Tullia Zevi

L’omaggio alle donne e agli uomini della Resistenza. Il dovere della testimonianza dei sopravvissuti nel “dopo-Shoà” 
La città di Carpi ed il vicino campo di Fossoli, dove abbiamo testé sostato in meditazione e preghiera, sono luoghi simbolo delle deportazioni nazifasciste. E’ quindi giusto ed importante che proprio qui ed ora, confortati dalla significativa presenza del Capo dello Stato, sicuro e coraggioso punto di riferimento, il Comune di Carpi, l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e l’Associazione Nazionale ex-Deportati insieme commemorino il 50° anniversario delle deportazioni dall’Italia verso luoghi da cui milioni di esseri umani non fecero ritorno. Siamo qui riuniti per rendere omaggio alla loro memoria, e per onorare all’un tempo le donne e gli uomini che combatterono nella Resistenza. In quella lotta di popolo cui presero anche parte oltre 2.000 ebrei italiani. Fra di loro voglio ricordare il quattordicenne Franco Cesana, figlio di questa regione, bolognese, il più giovane partigiano caduto. E le cinque medaglie d’oro al valor militare attribuite alla memoria di altrettanti combattenti ebrei uccisi. Anche la nostra Unione delle Comunità ha l’onore di fregiarsi della medaglia d’oro della Resistenza. Onoriamo anche coloro che, a rischio della propria vita, osarono proteggere e salvare i perseguitati. Sono coloro che Israele perennemente ricorda come “giusti fra le Nazioni”. Nel 1938 Albert Einstein affermava in un suo scritto: “Ogni ebreo è responsabile non solo nei confronti della propria comunità, ma anche verso l’umanità intera. Ogni ebreo ha il dovere di riconoscere ed attuare i principi fondamentali di umanità formulati dalla Bibbia: principi fondamentali senza i quali nessuna comunità di uomini sana e felice può esistere”. Nel 1938 Einstein, ormai in esilio, conosceva già la dinamica perversa del nazismo, la cui macchina di morte aveva cominciato a stritolare vittime a migliaia, annientando l’opposizione social-democratica, comunista, cattolica e protestante. Conosceva il terrore e le umiliazioni della “Notte dei Cristalli”, in primo assalto frontale nazista contro la comunità ebraica di Germania. Eppure, nel 1938 il padre della teoria della relatività non poteva prevedere quali mostri il sonno della ragione avrebbe generato: milioni di esseri umani costretti a lavorare come schiavi e lo sterminio preordinato di sei milioni di uomini, donne, vecchi, bambini. La Shoà – che in ebraico significa distruzione, annientamento totale – costringe noi, i sopravvissuti, a porci quotidianamente la domanda: come dobbiamo vivere, pensare, agire nel dopo-Shoà? Gli ebrei furono l’unica collettività – oltre agli zingari, nostri fratelli di sventura – ad essere colpita in quanto tale, unicamente a motivo della loro nascita. E di questo devono ammonire e rendere testimonianza. Cosa significa rendere testimonianza? Significa compiere una scelta fra due imperativi. Fra “Dimentica” e “ricorda’. E, fra i due imperativi, scegliere il secondo. Si badi bene: questa scelta non nasce dallo spirito di rivalsa, né da desiderio di vendetta. La vendetta non ci interessa e non ci riguarda. Testimoniare e ricordare significa opporsi a quanti – e non sono pochi – tentano invece di negare e di cancellare il passato. L’Europa è squassata dalla caduta dei regimi totalitari, da guerre civili in atto o annunciate, dal riemergere dell’antisemitismo e di nazionalismi esasperati che generano gli orrori delle “pulizie etniche”. Ebbene, in questa nostra Europa vi è chi si chiede: fu davvero la Shoà una gigantesca anomalia avulsa dal contesto storico? Fu davvero una barbara ma temporanea deviazione dalla via maestra dei processo di civilizzazione? Alla certezza espressa nel lapidario “mai più”, subentra il dubbio che “potrebbe succedere ancora”. Studiosi autorevoli vanno elaborando quelle stesse considerazioni che colmarono d’angoscia gli ultimi anni di vita di Primo Levi, partito anch’egli, da Fossoli per Auschwitz, stipato in un carrobestiame, il 22 febbraio 1944. Secondo il sociologo Zygmunt Baumann, “la radializzazione e la burocratizzazione della civiltà occidentale hanno costituito la condizione necessaria del genocidio nazista”. “Sebbene – precisa il Baumann – tale intreccio sia stato unico nella sua tragicità, i fattori che furono alla sua base sono tuttora operanti e diffusi. Non riconoscerlo sarebbe il segno di una cecità pericolosa e suicida”. “La lezione si carica così – egli conclude – di sconcertante attualità per in mondo contemporaneo travagliato da concitate trasformazioni e da rinnovati problemi di convivenza fra culture ed etnie diverse”. Come neutralizzare dunque il veleno ad azione ritardata contenuto nella perniciosa eredità del genocidio nazista? E’ chiaro che una tale responsabilità non puo competere solo ai sopravvissuti, ma grava su tutti quanti hanno a cuore il futuro dell’Italia, dell’Europa, della famiglia umana. In primo luogo, contro i tentativi di revisione, o peggio di negazione della storia, occorre consolidare le fondamenta di quello che Agostino d’Ippona chiama “il palazzo della memoria”. Il poeta Josip Brodsky, premio Nobel per la letteratura afferma: “Se una società perde o non coltiva la memoria, diventa facile preda di un demagogo o di un tiranno… Il presente deve essere l’antidoto del passato”. Occorre combattere l’indifferenza, ricordando che nella Germania anni trenta, accanto a una minoranza disposta alla violenza, vi fu chi preferì chiudere occhi ed orecchie, e tacere. Occorre fare appello alle energie morali di ciascuno di noi: genitori, educatori, governanti. Richiamarci ai valori fondamentali del rispetto, della tolleranza, della solidarietà verso “l’altro”, sia egli “uguale” o “diverso”. Infine, e concludo, solo se sapremo compiere una rigenerazione etica dei nostri comportamenti pubblici e privati, individuali e collettivi, solo così onoreremo davvero la memoria di tante povere vite perdute. E potremo operare, insieme, per una comunità umana, più umana, più sana e più felice.