Dalla stampa quotidiana
Nella gelida sera di lunedì 30 gennaio 1933 settecentomila berlinesi si radunarono attorno al Reichstag per salutare, con una fiaccolata, la nomina di Adolf Hitler a Cancelliere. In uno sventolio di bandiere la folla cantava gli inni dell’esercito imperiale e dei Corpi Franchi del dopoguerra, spesso soffocati dal coro possente dell’Horst Wessel Lied nazista. Dalla porta di Brandeburgo un corteo di ex combattenti e di giovani – che impugnavano torce a vento – fendeva la moltitudine e guidato dalle SA, i reparti paramilitari hitleriani, si snodava verso il Tiergartien e la Kürfurstendamm.
Alle 22 la fiaccolata sfilò sotto le finestre della Wilhelmstrasse. Dal balcone della Cancelleria, in marsina e cravatta bianca, Hitler salutava col braccio teso. Nel palazzo accanto, Hindenburg s’era affacciato al terrazzo del salone Bismark e, agitando ritmicamente il bastone di maresciallo, accompagnava il canto solenne del Deutschland über alles. L’ottantaseienne presidente della Repubblica di Weimar era ormai senescente; alla vista della folla incolonnata si chinò verso il segretario di Stato, Otto Meissner, e scambiandolo per il suo antico capo di Stato Maggiore in guerra, momorò: “Caro Ludendörff, non credevo che avessimo fatto tanti prigionieri russi”.
In questo scenario, mezzo secolo fa, al Cancelliere Hitler bastano diciotto mesi per conquistare il potere assoluto perché, con la morte di Hindenburg (agosto ’34), diventa Führer e capo dello Stato. La spinta nella scalata alla dittatura gli viene dalla crisi economica mondiale del ’29 col crollo di Wall Street: la vita della Germania è paralizzata, le banche falliscono, le industrie chiudono, il commercio si ferma, i disoccupati sono milioni. Hitler e il suo piccolo partito (800 mila voti nel 1928) attendevano proprio questo momento per promettere ai tedeschi affamati e disperati che un governo nazionalsocialista darà lavoro a tutti, buoni guadagni ai commercianti e prezzi equi ai contadini, straccerà il trattato di Versailles, non pagherà le riparazioni di guerra. Grazie a questo programma, alle elezioni politiche del settembre 1930 i nazisti ottengono sei milioni e mezzo di voti e 107 seggi al Reichstag, diventando il secondo partito della Germania, dopo i socialdemocratici.
L’incredibile successo induce Hitler, nella primavera ’32, a sfidare Hindengburg – il vincitore di Tannenberg e dei Laghi Masuri – nella corsa alla presidenza della Repubblica. Malgrado riesca a raddoppiare il suo precedente record elettorale con oltre 13 milioni di voti, Hitler ha la peggio (e quella sera Göbbels, leggendo i risultati piange): il maresciallo viene rieletto con la schiacciante maggioranza di 19 milioni e mezzo di voti (il 5,3 per cento) mentre i restanti quattro milini vanno al candidato comunista, Ernst Thälmann.
Sconfitto ma non domo, Hitler cerca invano il successo decisivo in due elezioni al Reichstag: nella prima ottiene 14 milioni di voti e 280 deputati, nell’altra perde due milioni di suffragi e 34 seggi. A Natale, sconsolato, Göbbels scrive nel diario: “Quest’anno ci ha portato solo disgrazie ( … ). Il passato è stato triste e l’avvenire appare fosco e confuso; tutte le speranze e le occasioni se ne sono andate”.
UN GENERALE
Che fare? La repubblica tedesca sembra aver compiuto il proprio tempo. I socialdemocratici sono in calo e divisi, i comunisti troppo deboli mentre i reazionari della vecchia scuola – l’aristocrazia prussiana, la grande industria, l’esercito – hanno, assunto il vero controllo sotterraneo del Paese: nel maggio del ’32 hanno persuaso Hindenburg a cacciare Brüning dal posto di Cancelliere e a nominare von Papen ma questi, non riuscendo a trovare appoggio in seno al Reichstag, ha dovuto rinunciare alla carica a favore di von Schleicher, il solo generale mai investito di tanta autorità a eccezione di von Caprivi.
Franz von Papen, nobile della Vestfalia e acceso conservatore, è un ex ufficiale e ex diplomatico radiato persino dal proprio partito, i cattolici del Centro: André Franois-Poncet, in Souvenirs d’une ambassade à Berlin, lo descrive “superficiale, sciocco, falso, ambizioso, vanesio e furbo”. Kurt von Schleicher, generale della “Reichswhr Nera”, è invece l’uorno dell’esercito; appartiene a una antica famiglia brandeburghese e lo storico Wheeler-Bennet lo definirà “privo di scrupoli, fanfarone, infedele” e come dice il suo nome in tedesco, intrigante.
Malgrado le rivalità di casta, le antipatie personali e la differenza di opinioni, Papen e Schleicher hanno in comune uno scopo: desiderano seppellire la Repubblica di Weimar e restaurare la dinastia degli Holienzollern. Poichè (fino a un certo punto) questi sono anche i suoi obiettivi, Hitler decide di scegliersi un alleato: il 4 gennaio ’33, nel corso di un incontro segreto nella casa del banchiere Schröder a Colonia, il Führer e Papen si accordano per far cadere il Gabinetto Schleicher e dar vita a un nuovo governo, presieduto da Hitler, sì, ma costituito dai seguaci di Papen.
Anche se al vertice di Colonia seguiranno altri e complessi mercanteggiamenti, il primo passo è stato fatto. Hitler si libera dell’opposizione interna di Strasser, poi volge la propria strategia a ottenere il consenso di Hindenburg che lo ha sempre osteggiato e chiamato, con disprezzo, “quel caporale austriaco” (o boemo).
Il 22 gennaio ’33, nella casa di Ribbentrop a Dahlem, sobborgo elegante di Berlino, Hitler incontra il figlio del presidente della repubblica Oskar, e in un colloquio a quattr’occhi gli dice, minaccioso, che se il padre si opporrà alla sua nomina a Cancelliere i nazisti lo trascineranno in uno scandalo legato alle proprietà terriere degli Hindenburg nella Prussia Orientale. Nessuno assiste alla conversazione; tuttavia Oskar, rientrando alla Wilhelmstrasse, si confila con Meissner: “Non posso fare nulla; i nazisti debbono
entrare nel governo”.
Nelle stesse ore Papen, anche per spirito di vendetta, convince il vecchio Hindenburg a negare a von Schleicher – che non è riuscito a formare una maggioranza – il consenso allo scioglimento del Reichstag e a governare con poteri di emergenza, obbligandolo così alle dimissioni. Ormai la dissoluzione di Weimar è vicina.
Nell’altalena degli intrighi Papen cerca, in segreto, un’intesa con i nazionalisti e con Hugenberg per lasciax fuori all’ultimo momento Hitler – del quale vuole il peso nel Reichstag ma teme l’invadenza -; recede, però, quando si sparge la voce che Schleicher – progetta un putsch a Berlino con l’arresto dei due Hindenburg. Nell’attesa frenetica di questo mese decisivo, i nazisti – per ridare un’immagine di forza al partito – si lanciano nelle elezioni del minuscolo Stato di Lippe (90 mila elettori), dove riescono a conquistare la maggioranza che possono sbandierare attraverso la radio e i giornali di Göbbels, come “una nuova grande vittoria nazista”.
L’esercito che rimane il pilastro fondamentale della Repubblica e rappresenta ancora « uno Stato nello Stato », potrebbe intervenire, ma lo trattiene il suo vero capo, Hindenburg: il maresciallo, pressato da Papen e dai collaboratori più intimi, timoroso di scandali che lo farebbero precipitare dal piedistallo di eroe nazionale e prendendo sul serio i risultati elettorali dei nazisti nel Lippe, finisce per accettare l’idea di affidare il governo a Hitler, tramite Papen.
Nel nuovo gabinetto solo tre degli undici ministeri vanno ai nazisti e, fatta eccezione per quello di Cancelliere, sono di secondaria importanza: l’Interno (che non ha alcun potere sulla polizia) a Frick e un ministero senza portafoglio a Göring. Alle 11,20 del 30 gennaio, mentre la nuova coalizione è nello studio di Hindenburg per giurare, dalle finestre di un vicino albergo, il « Kaiserhof », Göbbels punta un binocolo sulla porta della Cancelleria dalla quale Hitler dovrà uscire: “Appena lo vidi apparire a mezzogiorno, racconterà poi, capii che avevamo vinto. I suoi occhi erano pieni di lacrime”.
L’ERRORE
Von Papen, vice Cancelliere, pensa che Hitler, grancassa di provata fama, farà l’imbonitore del circo al quale è stato associato; il suo nome figurerà al primo posto nel cartellone ma le vere decisioni saranno adottate da altri: “Ormai l’Adolf è legato al nostro carro”, confida a Hugenberg. Poche delusioni al mondo saranno pronte e totali come la sua. Ma non è l’unico.
Anche un uomo di cultura, Thomas Mann, commentando la nomina di Hitler prende un abbaglio: “Meglio così, dice. Non durerà neppure otto mesi”. E’ un estremista di destra, il principe bavarese Hubertus zu Löwenstein, capo della « Reichsbanner » di Berlino, a predire involontariamente il futuro: “Camerati, grida ai compagni del suo gruppo, avete capito o no che con questo 30 gennaio la seconda guerra mondiale comincia oggi?”.
GIUSEPPE MAYDA
(La Stampa 28-1-83)