosto tardi, nel 1917. Adesso in qualsiasi esercito a noi contemporaneo esistono i reparti d’élite, che fanno incursioni, operazioni pericolose… nel 1917, no. Dunque sul modello delle Sturmtruppen asburgiche – le truppe d’assalto speciali – vengono fondati i reparti d’assalto italiani, chiamati, per l’appunto, reparti di Arditi. Chi entra negli Arditi? Entrano sia – per impeto politico – volontari e interventisti (molti dei quali provenivano dalle fila dell’interventismo di sinistra, cioè, erano ex socialisti, ex sindacalisti rivoluzionari, ex anarchici) sia persone dedite alla delinquenza, pregiudicati per reati comuni, insomma, persone abituate alla violenza e avvezze ad usare il coltello. Anche perché, effettivamente, gli arditi effettuavano attacchi all’arma bianca: con il pugnale tra i denti, di notte, avanzavano tra le linee nemiche, arrivavano e facevano quello che, secondo loro, era il loro dovere, cioè uccidevano, squartavano, preparando così l’avanzata delle truppe che, tuttavia, spesse volte non arrivava mai. Questi erano gli arditi e il corpo degli Arditi. Corpo – o meglio, specialità – che, tra l’altro, godeva di un trattamento particolare: un rancio migliore, l’esenzione da incombenze faticose, un riconoscimento speciale, insomma… Ed erano anche mandati all’attacco con qualcosa di speciale: mentre alla truppa, prima dei combattimenti, veniva fatto bere il “cordiale” – cioè alcolici – agli arditi, prima degli assalti frontali, veniva somministrata anche cocaina (e ciò fu un problema, perché poi, nell’immediato dopoguerra, molti di questi arditi erano cocainomani). Il problema principale, tuttavia, è che finite le ostilità, con la smobilitazione, c’era una massa di combattenti ormai abituata alle pratiche di guerra e una élite – gli arditi – assuefatta a uccidere nei modi prima descritti. Possiamo dire che la violenza connaturata agli assalti frontali era entrata loro nel sangue. E quindi c’è una trasposizione (questo succede non solo in Italia ma anche in vari paesi europei) della violenza dalle trincee alla piazza, avviane cioè un inasprimento della lotta politica.
Insieme all’arditismo, un altro elemento costitutivo del primo fascismo è il dannunzianesimo politico o fiumanesimo, che dir si voglia. Fiumanesimo, dalla città di Fiume, perché Gabriele D’Annunzio con arditi e futuristi (ricordo che quest’anno cade il centesimo anniversario della nascita del futurismo) occupa militarmente Fiume nel settembre 1919. In nome di cosa la occupa? In nome di una supposta «vittoria mutilata». C’era stata la guerra, tanti sacrifici ma, a conti fatti, quasi tutta l’Istria era sotto il controllo dello Stato jugoslavo appena sorto. E ciò non andava bene sia ai nazionalisti sia agli interventisti “rivoluzionari“ che organizzano un colpo di mano su Fiume. La città di Fiume sarà conquistata, verrà proclamata una specie di repubblica, una reggenza per un anno e tre mesi… Un’impresa che, secondo alcuni analisti (io non condivido questa interpretazione) può essere letta come la prova generale della marcia su Roma. Non la condivido perché in realtà, studiando le fonti, è possibile osservare come all’interno dell’esperienza fiumana ci sia tutto e il contrario di tutto. Ci sono esperienze anarchiche, ci sono esperienze di avvicinamento, per esempio, all’Unione Sovietica: c’è un riconoscimento reciproco – dettato anche da contingenze geopolitiche – tra Unione Sovietica e reggenza del Carnaro. Quando c’è il colpo di Stato in Ungheria (che rovescia la repubblica consiliarista) Fiume accorda l’asilo politico a chi scappa dall’Ungheria. Quindi non è sicuramente un’esperienza di destra… ma le modalità dell’azione politica sono chiaramente non democratiche, extraistituzionali, su questo non ci sono dubbi. Ciò farà sì, ad esempio, che nel 1920-21 il dannunzianesimo politico tagli i ponti con Mussolini, perché Mussolini stringe un’alleanza elettorale (per le elezioni del maggio 1921) con Giolitti, ossia con colui che ha inviato le cannoniere a Fiume (e che quindi, chiaramente, non poteva essere ben visto dai dannunziani). Ma c’è di più: molti dannunziani confluiranno nella prima esperienza armata di resistenza al fascismo che sono gli Arditi del Popolo. Quindi, tutti questi elementi fanno sì che nel primo dopoguerra, siamo nel 1919, inizio 1919, qui a Milano ma anche nel resto d’Italia, ci sia un movimento – un partito ancora non lo possiamo definire – che ha come idealità politiche, ed è pronto a difenderle con la violenza queste idealità, la guerra combattuta e tutto ciò che vi era di contorno: quindi l’interventismo, il volontarismo, il patriottismo. Ovviamente, il nemico naturale di chi era stato interventista e si considerava un patriota era chi, al contrario, era stato neutralista e si considerava internazionalista. I neutralisti e gli internazionalisti in Italia avevano un nome: era il Partito socialista, che nel 1919 viene individuato da questa area magmatica (arditi, ex combattenti su posizioni patriottiche, mussoliniani) come il nemico. E, difatti, abbiamo la prima spedizione punitiva, prima della nascita dello squadrismo, molti mesi prima. Questa grave spedizione punitiva avviene, qui a Milano, il 15 aprile del 1919 in via San Damiano, dove c’era la redazione dell’«Avanti!». La redazione del giornale viene assaltata e devastata. Gli arditi, principalmente, e i futuristi (c’era anche Filippo Tommaso Marinetti in quest’azione) assaltano un corteo di anarchici e poi danno l’assalto a San Damiano, entrano dentro la redazione de l’«Avanti!», buttano i mobili nel Naviglio e poi bruciano la sede della redazione. Ci sono anche alcuni morti… perché anche da parte socialista si sparava, si resisteva, perché c’era una sorta di guardia armata alla redazione. Nemmeno un mese prima, il 23 marzo, era stato fondato, qui a Milano, in piazza San Sepolcro, il primo Fascio di combattimento. I Fasci italiani di combattimento raccolgono questo eterogeneo movimento interventista: ex socialisti, ex repubblicani, ex anarchici, ex sindacalisti rivoluzionari, con un programma definibile “democratico-giacobino”: repubblica, tassazione progressiva, abolizione dei privilegi per la nobiltà, assemblea costituente, pari diritti tra uomo e donna, quindi, di fatto, un programma genericamente democratico. Tuttavia, la prassi per giungere alla realizzazione di questo programma non era di tipo democratico. E questo metodo di agire politico, poi, prevarrà sui contenuti e darà avvio a quello che chiamiamo fascismo vero proprio. Prevarrà, anche perché già un anno dopo il varo del programma di San Sepolcro, esso viene messo in secondo piano, dimenticato, anzi, di fatto stracciato. C’è un bellissimo film di tanti anni fa che è La Marcia su Roma, con Tognazzi e Gassmann che stanno andando a Roma per fare la “marcia” e man mano che procedono sono costretti – constatando che la realtà era appunto differente (privilegi e amicizia verso la nobiltà, ecc.) – a cancellare, via via, tutti i punti del programma di San Sepolcro. Tant’è che a Roma non ci arrivano, anzi a Orte tornano indietro… Consiglio di vederlo, è un film in bianco e nero degli anni Sessanta, diretto da Dino Risi. Riprendendo il nostro discorso, la lotta al bolscevismo e al PSI diventa nel 1919 un elemento costitutivo del primo fascismo. Ma siamo su un piano ideale, lo sottolineo, perché la carica aggressiva, violenta – sia chiaro ingiustificabile – è comunque fomentata da qualcosa di ideale, cioè, dal patriottismo interventista. Tra il 1919 e il 1920, invece, si fa largo l’altro elemento: l’interesse di classe (la salvaguardia degli interessi dei ceti proprietari). È qui la novità; ed è qui che avviene l’exploit del fascismo, altrimenti sarebbe stato una delle tante strutture (leghe, associazioni, movimenti) di ex interventisti. Nel 1919-20 c’è il cosiddetto biennio rosso: c’è un’offensiva, possiamo anche vedere in che forma e in che modi, del movimento operaio, che organizza una serie di scioperi, agitazioni, rivendicazioni, richieste… Questo sia con pretese rivoluzionarie che riformiste. Anzi, quelle che preoccupano più una certa borghesia agrario-industriale, sono le pretese riformistiche; ad esempio, nelle zone dell’Emilia Romagna, dove era forte il movimento socialista (partito, sindacato e cooperativismo), questo riesce a imporre l’imponibile di manodopera e ad essere concorrenziale, nella sfera della distribuzione (attraverso le cooperative di consumo, le coop), con gli imprenditori agrari. Di fatto, i capi-lega diventano i “padroni” della situazione. Questo, comprensibilmente, crea un grande disagio: enormi perdite a livello economico, quindi la “grande paura” da parte dei proprietari terrieri, paura tra l’altro, che viene alimentata dal “pericolo”, quello che loro percepivano come “pericolo”, della rivoluzione. La rivoluzione, nell’Italia del 1919-20, era solo una teoria che veniva agitata… Nel 1917, in Russia, invece la rivoluzione c’era stata… quindi nel 1920 esisteva uno Stato che ormai era in piedi da più di due anni e a cui si faceva riferimento. Gli slogan ricorrenti, soprattutto agitati dal Partito socialista, era «fare come in Russia». Il Partito socialista, che era retto dai massimalisti (da una corrente che viene chiamata massimalista), ha agitato lo spauracchio della rivoluzione ma non l’ha organizzata, e questo è risultato molto pericoloso. È come andare di fronte a una gang di malavitosi con la pistola finta e dire: «Guardate che vi sparo»… loro, penso, non ci mettono due secondi a tirarla fuori e a sparare. Chi infatti ricorreva anche all’uso della violenza politica, mi riferisco al ceto proprietario (per esempio anche in epoca giolittiana c’era un forte ricorso ai “mazzieri” per imporre l’ordine quando i lavoratori scioperavano), che cosa fa? Utilizza questo “esercito” (questo “esercito” di arditi, futuristi, ma soprattutto il nascente movimento fascista) come propria forza paramilitare. In tale contesto avviene la crescita impetuosa del movimento fascista… E, non a caso, è in questo frangente – nel marzo del ’20 – che D’Annunzio abbandona il fascismo, bollandolo come “schiavismo agrario” (cioè finanziato dagli agrari) e il Movimento fascista-sansepolcrista cambia radicalmente pelle. I vari Nenni, i vari Bergamo se ne vanno e entra una marea di persone “nuove”, soprattutto giovani; giovani dai sedici ai vent’anni, che quindi non avevano fatto la guerra ma erano cresciuti nella loro adolescenza col mito della guerra e imitavano appunto i compagni un po’ più grandi. I giovani di quale estrazione? Studenti, in primo luogo. Gli studenti non avevano un’estrazione sociale composita, eterogenea, come al giorno d’oggi; dire studente delle scuole superiori nel 1921, significava dire ceto medio o piccola borghesia. Insomma, gli studenti che facevano i licei, raramente provenivano dalla classe operaia. Quindi erano i figli della media borghesia, di fatto, non solo degli industriali, perché gli industriali erano pochissimi. Figli del ceto medio che si organizzano a livello politico-militare contro i “rossi” (in primo luogo i socialisti, ma anche gli anarchici e i repubblicani), percepiti come controparte. In ciò gli errori commessi dal Partito Socialista sono tantissimi: c’è stata contrapposizione (anche se parziale) con i combattenti, contrapposizione con gli studenti… I giovani, di fatto, sono stati spinti a fare blocco contro i socialisti e i loro alleati. Per dirvi le cifre (all’incirca): il movimento fascista nel 1919-20 contava appena qualche migliaio di aderenti; nel 1921, in marzo, ne ha 80 mila, in aprile ne ha quasi 100 mila, a maggio ne ha quasi 200 mila… La progressione è incredibile. Quando si costituisce il Partito, nel novembre 1921, sono 322 mila iscritti. Ora, noi possiamo anche supporre – come ogni storico dovrebbe fare in questi casi – che queste cifre ufficiali siano gonfiate, però, di fatto, esse sono sostanzialmente confermate dalle cifre forniteci dagli studi di De Felice (basati sulle fonti di polizia). Anche decurtandole in termini percentuali, è indubbio che, dal 1920 al 1921, ci sia stata una crescita esponenziale degli iscritti. E ciò, lo ripeto, fa cambiare pelle al fascismo. Sono giovani, abbiamo detto essenzialmente provenienti dal «blocco d’ordine», quindi ex liberali, monarchici, clericali.. Avviene dunque la trasformazione del fascismo da forza decisamente anticlericale e repubblicana a forza «tendenzialmente» anticlericale e repubblicana, per poi concludere l’iter della trasformazione diventando quella forza politica che accetterà la monarchia e concluderà i Patti lateranensi con la Chiesa. Però ci sono anche ex sovversivi, questo non lo si può negare. Ex sindacalisti rivoluzionari, ex esponenti del movimento sindacale bracciantile, ex socialisti, ex anarchici…. Alcune erano persone disposte a menare le mani e a salire sul carro del vincitore, perché vedevano che dall’altra parte (quella rivoluzionaria o riformista) si parlava tanto ma non si faceva nulla… Se nel “biennio rosso” – sono dati documentabili – questi soggetti avevano partecipato alle agitazioni seguendo gli anarchici e i socialisti, nel 1921-22 li troviamo nel movimento fascista. Quindi c’è anche una nuova leva fascista che viene reclutata dalle organizzazioni della sinistra. Certamente minoritaria rispetto ai giovani provenienti dal «blocco d’ordine» e che, chiaramente, poi non influirà sulla definizione del programma politico fascista, che sarà un programma sempre più orientato a destra. Cosa organizza questo fascismo trasformatosi da movimento democratico-giacobino a forza armata al servizio dei grandi industriali? Organizza violenze politiche. Violenze politiche nei confronti di cattolici, socialisti, comunisti – nel frattempo era stato fondato il partito comunista – anarchici ma anche sindacalisti rivoluzionari e finanche nazionalisti. La spedizione punitiva consisteva nel partire, preferibilmente un sabato o una domenica, con i camion da un luogo concentrarsi, andare in un altro e distruggere tutto ciò che era in possesso dell’avversario. Distruggere camere del lavoro, che erano appunto le sedi sindacali, circoli ricreativi, sedi di partito e via dicendo. Facendo violenze efferate, uccidendo persone… sull’ascesa del fascismo c’è un bel film che vi consiglio di vedere, Novecento di Bernardo Bertolucci, un film che rende bene l’idea su che tipo di violenze commettessero i fascisti, dall’olio di ricino (cioè venivano costrette persone a ingurgitare olio di ricino, quindi a subire umiliazioni e violenze fisiche) alle uccisioni. I fascisti giustificavano questo ricorso alla violenza asserendo che era una violenza in risposta all’aggressività dei “rossi”. Ma le cose non erano proprio così… C’è, a riguardo, un giudizio di Gaetano Salvemini – che era un intellettuale italiano interventista, poi decisamente un democratico e un antifascista – molto interessante. In una delle lezioni tenute negli anni Trenta alla Harvard University, Salvemini – che non era certamente tacciabile di filobolscevismo – ammette che quella fascista fosse una violenza sorte anche per reazione alle agitazioni del “biennio rosso”, ma quella fascista era una violenza asimmetrica, cioè qualcosa di enormemente più vasto, come ampiezza e come brutalità. Vi leggo solo questo piccolo passo: «Nel corso dei due anni della loro “tirannia” i “bolscevichi” non devastarono neppure una volta l’ufficio di un’associazione degli industriali, degli agrari o dei commercianti; non obbligarono mai con la forza alle dimissioni nessuna amministrazione controllata dai partiti conservatori; non bruciarono neppure una tipografia di un giornale; non saccheggiarono mai una sola casa di un avversario politico. Tali atti di “eroismo” furono introdotti nella vita italiana dagli “antibolscevichi”. Inoltre va notato che mentre i delitti commessi dai “bolscevichi” negli anni 1919-20 furono quasi sempre compiuti da folle eccitate, le “eroiche” imprese degli “antibolscevichi” troppo spesso furono preparate e condotte a sangue freddo da appartenenti a quei ceti benestanti che hanno la pretesa di essere i custodi della civiltà». Questa forte appartenenza, diciamo di classe, la percezione di una dinamica classe contro classe (cioè ceti benestanti contro proletari e nullatenenti), c’è ed è una chiave interpretativa del fascismo squadrista. Questo primo fascismo non insiste tanto sul discorso ideologico contro la democrazia, insiste sul discorso dell’appartenenza di classe, della salvaguardia degli interessi dei ceti medi e di quelle forze che venivano definite «forze vive della nazione». Su questo, trova una perfetta sponda nello Stato, lo Stato liberale purtroppo (anche se il termine liberale può creare confusione), insomma nello Stato prefascista – chiamiamolo così – che, di fatto, era uno Stato fortemente elitario (Mussolini sarà il primo presidente del Consiglio di estrazione “popolare”). Le forze di polizia spalleggiano i fascisti nelle spedizioni punitive. La magistratura si comporta allo stesso modo: manda assolti i fascisti e commina dure condanne agli antifascisti (soprattutto socialisti e anarchici), argomentando che le due violenze non sono equiparabili: poiché gli uni commettono atti comunque deprecabili in nome della patria e della nazione (e, dunque, al fine di consolidare l’ordine), mentre gli altri li commettono per la sovversione, in nome della rivoluzione. Quindi, secondo questa logica, per la Magistratura era lecito non usare gli stessi pesi e le stesse misure. Ma anche gli organi di governo si muovono in modo asimmetrico… Bonomi, quando arriva nel 1921 al governo del paese, tenta un patto di pacificazione e parallelamente cerca di smantellare lo squadrismo. Ma quale squadrismo? I decreti cui ho fatto riferimento all’inizio, di fatto, colpiscono principalmente lo squadrismo antifascista, perché il fascismo ricorre ad un escamotage. Nell’ottobre del ’21 vengono vietate tutte le squadre paramilitari, quindi il monopolio delle armi è dello Stato. Nessuno può organizzare formazioni paramilitari. Quindi vengono sciolte varie formazioni: i nazionalisti avevano le loro squadre, le camicie azzurre, i liberali avevano le Squadre Cavour (le camicie kaki), gli autonomisti di Lussu avevano le camicie grigie, i repubblicani le camicie rosse…. E, appunto, le camicie nere fasciste… Il segretario del Partito nazionale fascista, Michele Bianchi, dirama una circolare che dice, all’incirca: «Automaticamente, tutti gli appartenenti alle squadre di combattimento sono appartenenti al partito e tutti gli appartenenti al partito fanno parte delle squadre. Quindi, se volete sciogliere le squadre armate, dovete assumervi la responsabilità di sciogliere il partito fascista» (come detto, nel frattempo i Fasci italiani di combattimento si erano costituiti in partito, nel novembre del ’21). Lo Stato liberale non si assume questa responsabilità e quindi le uniche squadre legali sono le squadre del partito fascista, il quale poi straccerà il patto di pacificazione, per poi continuare, a fasi alterne, con le sue scorribande. Nel frattempo, si era costituita l’associazione paramilitare antifascista degli Arditi del popolo e questo preoccupava alquanto Bonomi, il quale, dopo l’iniziale indifferenza (funzionale per costringere i fascisti a siglare il patto di pacificazione), reprime inesorabilmente questa struttura. L’Associazione degli Arditi del popolo è la formazione paramilitare antifascista accennata in precedenza, organizzata da quella parte di arditi che ruppe, nel giugno del 1921, con la componente minoritaria dell’associazione arditistica (su posizioni filofasciste) e anche con quella maggioritaria che era, sostanzialmente, afascista (cioè si collocava in una posizione di mezzo tra fascisti e antifascisti). Tale struttura associativa, nel giro di pochissimi giorni, riesce a raccogliere 20 mila iscritti, inquadrati in 150 sezioni (dislocate soprattutto nelle zone colpite dallo squadrismo). Gli Arditi del popolo riuscirono a sconfiggere i fascisti sul loro terreno. In alcuni scontri armati (come a Viterbo e a Sarzana) riuscirono a respingere le camicie nere… Di fatto, costrinsero Mussolini a firmare il patto di pacificazione. Questo provocò una rottura – sto semplificando molto – all’interno del fascismo tra i ras, (che erano i vari capi, a livello locale, dello squadrismo agrario, una componente presente in Emilia Romagna, in Puglia e in alcune altre zone di Italia) e il fascismo cosiddetto urbano. Il fascismo, poi, riesce a ricomporre questa frattura interna. Anche perché, nel frattempo, gli Arditi del popolo erano stati smantellati dall’azione congiunta di governo e magistratura. Paradossalmente, le istituzioni liberali danno un colpo mortale alla prima organizzazione antifascista della storia… perché, è vero, erano antifascisti anche i popolari, i comunisti e i socialisti ma erano qualcosa di altro (cioè non si caratterizzavano solo come antifascisti). Come organizzazione antifascista gli Arditi del Popolo sono i primi… e non è un caso che dopo l’8 settembre 1943 le prime formazioni (il 9 settembre a Roma o i gruppi di Lelio Basso, per esempio qui a Milano) non si chiamino, inizialmente, partigiani ma Arditi del popolo, perché il precedente storico era quello. Tornando agli Arditi del popolo del 1921, essi sopravvivono – a livello illegale – per circa un anno, balzando agli onori della cronaca nell’agosto del 1922 nel tentativo disperato – nei giorni dello “sciopero legalitario” indetto dai socialisti e da un ampio schieramento di forze democratiche – di tutelare gli spazi di agibilità democraica dagli assalti fascisti Questi ultimi intervengono militarmente per portare, secondo loro, l’ordine e disintegrano quasi tutte le strutture del movimento operaio. Solo in pochissime realtà si organizzò la resistenza alle camicie nere: ci furono combattimenti qui a Milano (poi tutto finì a Palazzo Marino con un discorso ambiguo di D’Annunzio), forti combattimenti a Livorno, a Civitavecchia, a Bari (dove grazie agli Arditi del Popolo i fascisti non passarono) e soprattutto a Parma. In questa città, dopo quattro giornate di combattimenti, Italo Balbo – il Ras di Ferrara che aveva guidato la spedizione – non riuscì a espugnare la città (e non è casuale che la memoria delle barricate del 1922 e degli Arditi del popolo sia a Parma molto presente). In ogni modo, le giornate dell’agosto 1922 vengono considerate, da molti, la prova generale della Marcia su Roma. Dopo gli avvenimenti di quei giorni si rafforzò quell’alleanza tra fascismo e poteri forti (intendendo per poteri forti, nella fattispecie, industriali, agrari, come abbiamo visto, ma anche la Corona e il Vaticano), che, di fatto, diedero il via libera a Mussolini, il quale aveva inscenato una prova di forza fittizia e non effettiva… Mussolini arriva al potere attraverso un incarico regolare (anche questo ci deve far riflettere…) e ottiene la fiducia del parlamento e il primo gabinetto è un gabinetto di coalizione dove stanno anche i deputati liberali e i popolari. Il fatto di una forza politica che sale al potere attraverso il ricorso alla violenza ma in ogni modo legalmente, lo rivediamo, purtroppo, anche 10-11 anni dopo in Germania con l’ascesa del nazionalsocialismo che conquista lo Stato attraverso le elezioni, dunque attraverso metodi legali e utilizzando gli spazi offerti dalla democrazia. Poi, una volta giunti al potere, la loro azione politica cambia di segno e, anche per non lasciare spazi agli avversari, annullano subito tutti i diritti democratici.