Ravensbrück, 22 aprile 1995
 

“Esse sono tutte nostre madri e sorelle. Voi potete oggi imparare a giocare liberi, sì! Voi forse non eravate ancora nati quando queste donne hanno esposto i loro pur deboli e gracili corpi come scudi d’acciaio lungo tutto il tempo del terrore fascista per voi e per il vostro avvenire”.
Con queste parole, incise su una grande lapide all’ingresso del campo-museo di Ravensbrück, la poetessa Anna Seghers si rivolge al visitatore.
Qui, a novanta chilometri a nord di Berlino, nel Meclemburgo, negli anni 1939-1945 ben 130.000 donne e bambini di 20 nazioni sono stati martirizzati dai nazisti, che dopo averli uccisi (10.000 anche nelle camere a gas) ne hanno bruciato i “deboli e fragili corpi” nei forni crematori.
Qui nel gelo, tormentati e frustati dalle SS, assillati dalla fame e dalle malattie, senza alcun conforto materiale e spirituale esterno, i deportati furono anche sfruttati nelle fabbriche della Siemens di Berlino nell’attesa che per i “sommersi” la soluzione finale si attuasse e le ceneri venissero gettate nel lago nel quale ancor oggi si specchiano il crematorio e le baracche.
Ben pochi i “salvati” che pur in miserevoli condizioni ebbero la ventura di assistere all’arrivo “tra i pini, sul terrapieno che altre volte era nostro luogo di torture, di snervante lavoro, una lunga fila di uomini a cavallo. Erano i russi, i nostri salvatori”.
Con queste parole Maria Arata, matricola 77314 nel campo di Ravenbrück, ricorda la liberazione avvenuta il 30 aprile 1945.
E prosegue: “Dopo alcuni minuti entrano trionfalmente nella Lagerplatz! Eravamo finalmente libere… Nelle baracche apparentemente vuote del lager ai nostri occhi si presentavano spettacoli inenarrabili. Donne scheletriche che gemono abbandonate nei castelli in stato comatoso o precomatoso… In altri letti giacciono già cadaveri altre donne immerse nello sterco, sfinite dal Durchfall”.
Così anche noi figli, indirettamente “salvati” a 50 anni dalla liberazione del più grande campo di concentramento e di sterminio di donne, ci siamo ritrovati alle cerimonie commemorative che si sono svolte a Ravensbrück il 23 aprile 1995, organizzate dal Land del Brandeburgo.
Celebrazioni a ricordo degli eccidi avvenuti, a commemorazione delle vittime inermi ed incolpevoli e a monito per tutta l’umanità.
Attualmente, arrivando da Furstenberg, ci si immette in un viale immerso in un bosco nel quale si intravedono ville graziose che furono un tempo abitazioni degli aguzzini SS, proprio a pochi metri dal KZ.
Poco resta del campo originario e delle baracche che lo componevano: è recente il vergognoso tentativo di abbattere gli ultimi edifici interni al campo e di costruire un supermercato su questi luoghi.
Al limite del piazzale è stato collocato un monumento di toccante realismo e semplicità alle deportate, come pure quello che, eretto su una colonna (opere di Will Lammert), si riflette nelle placide acque del lago Schwed, a contrasto indicibile fra la dolcezza e la pace dei luoghi e le crudeltà di cui furono testimoni.
Prospiciente il lago si erge intatto il crematorio, all’interno del quale sono visibili i forni con le loro bocche spalancate, terrificante memoria della sorte di decine di migliaia di deportati: domani saranno ricoperte dei fiori e delle corone degli ex-deportati e dei loro familiari, raccolti nel ricordo, mentre i religiosi ebrei diranno le loro preghiere in riva al lago, oscillando nel movimento rituale.
Sul fondo del piazzale il muro-monumento dedicato alle 20 nazioni da cui provenivano i deportati, è testimonianza della imponenza assunta dal fenomeno- concentrazionario. Commovente la visita all’imbrunire, nel silenzio pressoché assoluto, silenzio reso assordante dalle grida ineludibili di quelle larve-fantasmi di donne che 50 anni prima avevano popolato quei luoghi.
Una giornalista americana (Callaghan) annota nel “Libro del visitatore” che uno zelante oste ci offre nella vicina Furstenberg: “E’ incredibile che in un posto così bello e in mezzo a persone tanto gentili, siano accadute cose così terribili!”.

23 aprile 1995
“Io ti accolgo come uomo libero”: sono le parole del poster commemorativo del Kazhed.
Fin dalla prima mattina sono cominciati ad arrivare i pullman con le deportate superstiti: il piazzale si è popolato della stessa Babele che popolava il Lager: polacche, russe, ucraine, norvegesi, francesi, slovene, belghe, olandesi, israeliane, ungheresi. Ciascun gruppo con il proprio vessillo, tutti ospiti del governo del Brandeburgo,
Inesprimibili il clìma, la tensione morale, la ricerca continua, quasi affannosa, di contatti interpersonali per ricordare, commemorare, narrare episodi, congratularsi nella reciproca convinzìone del mìracolo della propria sopravvivenza.
Ne restano colpiti e coinvolti anche i più giovani, i nostri figli, ai quali chiediamo la promessa di una presenza vigile e salda, al prossimo cinquantesimo.
Sotto il tendone allestito per la ristorazione sono attaccati ad appositi pannelli i messaggi più vari: ricerche di persone, ricordi di episodi e inviti di giovani ricercatori alle donne di Ravensbrück a partecipare alla raccolta di “storie di vita” da essi progettati, così negli Usa come a Berlino. Qui e là si levano da gruppi omogenei canti ora lieti ora dolenti di sofferte memorie. Su tutti il “canto delle d portate di Ravensbrück” che precede i discorsi ufficiali di commemorazione.
Gertrud Muller, presidente della Lagergemeinschaft Ravensbrück ricorda le 130.000 donne e i bambini di Ravensbrück e conclude con l’augurio che non vi siano più fascismi, altre Ravensbrück, altre guerre.
Segue l’intervento di Rose Guérin, presidente del comitato internazionale di Ravensbrück, che dopo aver ricordato le vittime delle SS nei lager e ringraziato i liberatori, conclude con questo imperativo: “Vigila con noi che fummo a Ravensbrück!”.
Prende quindi la parola Manfred Stolpe, primo ministro del Land del Brandeburgo: Ravensbrück fu l’unico campo di concentramento per donne in Germania. I campi di concentramento furono l’espressione di una perversa ideologia volta allo sterminio ed al terrore.
Un campo di concentramento per le donne appare in particolar modo disumano. E conclude: “State certe, le vostre vite e sofferenze non sono state dimenticate a 50 anni di distanza e non saranno dimenticate in futuro”.
L’ultimo intervento è stato quello di Romani Rose, presidente del Central Council of German Sinti and Rom: “Ravensbrück è un importante luogo di memoria stofica e di dolore per il nostro popolo.
Nel luogo in cui ci troviamo le deportate furono torturate ed uccise per il fatto stesso di esistere”.
La relatrice prosegue con un cenno a un capitolo particolarmente odioso della deportazione a Ravensbrück: gli esperimenti di sterilizzazione effettuati dalle SS e in particolare dal prof. Clauberg sulle giovani donne: “Queste donne, anche se sopravvissute, rimasero marchiate per il resto della vita fisicamente e psicologicamente”.
Come infatti giustamente osserva Massimo Martini, “Non sono bastati i lunghi anni del ritorno alla vita di tutti i giorni per sanare le ferite profonde che la deportazione ha segnato nel fisico e soprattutto nello spirito dei superstiti.
Essi sono dìversi, si sentono diversi. Non sono più quelli di prima. Non lo saranno mai”.
Questo lo si può leggere sul viso delle migliaia di donne che ascoltano attente gli interventi di commemorazione.
Dopo la posa delle corone di fiori ai piedi del muro delle Nazioni, fra le quali le corone dell’ANED, il pomeriggio viene dedicato alla visita del Bunker, le cui celle oggi sono monumenti celebrativi dedicati alle vittime di ciascuno Stato.
Quindi ci si reca al Museo della deportazione di Ravensbrück, ricco e curato nell’allestimento: purtroppo l’impressione che esso lascia è quella di una ricerca, forse anche inconscia, di una attenuazione della realtà “vera” delle condizioni di vita dei deportati.
Non sono presenti immagini particolarmente scioccanti, mentre si vedono fotografie di donne ordinate, non certo scheletriche, al lavoro alle macchine da cucire (appartiene forse tale iconografia alla prima fase storica del Lager, nella quale venne impiantato uno stabilimento industriale per la confezione di divise milìtari destinate all’esercito tedesco?).
L’effetto è di un “revisionismo visivo” che si è ritenuto doveroso segnalare con una lettera alle autorità; appare di grande urgenza e di grande importanza la conservazione, come bene culturale, dei Lager nelle città dagli stessi tedeschi definite come “città del monito e del ricordo”, soprattutto in quelle aree (ex-DDR) nelle quali i mutamenti politici potrebbero determinare una “dismissione” di memoria.

 

Giovanna Massariello Merzagora

Paolo Massariello