Testimonianze
Da giorni giacevamo in un tetro sotterraneo delle carceri del Coroneo a Trieste: la cella della morte”. Era la riserva” di ostaggi a immediata disposizione del comando tedesco della piazza per le rappresaglie agli attentati e sabotaggi dei gruppi di azione partigiana.
In quella cella, stipatissimi, eravamo circa in cento tra italiani e sloveni; rastrellati, quest’ultimi, nei paesi a nord di Trieste. C’era con loro anche un giovane prete che a suon di campane aveva dato il segnale della scorreria tedesca.
Noi proveniamo dalle carceri di Fiume. Era l’aprile del 1944.
Una notte le SS spalancarono la porta della cella e chiamarono uno dopo l’altro cinquanta compagni. Uno di questi che tardava a presentarsi, perchè non aveva ancora calzato gli stivali, si sentì gridare in faccia: Dove vai tu, gli stivali non servono”..
Capimmo e ammutolimmo. Il prete si appartò in un angolo della cella per raccogliersi in preghiera.
Li rivedemmo tutti cinquanta, assieme a cinque giovani donne, cinque partigiane, appesi con il filo di ferro alle ringhiere delle scale di un palazzo. Per un feroce eccesso di zelo il comandante della piazza aveva fatto trucidare anche le cinque partigiane come sovrapprezzo ” alla regola” dei dieci per uno; sebbene i tedeschi uccisi da una bomba dei G.A.P. – in Via Ghega a Trieste – fossero cinque.
Rivedemmo penzolanti quei compagni mentre le SS ci scortavano allo scalo ferroviario per deportarci a Dachau. Vollero farci assitere con fini intimidatori a quel tragico spettacolo, premonitore della nostra sorte.
IGNARI DEL FUTURO
Tragico fu anche il viaggio verso Dachau. La prima notte ci fu un morto nel nostro vagone. Era il più anziano di noi tutti: un collasso cardiaco l’aveva stroncato. Il suo cadavere rimase sulla grigia massicciata di una stazioncina austriaca, dopo essere stato scaraventato giù dal carro bestiame dalle SS.
Eravamo ignari dei futuro che ci attendeva, ma l’arrivo a Dachau fu per noi una liberazione dagli incubi che ci avevano tormentato prima e dopo la feroce uccisione e impiccagione dei compagni.
In quei frangenti non era davvero poca cosa godere del privilegio “» di essere ancora vivi!
Giungemmo in quel luogo di morte il 27 aprile 1944 mentre nevicava.
Sostammo a lungo di fianco all’entrata del campo. Avevano la precedenza colonne interminabili di zebrati” che, scortati da SS e cani poliziotto ritornavano dai turni di lavoro notturno dalle adiacenti fabbriche di materiale bellico e dalle stazioni ferroviarie di Monaco e dintorni, sconvolte dai bombardamenti aerei angloamericani.
Nell’attesa, sotto il nevischio, il nostro sguardo spaziava attonito, inorridito. Scorgevamo le cupe torrette di vigilanza che si ergevano ai bordi del campo con le mitragliatrici puntate verso l’interno, preresidiate da militari in assetto di guerra; notammo, subito le fitte ed invalicabili recinzioni di filo spinato su cui rilucevano i bianchi isolatori dei fili dell’alta tensione, le file di baracche in esasperata successione ed avvertimmo ad un tratto anche l’acre odore del fumo che aleggiava sul campo e che usciva dai camini del crematorio.
Avevamo nella mente l’incubo di corpi martoriati di deportati, ingoiati e dissolti nella nottata…
Dopo quel terrificante giro d’orizzonte il nostro stato d’animo, già scosso, giunse all’acne del parossismo quando leggemmo l’infame ed ipocrita scritta all’ingresso del campo.
AMARE RIFLESSIONI
Le macabre visioni del campo ci avevano già confermato quanto fosse subdola e mistificante quella scritta; ce l’avevano ribadito quelle mute e allucinanti teorie di zebrati” a cui soltanto il ritmico calpestio degli zoccoli dava un guizzo di vita.
Era dunque così che il lavoro rendeva liberi?
Le nostre amare riflessioni vennero interrotte da una delle SS che ci scortava. Invitato a farci proseguire verso l’interno, del campo, così ci annunciò: Dreihundertachtundneunzieg Stueck, cio,è 398 pezzi”!
E noi, i pezzi”, venimmo allora condotti negli uffici amministrativi ” dove ebbe luogo la nostra completa spogliazione e dove ebbe inizio il processo di distruzione della nostra personalità.
Qui venimmo derubati di ogni nostro indumento, di ogni nostro oggetto di valore. Ci fecero spalancare la bocca, fino a farci slogare le mascelle, per inventariare protesi e dentiere d’oro, diligentemente catalogate da un addetto ai lavori. Perquisirono i portafogli già ritiratici e tutte le tasche dei nostri abiti; poi assunsero le generalità che dichiaravamo controllando se corrispondevano ai documenti trovati nei portafogli.
Nudi come vermi, sotto il pungente nevischio, fummo cacciati in un vastissimo locale attrezzato a docce, capace di contenere molte centinaia di deportati; docce, queste, che secondo le testimonianze dei veterani del campo, avevano emesso anche gas venefici per sterminare intere comunità di zingari e di ebrei.
In quel locale russi e polacchi zebrati” erano adibiti a raderci a zero capelli e tutti i peli del nostro corpo; altri deportati pennellavano con l’acido fenico le nostre parti rase. Poi a spintoni e pedate, ammucchiati, ci fecero andare sotto le docce che anziché acqua calda emettevano acqua gelida.
Intirizziti dal freddo, semiustionati dall’effetto irritante dell’acido fenico, sempre nudi sotto la neve, venimmo condotti a passo di corsa davanti al magazzino del vestiario.
LA TRAGICA MASCHERATA
Erano solo parvenze di vestiario; null’altro che cenci, che – però – secondo le minacciose prediche dei Kapo” dovevamo conservare con la massima cura per l’intera quarantena; ultimata la quale saremmo stati gratificati della divisa zebrata dei lavoratori.
Dovevamo infilare quegli stracci da macero a mano a mano che ce li scagliavano ai piedi.
Erano mutande logore, militari e civili, anche da donna, ridotte ad autentiche ragnatele; camicie lise e a brandelli, mancanti di una o tutte e due le maniche; pantaloni lunghi e corti di tutte le taglie, civili e militari, di tutti gli eserciti del mondo, con vistose toppe di tutti i colori, mancanti in tutto o in parte dei gambali; giacche d’ogni tipo, private completamente o in parte delle maniche.
Quel corredo da autentici straccioni ci veniva completato con copricapi di tutte le fogge, dai chepì ai fez da bersagliere, dai baschi ai cappelli a larga tesa dei soldati australiani e neozelandesi e – infine – da zoccoli dalle suole consunte, per lo più spaiati, dalle tomaie di tela sfilacciata, privi di lacci.
Era questo il ciarpame assegnatoci in cambio dei nostri dignitosi abiti civili.
SOLO UN NUMERO
Dopo l’umiliazione subita con la vestizione ci vennero assegnati numeri di matricola del campo.
Così ognuno di noi diventò solo un numero; nient’altro che un numero da scolpire nella memoria, da saper intendere e pronunciare in tedesco, per presentarsi davanti al Kapo” e al cospetto delle SS magari per ricevere ceffoni e pedate senza alcun motivo.
Davanti al Block” assegnatoci, conciati a quel modo, stentavamo a riconoscerci tra amici e compagni di viaggio, tanto il nostro aspetto risultava mutato e ridicolo. Risate isteriche uscivano dalle nostre bocche quando i nostri sguardi esterrefatti s’incrociavano e si soffermavano sul nostro miserabile abbigliamento.
Nel bailamme” che s’era creato, nonostante lo sbraitare dei Kapo “, ci accorgemmo di essere diventati, nostro malgrado, i protagonisti di una grottesca e tragica mascherata.
Ed era appena l’umiliazione iniziale che secondo le efferate programmazioni naziste preludeva all’annullamento completo delle nostre personalità.
FERRRRUCCIO DERENZINI