Auschwitz

Ci alziamo dalla Malpensa con il sole. Ci lascerà passato le Alpi. Varsavia ci appare, sotto una coltre di nubi dense di pioggia, solo al momento di toccare terra. Freddo intenso alla stazione ferroviaria in attesa del treno per Cracovia. Il clima ben raffigura il nostro stato d’animo nell’avvicinarci al momento cruciale del viaggio. Domani mattina saremo ad Auschwitz.
In treno cominciamo a conoscerei. Un padre assorto con una giovane figlia, un assessore leghista, un sindaco progressista, padre e figlio ebrei, alcuni partigiani: una delegazione, quella italiana, emblematica della composizione sociale del nostro Paese. Ed ognuno con un’attesa, con un’idea di Auschwitz,con una propria tensione. Quali saranno le reazioni, cosa ad ognuno il più famoso campo di sterminio trasmetterà? Quale bagaglio di ragione e di emozione riporteremo in Italia?
Passa la notte ed eccoci diretti al campo. A qualcuno tornano alla mente le parole di Levi e il suo ricordare il paesaggio polacco, intriso dall’odore del carbone. Avvicinandoci parliamo di ciò che Auschwitz è stato, di chi è stato sterminato, del perché non si può e non sì deve dimenticare. Ed eccoci.
Rispettiamo quel tanto di necessaria ritualità e, con in testa la corona in onore delle nostre vittime italiane, spiegata la bandiera dell’ANED con i Sindaci presenti in fascia tricolore, in una giornata uggiosa attraversiamo il tremendo cancello irridente con quella tragica scritta: “Arbeit macht frei”, una bugia, o meglio una delle tante, velenosamente sparse dai nazisti per nascondere e alimentare la loro infamia.
Entrando in Auschwitz, tante sono le cose che ci colpiscono; i dettagli si sommano e si confondono. Solo dopo il primo, pesante impatto, ognuno di noi comincerà a distinguere le lunghe, infinite barriere di filo spinato, le torrette di Guardia, la suddivisione dei block, la coffinetta (o il tumulo) sotto cui giacciono la camera a gas ed il crematorio.
La nostra prima meta è il Memorial degli italiani. Parole ufficiali per ricordarli; ognuno di noi torna sul ricordo dei superstiti che ha conosciuto e purtroppo, con dirompente dolore, ai familiari lì assassinati. Cinquant’anni sono passati e la ferita sanguina ancora. Ci immaginiamo l’arresto, il lung o devastante viaggio, l’arrivo… il dopo è, per chi oggi percorre il campo, inimmaginabile. Troppo lindi e ben tenuti i block, troppo e ben puliti i viali interni, troppo silenzio per un luogo deputato alla barbarie urlata dai nazisti.
lo penso a mio padre, ai miei nonni, a mia zia.
Quale sarà stato il loro arrivo? Purtroppo la loro fine la conosco. Quale sarà stata la loro vita? Conosco la loro non vita. Proseguiamo la vìsita blocco per blocco. Lasceremo occhi sgomenti al muro delle fucilazioni, tremiti di commozione uscendo dal blocco 11, il blocco della morte. Non potremo dimenticare i mucchi di scarpe, i piccoli vestiti infantili, la valanga di chiome recise… quella parata di taled neri e bianchi, le forche, le celle in cui si soffriva solo in piedi, in attesa della morte.
Il silenzio e la generale reazione di tutti noi all’uscita della camera a gas e del crematorio. Né ci consola la vista della forca eretta per la giusta esecuzione del comandante Hoss. Quella forca e quella morte forse avrebbero dovuto essere un monìto e non solo giustizia. Ma così è stato?
Lascio Auschwitz con queste sensazioni negli occhi e nel cuore.
Molte troveranno la via per manifestarsi più tardi, al ritorno a casa, nel riandare quotidiano all’esperienza vissuta. A Birkenau che più attanaglia, stringe e graffia il cuore. Troppo ben conservato Auschwitz, troppo museo. Birkenau oggi è un po’ come allora. Ci cresce solo l’erba, ecco la differenza. Agghiaccìanti la rampa, i binari convergenti verso le camere a gas, i crematori. Le baracche ai fianchi ancora oggi denunciano la povvisorietà; chi finiva li era solo per morire un Giorno dopo. Niente altro e nulla di più.
A Birkenau si capisce immediatamente e senza equivoci, cosa fosse la Shoa, quale il fine della deportazione nazista, come tutto fosse razionalmente costruito per il fine perseguito, come una volta raggiunto lo scopo tutto dovesse scomparire. Non si
venga a parlare di follia, di poche belve, di irrazionalità. Vadano a Birkenau i revisionisti, i negativisti, i neo-nazisti, i fascisti…
Birkenau. Ci accolgono una pioggia gelida, un vento teso. Con il gelo nell’anima più che nel corpo, in pochi arriviamo fino alle camere a gas. Dovevamo percorrere tutti quei posti, dovevamo. Un piccolo prezzo, ma dovuto. Una testimonianza. Come avrà percorso quegli infiniti metri mio nonno, un pio ebreo, e mia nonna quante lacrime avrà lasciato su quella spianata resa turpe dal fumo e dalla barbarie?
“Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”. Queste parole mi corrono alle labbra. Sono qui. Sono figlio di tutti voi. Sarò  testimone per tutti voi. E con me sicuramente saranno testimoni tutti coloro che mi sono stati compagni in questo viaggio. Un viaggio teso alla conoscenza di quanto accaduto e non dovrà più accadere. Un viaggio alla riscoperta delle proprie raffici, alla riscoperta dei valori umani, un viaggio per rafforzare quanto di irrinunciabile libertà, giustizia, solidarietà.
Più giovani e meno giovani vi saluteranno al rientro in Italia, certi di aver vissuto un momento tra i più significativi della loro vita. Certi di aver compreso come il ricordo e la testimonianza siano insostituibili affinché la barbarie non abbia a tornare.
Quanto a me, pur nell’affollarsi dei sentimenti e dei ricordi, questo lungo viaggio resterà negli occhi e nel cuore scolpito nella figura di quell’amico ebreo in piedi nella penombra, alto, quasi impietrito, assorto nella preghiera e nel ricordo.
Shalom!

Aldo Pavia