Un intervento di Andrea Devoto

«lo non credo che i combattenti della libertà, gli ex deportati, i perseguitati debbano sentirsi in pensione”». La nostra tragedia è aver creduto che quello che è accaduto costituisse un esempio da non ripetere mai più

La sera dei 12 febbraio del ’92 Andrea Devoto presentò a Vado Lìgure, in provincia di Savona, il libro di Ilda Verri Melo “La sindrome del sopravvissuto”. Pubblichiamo quasi per intero il testo di quella conferenza di due anni fa in molti punti semplicemente sconcertante per la sua forza anticipatrice, per la lucida visione che Devoto dimostra di possedere di tendenze e di tematiche che sono proprio in questi giorni più che mai attuali. “Triangolo Rosso” che ebbe in Andrea Devoto un valido e prezioso collaboratore, rende così omaggio alla sua figura di studioso appassionato e lungimirante.

In questi lunghi anni, in questo scorrere dei decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, è comparsa alla ribalta una seconda generazione postbellica, siamo alle soglie della terza generazione. Dobbiamo allora domandarci: si è fatto qualcosa perché queste generazioni siano state informate? Personalmente non posso dire di saperlo, ma vi porto due esempi.

Il primo è relativo al mio ultimo viaggio in Polonia, nell’aprile 1985, per un Congresso a Cracovia sui postumi medici della deportazione, e per delle ricerche negli archivi della benemerita Commissione Centrale per la persecuzione dei crimini nazisti in quel paese. Un mio conoscente polacco, uno psicologo ex deportato, mi diceva che nel suo paese era nettamente calato l’interesse per le loro vicende al tempo dell’occupazione nazista; faccio notare che la Polonia è forse stato il paese europeo che poteva vantare la maggior quantità e qualità di letteratura sui campi di concentramento, unito al fatto dell’esistenza di Musei e Centri culturali con riviste legati ai Memorial di Auschwitz, Maidanek e Stutthof.

Il secondo esempio risale ancora più indietro nel tempo, ai pellegrinaggi ai campi di Mauthausen e Dachau fatti nella primavera del 1982 e 1983 a cura della Amministrazione provinciale di Firenze, per accompagnarvi scolaresche e professori delle scuole secondarie superiori. Spero che col tempo le cose siano migliorate, ma all’epoca non c’era molta preparazione a monte sia per gli uni che per gli altri; al massimo qualche conferenza a cura dell’Istituto storico della Resistenza di Firenze. Mi sono trovato a episodi un po’ particolari, di insegnanti non più giovani, della cosiddetta età di mezzo, che davano, alla fine della visita al museo del l’uno o dell’altro campo, giudizi sbrigativi sulla “pazzia”, sulla “mostruosità”, sulla eccezionalità delle azioni di Hitler, Himmler e degli altri vertici nazisti. Certo, cose tremende, ma fatte da esseri umani, non da semidei o robot: e questo sarebbe un insegnante, un professore, un educatore? I ragazzi, poi, non riuscivano a capire molto, semplicemente perché non avevano nessun inquadramento storico-politico, economico-sociale che gli facesse capire perché certe vicende erano accadute, perché erano state così incomprensibili, perché si sarebbe dovuto rimanere sempre all’erta, anno dopo anno, generazione dopo generazione.

1 – E’ triste doverlo notare, ma nel corso del tempo vi è stata letteralmente una latitanza degli enti, delle istituzioni, dei poteri pubblici nei confronti non solo degli ex deportati – come lo si è potuto osservare quando si sono raccolte le testimonianze dei superstiti, come nella recente ricerca in Toscana – ma anche verso tutto ciò che in qualche modo, direttamente o indirettamente, si richiamava alle vicende legate alla lotta di liberazione dal fascismo e dal nazismo. Questo si è verificato, e tuttora si verifica, con un crescendo impressionante in questi ultimissimi anni, quasi che il crollo dei regimi socialisti nell’Est europeo abbia dato la stura alle velleità di restaurazione che covavano sotto la cenere nei paesi dell’Europa occidentale. Noi oggi viviamo in un mondo, in una civiltà, in una società dove, a ogni piè sospinto, risorgono tribalismi, sciovinismi, particolarismi, guerre di religione che si credevano scomparsi, ricacciati quasi nelle oscurità del medioevo. E invece sono tra noi, intorno a noi, e ci vengono elargiti con dovizia di particolari dagli organi di Informazione, quasi che tenere – se mi permettete l’espressione – l’acceleratore a tavoletta su questi aspetti ributtanti della condotta umana fosse qualcosa di cui andar fieri.

Mi rendo conto che fa parte del nostro modo di esistere. Qualcuno ricorderà che, sul finire del febbraio ’92, i giornali hanno riferito di una ricerca condotta dall’Associazione americana degli psicologi per cinque anni, sulla relazione fra società e televisione. E’ emerso che il ragazzo americano medio, quando a 11 anni termina le scuole elementari, è stato testimone “di 100 mila atti di violenza. E soprattutto ha visto con i suoi occhi 8 mila omicidi” (La Repubblica, 27.02.92 p. 22) Sappiamo benissimo che noi, in Italia, siamo “a rimorchio” della cultura americana con circa 20-25 anni di ritardo, ma tutto ciò che si collega al mondo dell’informazione ci giunge in tempo reale, anche se il costume impiega tempi più lunghi per cambiare in maniera sostanziale.

E’ anche vero che, come si suol dire, i tempi cambiano. Ma a che cosa serve, a chi giova insistere su questi aspetti violenti della nostra società? Ogni mattina ed ogni sera – fra giornali radio e telegiornali – veniamo monotonamente informati che è iniziata non l’età dell’oro, ma l’età della violenza, organizzata e spontanea, indotta e istituzionalizzata. A ciò si aggiunga il catastrofismo politico ed economico, sociale e morale, che fa pensare che si voglia, a tempi sempre più brevi, giungere all’instaurazione di un qualche regime autoritario, solo apparentemente soft, dopo la fascistizzazione progressiva del costume italiano ed europeo.

2 – Non vorrei sembrare uno che vive dei passato, che si appoggia ad un passato mitico e mitizzato. Siamo però stati tutti giovani, abbiamo sognato, ci siamo nutriti di speranze, abbiamo coltivato utopie. Ma siccome gli anni passano, per la logica della vita ci sentiamo relegati dentro categorie e raggruppamenti che hanno sempre meno potere, di fronte a rampantismi economico/commerciali, ad ambizioni egoistiche dell’uno o dell’altro raggruppamento politico ufficiale ed ufficioso.

Io non credo che i combattenti della libertà, gli ex deportati, i perseguitati, chi ha lottato perché certi ideali dell’immediato dopoguerra si realizzassero davvero debbano sentirsi “in pensione”. Chi ha partecipato in prima persona a un cammino di speranza rimane testimone di quel che ha fatto, che ha visto, che ha subìto, sempre, per tutta la vita, che ne sia convinto o no. t una condizione quasi fisica, come per chi emerge da un trauma, da una grave malattia, da un intervento chirurgico importante. t accaduto, e in quanto tale, rimane: rimane, per continuare nell’esempio, l’amputazione, il bacillo reso inoffensivo dalle difese dell’organismo, l’alterazione anatomica, la disfunzione. E qualcuno – perché è temporaneamente importante, perché gli conviene sul piano dei successo personale, perché spera di avere un certo numero di voti in più – pensa che bastino degli ordini di scuderia, o delle affermazioni perentorie, o delle forme di sciacallaggio per azzerare la memoria, per rifondare la Storia, per cancellare la colpa?
A me sembra che costoro – quale che sia la possibile motivazione che li anima, e che in fondo ci interessa poco – siano ritornati bambini, al mondo delle favole e delle magie, quando con un tocco di bacchetta magica si cancella tutto quello che non piace e ci si libera della fatica di vivere. Una sorta di dipendenza dalle illusioni, analoga a quella dell’alcol e della droga, che anche se non produce la morte fisica a breve scadenza, crea un enorme vuoto psicologico e morale dentro. Ecco forse la nostra tragedia, individuale, di gruppo, fors’anche collettiva: aver creduto che quello che era accaduto nei dodici anni del nazismo “storico” costituisse un esempio da non ripetere mai più, che il ‘Aelitto incommensurabile” commesso dal nazismo, dal fascismo e da tutti i loro servi sciocchi disseminati nei vari paesi europei fosse, per la sua stessa natura, non imitabile, non ripetibile, non rievocabile, non riproducibile.

Che cosa si deve dire, allora? Che ci siamo sbagliati? Dobbiamo forse applaudire i nuovi sicofanti di questo nuovo nazi-fascismo che – da collocazioni solo temporaneamente importanti – pretende di dirci come vivere, come pensare, come mettersi il cuore in pace, come subire?

3 – Vorrei tornare ancora sul ruolo dei deportati, dei superstiti. In uno dei libri della Etty Hillesum, una testimone importante della persecuzione antiebraica in Olanda e una figura chiave della spiritualità ebraica e cristiana dell’epoca, c’è scritto: ” … Per’umiliare qualcuno si dev’essere in due: colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria” (Diario 1941-43, Adelphi, Milano, 1985, p. 126). Questo è stato il destino dei deportati durante l’internamento: imparare a 9asciarsi umiliare”, imparare ad essere la “vittima perfetta”, quella che piace all’oppressore. Purtroppo questo modello comportamentale è continuato, è stato fatto continuare, anche nel dopoguerra, quando rientrati in patria non hanno trovato praticamente nessuno che li prendesse sul serio, né in famiglia, né fra gli amici, né sul lavoro, né fra i “potentP dell’epoca.

Nel corso degli anni sono lentamente diventati dei “testimoni scomodi”, qualcosa al limite da nascondere, perché gettavano qualche ombra sull’immagine vincente che si voleva dare in giro: anche noi italiani combattenti antifascisti, con le armi o senz’armi, come nel caso degli Internati Militari Italiani (gli IMI) che non avevano per la quasi totalità degli effettivi voluto aderire alla Repubblica di Salò. Era pur sempre di moda questa mentalità che il “vincente” ha ragione, che il “perdente” ha torto. Non voglio fare di tutt’erba un fascio, ma è un dato di realtà che il “popolo dei LageC rappresentava una spina nel fianco a molta gente, e non soltanto per i tedeschi. Anche le potenze vincitrici avevano le loro ampie responsabilità prebelliche e belliche su quanto vi si era verificato. Altri anni sono passati e gli ex deportati sono diventati dei “superstiti”, dei “sopravvissuti”, quasi una scommessa contro tutto e tutti: contro i fascisti che li avevano consegnati ai tedeschi, contro i nazisti, contro i loro compatrioti dell’immediato dopoguerra e contro quelli dei decenni successivi; non solo, ma anche contro coloro che, in un’epoca quasi contemporanea, si affannano a voler cancellare il passato, anche quello di soli 45-50 anni fa, per poter ricostruire il mondo che a loro piace, pieno di bombe intelligenti, di operazioni di polizia internazionale, di eserciti che respingano tutti coloro che attentano al benessere dei bianchi della civilissima Europa, potente, industrializzata, ricca, colta, trionfante.

Ed ora? Io credo che agli ex deportati – per gli anni che restano loro da vivere, pochi o tanti che siano – tocchi in sorte un’altra fase, quella di tornare ad essere se stessi: dei testimoni. Testimoniare non vuoi dire assumere altre vesti, fingersi quello che non si è, che non si è stati. Ma essere orgogliosi della propria debolezza, della propria fragilità, della propria impotenza, perché sono queste caratteristiche che ci legano indissolubilmente al mondo degli scomparsi, di cui chi è ritornato e chi oggi è ancora presente si è fatto e si fa appunto testimone, ossia portatore di un messaggio di continuità, di fiducia nella vita nonostante tutte le prove subite. Chi riesce a superare le prove dell’esistenza, tutto quello che può condurre alla morte psicologica e fisica, spirituale ed esistenziale, e ne esce con ancora un po’ di speranza, quello è un testimone. Forse, in questa sala, lo siamo un po’ tutti, ex deportati, ex partigiani, grandi, piccoli, giovani e anziani: ci accomuna il desiderio di far luce, di ricordare, di mantenere un ponte col passato, di dar mano perché ci sia sempre qualcuno accanto a noi e dopo di noi che tiene viva la fiamma della speranza che la donna e l’uomo “nuovi”, quelli che pensavamo sarebbero venuti su con i nostri sforzi dopo il 1945, possono esistere sempre, possono nascere sempre, possono darci mano sempre.