ITALO TIBALDI – Vorrei portare il saluto di 546 superstiti di Dachau, di 506 superstiti di Mauthausen, di 358 superstiti di Auschwitz, di 181 superstiti di Buchenwald, di 175 superstiti di Flossenburg, di 137 superstiti di Dora, di 88 superstiti di Ravensbrück. Ho detto per ultimo Ravensbrück perché voglio che tutti noi facciamo un applauso a queste nostre donne di Ravensbrück. Abbiamo poi i compagni più fortunati, fermatisi a Bolzano, che sono 451; siamo arrivati in questo modo a 2.500 superstiti italiani. Vi dovevamo, cari amici, questi numeri, queste conoscenze. Questa Aned, questa grande Associazione nazionale, nata ormai da tanto tempo e ancora così viva, ha un suo presidente che ieri avete sentito, avete conosciuto e che oggi ci dirà qualcosa in più sul tema pregnante di oggi: la politica della memoria. La parola a Gianfranco Maris. Grazie.

GIANFRANCO MARIS – Per iniziare io prego il sindaco di Prato di venire al tavolo della presidenza perché sarebbe assurdo che noi occupassimo la casa dell’ospite lasciando proprio l’ospite fuori dalla porta. Voi conoscete sicuramente il prof. Enzo Collotti. Noi abbiamo ritenuto che il tema fondamentale del nostro XI Congresso Nazionale, non potesse essere meglio rappresentato e illustrato che dal prof. Enzo Collotti. La politica della ‘ memoria. Amici che rappresentate qui i Comitati internazionali dei campi di sterminio, credo che il problema che noi abbiamo qui in Italia, nel nostro paese, cioè quello di trovare una politica che consenta la conservazione della memoria storica, sia un problema che riguarda tutte le nazionalità d’Europa. Se in Italia vi sono forze e interessi che vogliono archiviare la memoria storica, queste forze e questi interessi sono presenti anche negli altri paesi d’Europa, perché queste forze sono presenti ovunque e gli interessi loro sono quelli di archiviare la memoria storica di tutti i popoli: italiani, francesi, tedeschi, belgi, olandesi, di tutta Europa. Questi interessi hanno bisogno di uomini che vivano in un “anno zero” della cultura, siano disponibili per tutte le azioni possibili. Ebbene, noi non vogliamo che i nostri figli siano o vivano negli anni zero. Vogliamo che, attraverso la conservazione della mernoria storica di ogni paese, possano essere protagonisti della storia dei paesi d’Europa. Non gregari, non subordinati, ma protagonisti. Ecco perché noi riteniamo che questo sia un tema per tutti noi della famiglia europea, anche perché penso che nei nostri rapporti qualcosa dovrà mutare e andare mutando. Noi abbiamo avuto sempre rapporti tra di noi di carattere forse però più celebrativo o politico che altro; da oggi in poi lo penso che i nostri rapporti dovranno essere profondamente ispirati anche a una collaborazione culturale, per raccogliere insieme tutti i documenti, le ricerche, le mernorie, tutti i documenti scritti da tutti gli ex deportati superstiti d’Europa per creare un giacimento europeo al quale si possa attingere la memoria storica negli anni futuri: una memoria storica europea. Non vi può essere un’Europa unita se non vi è una comune memoria storica nella quale siano consacrati
i valori della Deportazione e della Resistenza europea. Amici, questo è il significato di questa nostra giornata, e penso che dovremo coltivare questi nostri rapporti nel futuro, renderli più forti per costruire insieme questo patrímonio di documenti comuni. Questa giornata è affidata alla relazione del prof. Enzo Collotti. Grazie.
 
 
La relazione dei prof. ENZO COLLOTTI
 

Il futuro della memoria.
Come trasmettere l’inimmaginabile a chi non l’ha vissuto?
ENZO COLLOTTI – Quest’anno cinquantenario in cui si ricordano i giorni della liberazione e della fine della seconda guerra mondiale pone a noi tutti, in tutta Europa, una serie di problemi politici e storici di grande importanza, che sollecitano la nostra riflessione sul tema della memoria, che è al centro di questa giornata di lavoro e del vostro congresso. Già l’anno scorso ricorrenze storiche strettamente legate alle sorti della seconda guerra mondiale – il cinquantenario dello sbarco in Normandia -, avvenimenti culturali – la programmazione del film Schindler’s list -, eventi politici, come le elezioni italiane, che per la prima volta hanno rotto il tabù di portare al governo in uno dei paesi della Comunità europea una forza direttamente erede della tradizione fascista, sollevando motivo di allarme e dando un significato nuovo alla stessa celebrazione del 25 aprile, hanno sottolineato la drammaticità e la delicatezza del momento politico-culturale che stiamo attraversando. Ossia, una fase di passaggio tra vecchi e nuovi assestamenti politici che può rappresentare un momento fecondo ai fini della presa di coscienza storica dei fatti che ci lasciamo alle spalle, ma può aprire anche, per stanchezza o per consapevole disegno politico, l’avvio di un processo di liquidazione di una memoria storica per ubbidire a logiche politiche e a sviluppi di ornologazione di un’opinione pubblica schiacciata tutta sul presente, e sulla spettacolarizzazione del presente, in cui non trovano più posto analisi dífferenziate. Approfittando della crisi politica in atto su tutto il continente si è aperto un processo all’antifascismo, che lungi dal costituire un contributo e un bilancio critico della funzione che esso ha assolto sul piano culturale e politico nel corso dei decenni passati, con cambiamenti profondi in contesti e momenti politici assai diversi, tende semplicemente alla sua liquidazione. In questo senso, e non nel senso della necessità di aggiornare costantemente le nostre conoscenze, la parola d’ordine della necessità di riscrivere la storia di questi decenni fa parte del bagaglio programmatico di quelli che Vidal-Naquet ha definito “gli assassini della memoria” (1). Anche quest’anno si è aperto all’insegna del ricordo di eventi che non possono non essere presenti alla mente di tutti noi: il cinquantenario della liberazione di Auschwitz e del bombardamento distruttivo della città di Dresda. E nei prossimi mesi e nelle prossime settimane le occasioni cinquantenarie non si conteranno più. Il cumularsi di queste occasioni contiene in sé potenzialità contraddittorie. Da una parte, rischia di ingenerare assuefazione, per la ripetitività dei fatti rituali, dei discorsi celebrativi, per la riproposizione delle stesse immagini che la rete dei mezzi di comunicazione amplifica e inflaziona sino a svalutarne totalmente il significato e lo stesso impatto visivo. Dall’altra, può e deve sollecitare una riflessione sul valore delle esperienze che sono state compiute nel corso ormai di un cinquantennio. Nessun paese d’Europa è, si può dire, immune dal processo di elaborazione della memoria che è stato stimolato fisiologicamente dal passare dei decenni e dal naturale ricambio delle generazioni. Ma non dobbiamo neppure sottovalutare che i grandi fatti epocali che stanno trasformando il corso della nostra storia, in particolare a partire dai cambiamenti intervenuti lungo il 1989 e ancora non pervenuti ad un assestamento definitivo in quasi nessuno dei paesi che ne sono stati coinvolti, hanno inciso profondamente sul nostro modo di considerare non la natura dell’esperienza del fascismo e del nazismo, ma certo le esperienze avviate dopo il 1945. Se ci guardiamo intorno vediamo facilmente come il travaglio della democrazia, sia nei paesi dell’occidenteeuropeo, in cui il sistema democratico-parlamentare richiede nuova vitalità e di essere associato più strettamente a istanze di carattere sociale, sia nei paesi dell’Europa centroorientale, che questo sistema stanno appena adesso sperimentando, non possa essere dissociato dal recupero del patrimonio di valori comuni che trae la sua origine dalla reazione delle popolazioni dell’Europa invasa al tentativo delle potenze dell’Asse di imporre un Nuovo Ordine fascista e nazista. Naturalmente, neppure questo recupero rappresenta un processo indolore. Nella Germania unificata le discussioni sulla ristrutturazione dei luoghi memoriali che esistevano nella sua parte orientale ha rappresentato uno specchio fedele di queste difficoltà: esse sono andate ben oltre la valutazíone critica della gestione che dei vecchi campi di concentramento aveva fatto la DDR, per investire direttamente il problema della Resistenza al nazismo e della legittimità nel suo ambito della componente comunista. La diffamazione dell’antifascismo, identificato con lo stalinismo, si è conferinato uno dei cavalli di battaglia di una destra scatenata nella falsificazione della storia (2). In Polonia, la polemica è troppo recente, il ricordo di Auschwitz ha risollevato il problema della “polonizzazione” del campo di sterminio e del riconoscimento, per contro, di Auschwitz come epicentro del genocidio degli ebrei, laddove la negligenza e la disinvoltura dei politici hanno potuto alimentare il sospetto che anche in questa occasione sopravvivessero residui di un vecchio antisemitismo. Ma in Polonia la memoria storica vuol dire anche consapevolezza della divisione della Polonia tra partigiani del governo di Londra e partigiani del go < verno di Lublino, come proiezione dello scontro tra le potenze per l’egemonia sulla Polonia e sull’Europa centrale: il ricordo della sorte dell’insurrezione di Varsavia ha fornito l’ennesima riprova di questa realtà.
In Francia la.discussione tuttora viva sull’esperienza di Vichy continua a dividere il Paese. Il ritardo con il quale politica e giustizia hanno sollevato il velo delle responsabilità, non solo in generale per il collaborazionismo, ma in termini più specifici per il contributo diretto di autorità ed uomini francesi alla deportazione degli ebrei, non poteva che alimentare nuovi dubbi e contribuire da una parte a stimolare l’approfondimento di lati tuttora oscuri dei comportamenti di settori importanti della società e di uomini politici anche di primo piano. t stata la celebrazione del processo Touvier, a distanza di sette anni dal processo Barbie, a riaprire una delle ferite non rimarginate della storia di Vichy. Anzi, fra i misteri di Parigi, uno dei capitoli più oscuri e più complicati è proprio questo, in cui domina la parte svolta dalla polizia di Vichy nel prestarsi ad eseguire ordini dei tedeschi o addirittura a prevenirli e ad attuare autonomamente misure e pratiche destinate a sfociare nella cor-responsabílità nel genocidio. Nello stesso contesto la ricerca delle ragioni che hanno consentito a Touvier di occultare le proprie responsabilità per decenni ha sollevato il velo delle omertà, delle omissioni, dei favoreggiamenti che chiamano in causa le istituzioni della Quarta e della Quinta Repubblica, magistratura, polizia, ministeri e altri organismi governativi, financo la presidenza della repubblica, ma anche spezzoni importanti della società, come la Chiesa cattolica, cui si imputa la copertura data per malintese ragioni caritative a personaggi come Touvier. Insomma, l’affare Touvier ha risollevato decenni di rimozione e di equivoci pronunciamenti sul passato di Vichy. Alla vigilia del processo il parigino “Le Monde” scriveva: “Questo processo sarà anche quello della memoria ‘ ritrovata. Si toccherà sino a qual punto l’amnesia collettiva dei francesi è svanita” (3). Non c’è molto da aggiungere al commento dell’autorevole quotidiano. La situazione dell’Austria ci porta a considerare altri aspetti del travaglio che stiamo vivendo. L’Austria, come altri paesi del nostro continente, è stata ed è teatro di truci episodi di intolleranza e di razzismo: l’uccisione di quattro zingari nelle settimane scorse è stato il momento culminante di una campagna d’odio che non è dissociabile dai successi elettorali della destra di Jórg Haider, pangermanista e xenofoba. Come altrove in Europa l’estrema destra trae profitto dalla debolezza e dai difetti del sistema democratico: da una parte dal prepotere dei partiti che tendono a monopolizzare tutti gli spazi della società cìvile; dall’altra, la corruzione derivante dalla sempre maggiore commistione tra potere politico e affari, che non ha risparmiato si può dire nessun’area del nostro continente. Ma trae profitto anche da problemi sociali reali, dal problema dell’immigrazione, in Austria immediatamente ingigantito dalla vicinanza con i paesi dell’Europa orientale in una difficile transizione e soprattutto dalla vicinanza con zone di guerra nella ex Jugoslavia. Il problema materiale dei rifugiati e le difficoltà non solo materiali dell’incontro tra culture diverse è uno dei terreni di coltura più fertili per la reviviscenza di nuovi nazionalismi e di nuovi razzismi. Proprio per questa ragione è particolarmente significativo che in Austria, un paese così esposto ai fenomeni del razzismo e dell’intolleranza, sia stato riaperto il problema del recupero e della conservazione del campo di concentramento di Mauthausen, il luogo memoriale di maggior significato storico e simbolico che si trovi sul territorio dell’odierna repubblica austriaca, come atto rivolto non soltanto a conservare le tracce dei crimini commessi dal nazismo e doveroso gesto di omaggio a coloro che ne furono vittime ma anche come consapevole contributo alla conservazione della memoria nei confronti delle generazioni più giovani (4). Consentitemi di soffermarmi brevemente sull’esperienza della problematica sollevata dal recupero di Mauthausen, alla quale mi sono trovato a contribuire come membro della commissione di storici istituita dal ministero della cultura austriaco per studiare le forme più idonee alla conservazione materiale e all’utilizzazione culturale del vecchio campo di concentramento, che, come voi sapete dopo l’area di Auschwitz e Birkenau, costituisce l’insieme più ampio di un’area concentrazionaria sopravvissuta: quella anche in cui più intatto si presenta il complesso delle opere architettoniche specificamente concentrazionarie. Ora, la conservazione di Mauthausen, oltre al significato di per sé evidente, vuole essere una risposta in primo luogo ai molti propagandisti neonazisti che ne vogliono negare se non l’esistenza almeno le caratteristiche di campo di sterminio, contestando ad esempio l’esistenza della camera a gas (5). Vuole essere anche il tentativo, soprattutto nei confronti delle generazioni future, di restituire a queste strutture, destinate a diventare sempre più una delle forme di una archeologia contemporanea, la vitalità di promozione di iniziative di studio sulla realtà non solo del sistema concentrazionario ma dei regimi fascista e nazista nel cui contesto fu possibile che esistessero luoghi come Mauthausen, con gli enormi problemi di ricostruzione storica e interpretativi che tutto questo comporta. Ricostruire la storia di Mauthausen, come premessa per motivare la necessità della sua conservazione e del suo potenziamento in quanto luogo simbolico e memoriale, significa infatti ricostruire le sofferenze dei deportati ma anche il contesto che quelle sofferenze permise. Da una parte, perciò il regime nazista, nel quale il sistema concentrazionario non era una eccezione o una escrezione, ma una componente organica dell-ordine del terrore”, come è stato da ultimo analizzato nell’importante opera di Wolfgang Sofsky, opportunamente pubblicata in versione italiana (6). Dall’altra, il contesto dell’area e della popolazione circostante che, come già verificato per altre analoghe aree, visse con relativa indifferenza quando non, addirittura, con ostilità la presenza del campo di concentramento, ribadendo di fatto la solidarietà della popolazione con la guarnigione del Lager, come ci ha ricordato di recente la ricerca con la quale uno storico americano, Horwitz, ha voluto ricostruire le reazioni della popolazione della vicina località all’esistenza del campo di concentramento negli anni dal 1938 al 1945 e -, aspetto non meno interessante – il modo in cui la stessa popolazione convisse con la sua memoria dopo il 1945. Le vicende della ricezione del campo non solo fanno parte integrante della sua storia, ma sono una parte importante del problema di come fu elaborata dopo l’abbattimento del regime nazista la memoria della sua esperienza (7). Tra i punti più importanti emersi dal lavoro degli storici su Mauthausen uno è la conferma della dimensione internazionale dell’esperienza concentrazionaria e della necessità che questa realtà trovi adeguata espressione anche in forme
di intemazionalizzazione della memoria (per esempio anche nel senso di affidarne in futuro la gestione a una fondazione di carattere internazionale, quale che ne fosse la forma ritenuta più opportuna). Una seconda affermazione importante risiede nella necessità di tenere distinta, e di sottolineame anzi la distinzione, l’area del campo da quella delle infrastrutture necessarie per garantime la valorizzazione documentario-culturale, in modo da evitare ogni manomissione dello stato originario del Lager. Una esigenza di ordine filologico, quest’ultima, essenziale anche per sottrarre argomenti alla polemica neonazista che, oltre a negare l’esistenza della camera a gas, tende a negare alla radice l’esistenza stessa del Lager come luogo di segregazione e di persecuzione, attribuendo alla gestione che ne è stata fatta dopo il 1945, dagli americani prima, dai sovietici dopo e infine dagli stessi austriaci, modifiche tali da avere alterato la natura e la riconoscibilità originarie del Lager. Non va taciuto, infine, che la preoccupazione di garantire la continuità del lavoro storico ed educativo per il futuro intorno al campo di Mauthausen non può essere dissociata dalla previsione, del tutto fisiologica, che con il passare degli anni sempre meno si potrà contare sul prezioso contributo degli ex internati, ai quali si deve essenzialmente la conservazione di quanto materialmente sussiste delle vecchie strutture e soprattutto il lavoro che in quasi cinquant’anni è stato svolto di documentazione e di accompagnamento delle visite al campo. Ciò comporta non soltanto il rinnovamento e l’aggiornamento, secondo metodiche e punti di vista storiografici anche nuovi, delle attrezzature espositive e di supporto per la divulgazione della realtà del Lager, ma anche la formazione e la preparazione di un nuovo tipo di personale, fondamentalmente legato al mondo della ricerca e delle istituzioni scolastiche e culturali, specificamente idoneo per la visita sui luoghi, vale a dire non solo Mauthausen ma anche la rete dei campi ad esso collegata (da Gusen a Melk ad Hartheim) (8). Credo di non dovermi scusare se mi sono soffermato sull’esperienza di Mauthausen. Mi pare chiaro che ho inteso sottovalutare nessuna delle altre realtà concentrazionarie che hanno visto la deportazione di italiani, né Buchenwald, né Dachau, né Ravensbriick, né altre ancora. Ma non dobbiamo neanche dimenticare il forte significato che ha avuto Mauthausen nel quadro della deportazione dall’Italia, poiché circa il 25 per cento di tutti i deportati dall’Italia – se si eccettuano, beninteso gli ebrei – sono finiti a Mauthausen, ossia il contingente più numeroso dei deportati.italiani. D’altronde, l’occasione del lavoro svolto per Mauthausen può servire per richiamare l’attenzione su quanto si deve fare anche da noi per assicurare in primo luogo le tracce materiali dei luoghi della deportazione, da Fossoli a Ferramonti, ai molti altri luoghi dei quali spesso conosciamo ancor soltanto il nome. Un riferimento che va fatto non soltanto perché il primo passo di ogni strategia della memoria non può che essere la lotta contro l’oblio, non soltanto l’oblio del tempo ma anche quello organizzato dagli uomini, ma anche perché non possiamo concentrare la nostra attenzione soltanto su quanto è accaduto dopo l’8 settembre del l943. Così in molti casi il regime di Vichy è servito da alibi per distogliere l’attenzione dai comportamenti delle autorità francesi della Terza Repubblica che avevano internato i rifugiati antinazisti tedeschi spesso poi caduti nelle mani della Wegrmacht e delle SS, come sottolineato di recente da Alfred Grosser (9), l’occupazione tedesca dopo l’armistizio del 1943 non può servire da alibi né alimentare rimozioni sui crimini e sulle malefatte del regime fascista. Troppo spesso si dimentica che sono esistiti Ferramonti e diecine dì altri campi minori di internamento aperti dai fascisti assai prima del 1943. Ferramonti fu liberata dagli alleati dopo lo sbarco in Calabria all’inizio di settembre del 1943 e gli internati si salvarono dalla deportazione, ma non fu merito certo dei fascisti che ve li avevano rinchiusi (10). Così come troppo spesso si dimentica che in questi campi italiani erano rinchiusi ebrei ma anche molti stranieri, jugoslavi, greci, albanesi, di territori che erano stati invasi dall’Italia e che subirono non soltanto la repressione tedesca ma anche una repressione da parte di forze italiane che spesso non fu meno dura di quella dei tedeschi. Le vicende dell’occupazione italiana in Balcania, e soprattutto in Jugoslavia, sono da questo punto di vista probanti. Non dimentichiamo che, a differenza di quanto è avvenuto nella stessa Germania, nessun processo per crimini commessi dalle forze di occupazione italiane nei Balcani è stato mai celebrato in Italia (11). Tutto ciò per dire quanto sono sospetti tutti i tentativi di diffondere parole d’ordine come quelle della pacificazione o della riconciliazione nazionale, che in realtà, tendendo a livellare la sorte di tutte le vittime della guerra e ad azzerare la memoria, mirano ad equiparare valori ineguagliabili e a mettere sullo stesso piano esperienze di segno assai diverso, spogliandole in questo modo dei loro specifici significati e demotivando il sacrificio delle stesse vittime. Bisogna però essere anche consapevoli che si è compiuta in questi anni una rottura della memoria storica che non è dovuta soltanto al normale ricambio delle generazionì. NE pare che i fattori fondamentali alla base di questa rottura siano almeno tre: 1) un mutamento di prospettive politiche a livello europeo se non addirittura planetario; 2) un mutamento delle forme della comunicazione; 3) il mutamento generazionale. Alla base di tutte e tre queste forme di rottura si può collocare l’interruzione della trasmissione di memoria, che in passato avveniva di padre in figlio, passando in via prioritaria attraverso la memoria familiare. Questo canale è stato messo in crisi non soltanto dalla graduale e fisiologica scomparsa dei padri, ma anche dall’irrompere di modi diversi della comunicazione e dello stesso modo di fare politica. Il momento della memoria storica come patrimonio collettivo era stato coltivato da movimenti e partiti con forti connotati ideologici; il declino di queste forme politiche ha implicato anche il declino di questi contenuti, l’attenuazione di momenti conflittuali e della stessa rappresentazione delle contrapposizioni anche violente che la Resistenza e la lotta politica del dopoguerra avevano comportato. Paradossalmente, nel momento in cui si generalizza la coscienza che la Resistenza è stata anche, non solo, “guerra civile”, si accresce la tendenza a stemperare la contrapposizione di atteggiamenti politici, a ricercare unità politiche che tendono a proiettare anche sul passato una immagine edulcorata di lotte e conflitti. La generazione che ha combattuto nell’antifascismo e nella Resistenza e che ha conosciuto l’esperienza concentrazionaria non deve meravigliarsi che le nuove generazioni possano considerare gli eventi che l’hanno vista protagonista con occhi diversi.
E’ stato posto e si pone il problema, che è anche un problema epistemologico e di metodo, se siano trasmissibili esperienze abnormi come quelle della deportazione in persone che non ne sono state partecipi e più ancora in persone appartenenti a generazioni istruite a perdere anche il contatto fisico con i protagonisti dell’esperienza concentrazionaria. Se già è stato difficile fare parte di questa esperienza ai contemporanei, come sarà possibile nei confronti di chi non è più neppure contemporaneo? E ancora: “Come trasmettere l’inimmaginabile”? t questo l’interrogativo che torna in molti dibattiti, anche recenti (12). Ma a meno di non volere paradossalmente accettare che questa memoria si estingua con la scomparsa fisica dei loro depositari, dobbiamo fare di tutto per tentare una risposta. Cerchiamo di dare una risposta pragmatica. Vale a dire dobbiamo accettare che la trasmissione di questa memoria, per imperfetta che possa essere, avvenga comunque anche a costo di perdere una serie di emozioni e di sfumature che potevano essere avvertite ed espresse soltanto da coloro che ne avevano direttamente vissuto la percezione. Meglio comunque una memoria spogliata inevitabilmente dei vissuti esistenziali che il rifiuto o il deperimento e l’estinzione della memoria. Sulla distanza del tempo, per le generazioni più giovani l’esperienza resistenziale non potrà non acquistare un timbro diverso, nella percezione comune, di quello vissuto da chi quella esperienza ha direttamente attraversato ( … ). La ricostruzione storica, che comunque non può essere soltanto il risultato di carte d’archivio che spesso non esistono neppure, il racconto di questi fatti e di queste esperienze da parte di chi non le ha direttamente vissute saranno il solo modo del quale le generazioni più giovani e ancor più quelle future disporranno per avere presente la memoria del 1943-45, Nulla potrà impedire che i giovani si diano strumenti di conoscenza diversi da quelli che noi conosciamo e che noi abbiamo contribuito a creare. Questo non significa però che le generazioni più anziane non abbiano più nulla da dire. Il ruolo dei resistenti o degli ex deportati o degli ex internati militari nella formazione della coscienza civile dei nostri popoW è stato fondamentale, come portatori di una testimonianza essenziale per la conservazione della memoria ma anche come protagonisti della trasmissione di valori, come quello della pace o il rispetto per i diritti umani. Oggi questo ruolo si è indubbiamente affievolito in una società più sensibile ad altri stimoli, ad altre esigenze, che anela a una memoria collettiva più accomodante, meno carica di messaggi impegnativi che sembrano ricordare in misura eccessiva una fase drammatica della storia dell’umanità. Come se oggi, sia pure su scala diversa e in forme per così dire miniaturizzate, non stessimo vivendo esperienze diffuse di guerre, di microconflittualità, di esasperazioni nazionalistiche e razziste; ma viviamo anche in un mondo meno impermeabile alla circolazione di merci e di persone, alla omologazione di idee e di comportamenti, un mondo tendenzialmente unificato, al di là di ogni barriera, dai messaggi di una comunicazione sempre più totale e totalizzante. Dobbiamo domandarci anche se il rifiuto di una certa me moria da parte delle generazioni più giovani sia da intendere soltanto come rigetto di una parte scomoda della nostra storia, la cui responsabifità non può ricadere interamente su di esse, o se nella trasmissione di quella memoria non vi siano stati momenti di enfatizzazione retorica, mitologica appunto, che alla realtà di esperienze e di realizzazioni hanno sovrapposto un immaginario completamente avulso dallo stato della situazione reale. Separare la patina retorica dalla testimonianza delle esperienze reali, e alla luce di questo criterio esaminare anche il lavoro di trasmissione della memoria che è stato compiuto nei decenni passati, è uno dei presupposti fondamentali per conservare credibilità al ricordo e ai valori di quelle esperienze. Del pari, è necessario impostare su basi scientificamente sicure la raccolta dei materiali relativi alla deportazione. Ricordiamo che non esiste a tutt’oggi una ricostruzione storica della deportazione dall’Italia. Dobbiamo essere grati a quanti come Lifiana Picciotto Fargion, Klaus Voigt e da ultimo Italo Tibaldi hanno contribuito a porre le basi di questa storia (13). Ricordiamo le molte memorie che possediamo e sulle quali Anna Bravo e Daniele Jalla hanno avviato un prezioso lavoro di sistemazione e di rielaborazione critica (14). Ma il vero lavoro storico è appena agli inizi. E poiché per il futuro sarà soprattutto il lavoro degli storici che consentirà di trasmettere alle generazioni future la memoria della Resistenza e della deportazione, sarà necessario per prima cosa assicurare la conservazione dei materiali documentari e delle testimonianze e la loro accessibilità. Il rigore nella ricostruzione storica non è soltanto una questione di metodo e di correttezza professionale: esso si rivela anche come una delle armi più efficaci nella lotta contro il revisionismo in tutte le sue gradazioni e in tutte le sue versioni. Non possiamo nasconderci che partiamo con un enorme ritardo e forse dovremmo anche chiederci perché le vicende della deportazione dall’Italia abbiano prodotto una grande ricchezza memorialistica, opere di carattere testimoniale e letterario di valore mondiale come quelle di Primo Levi, ma sinora un numero ben scarso di lavori con approccio più specificamente storico. Ciò deporrebbe a favore di una limitata risonanza dell’esperienza della deportazione, nel senso che essa non è entrata nel circuito degli interessi di una cerchia più larga di studiosi, è rimasta circoscritta afla cerchia di coloro che l’hanno personalmente vissuta e di un’area poco più larga di amici, conoscenti, simpatizzanti. Lo stesso scarso interesse che le istituzioni dello stato hanno mostrato per queste ed analoghe categorie di soggetti, gli ex internati militari, gli ex combattenti nella guerra di Spagna, gli stessi ex prigionieri di guerra, contribuisce a spiegare la relativa mancanza di attenzione da parte anche della critica storica. Il richiamo alla necessità di rinnovare la memoria dell’esperienza della deportazione non vuole avere certo un sapore corporativo. Esso nasce dall’esigenza di richiamare i valori che sono stati alla sua origine e di rievocare l’operato delle minoranze della Resistenza. E mancato soprattutto nello sforzo di tenere vivi questi valori come costitutivi dell’identità democratica della nostra repubblica l’apporto delle istituzioni scolastiche ed educative. Questo è sicuramente vero per l’Italia; ma è vero anche per paesi nei quali istituzioni scientifiche hanno operato in maniera molto più intensa che in Italia senza superare però l’isolamento dall’opinione pubblica e senza provocare perciò una risonanza proporzionata alla qualità del lavoro svolto. Anche qui, cioè, è mancata la mediazione conoscitiva e divulgativa senza la quale il lavoro scientifico rimane circoscritto non solo nella fase della sua elaborazione, come è inevitabile che sia, ma anche nella divulgazione dei suoi esiti ad una cerchia molto ristretta di persone.

Bisogna fare appello al lavoro della scuola e delle istituzioni educative ad ogni livello come momento centrale di una strategia della memoria. Listituzione scolastica è l’unica che può assicurare istituzionalmente una conoscenza diffusa della storia contemporanea. Non si tratta di fare appello ad alcun indottrinamento: su questo bisogna essere estremamente espliciti. Ma la conoscenza della nostra storia ormai non più recentissima, e della storia d’Europa nel cui contesto soltanto gli sviluppi dell’Italia sono comprensibili, deve diventare uno dei punti di gravità dell’insegnamento della storia contemporanea. Questo non presuppone un modo unico di rappresentare la storia contemporanea – proprio il convegno di Arezzo dello scorso anno sulla memoria dei crimini nazisti ha dato la misura della complessità e della problematicità con cui si affrontano e si confrontano nell’universo delle singole nazioni, o addirittura delle singole comunità locali, le molteplici versioni di uno stesso episodio visto da angolature politiche e umane diverse. La conoscenza storica non può non essere una conoscenza critica: essa è inquietante ed entra a fare parte della costruzione di una coscienza civile proprio in quanto espressione critica, esercizio e sollecitazione all’esercizio della ragione critica. La conoscenza storica diventa antidoto contro il conformismo e i processi di omologazione delle coscienze proprio per la costante irrequietezza critica che la spinge a rinnovarsi continuamente nel confronto con le fonti e con l’aggiornamento del lavoro interpretativo. Non esiste una conoscenza che sia data una volta per sempre. La conoscenza storica è strumento essenziale per ogni coscienza civile proprio in quanto conoscenza critica. La conoscenza storica non è tutto, ma da essa non si può prescindere nella formazione di una coscienza civile. Si tratta di un problema che non riguarda soltanto la percezione critica del passato, esso non è meno importante sotto il profilo della lettura dei fatti contemporanei e dei comportamenti da assumere di fronte ad essi. La conoscenza critica del passato non implica automaticamente che si possano trasferire nel presente valutazioni nate con riferimento ad altri contesti o che si possano stabilire sempre e dappertutto facili analogie. Essa però è un formidabile strumento analiticci ed interpretativo perché acuisce la sensibilità e la reattività di fronte a fenomeni anche del presente. Non saremmo così reattivi di fronte ai ripetuti episodi di rinnovato razzismo se non fossimo avvertiti di quali conseguenze ha avuto per l’Europa il razzismo dei regimi fascisti; non saremmo così reattivi di fronte al divampare di nuove pulizie etniche se non fossimo avvertiti di quali lutti e di quali conseguenze ha avuto il tentativo di imporTe il Nuovo Ordine Europeo di marca fascista e nazista. Se è vero che una memoria collettiva è parte dell’identità di una nazione e di una società, è cioè uno dei fondamenti di un patto collettivo nella misura in cui ci si riconosce in una storia comune e come tale percepita, non c’è dubbio che la memoria della Resistenza e di ciò che ha significato il rifiuto del progetto di Nuovo Ordine deve restare uno dei fondamenti della nostra convivenza. Una convivenza fatta di eguaglianza e di rispetto delle particolarità nazionali e delle tradizioni culturali delle parti componenti, non per riprodurre nuovi compartimenti stagni, ma per alimentare quell’interscambio politico e culturale senza il quale il rispetto reciproco risulta soltanto apparente e si risolve nella creazione di nuove chiusure autarchiche.

Intervento il 10 marzo 1995 all’XI Congresso nazionale dell’Aned a Prato.
(1) facciamo riferimento all’edizione italiana di R VIDAL-NAQUET. Gli assassini della memoria. Roma. Editori Riuniti. 1993.
(2) si v. al riguardo le considerazioni generali nell’articolo di PHILIPPE VIDELIER. De la collaboration au “révisionnisme”. A peine masqués, s’avancent lesfalsificateurs du passé, in “Le Monde Diplomatique”, gennaio 1994, pp. 16-17. Per uno sguardo su diversi casi nazionali si v. anche i saggi di Politiche della memoria. Roma. Manifestolibri, 1993, con contributi di Calchi Novati, Canfora, Collotti, Flores, Gallerano, Passerini.
(3) dal dossier Paul Touvier, un collaborateur dans l’Histoire, in “Le Monde”, 17 marzo 1994.
(4) estensibili a un piano più generale per la situazione austriaca appaiono le considerazioni svolte nell’intervento di K. STUHLPFARRER. La Risiera di S. Sabba e la memoria collettiva austriaca, in “Qualestoria”, dicembre 1994, pp. 137-142.
(5) a ciò doveva servire tra l’altro il cosiddetto documento Lachout su cui si v. i contributi di F. Freund e B. Bailer-Galanda nel volume a cura del Dokurnentationsarchiv des ósterreichischen Widerstandes e del Bundesministerium fúr Unterricht und Kunst Amoklauf gegen die Wirklichkeit. NS-Verbrechen und “revisionistische” Geschichtsschreibung. Wien. 1991; tutto il volume è una delle più puntuali confutazioni delle tesi revisioniste e negazioníste.
(6) si v. W. SOFSKY. L’ordine del terrore. Bari. Laterza. 1995.
(7) cfr. G. J. HORWITZ. All’ombra della’morte. La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen. Padova. Marsilio. 1994.
(8) ho fatto riferimento nel testo ai lavori della commissione di esperti, della quale ho fatto parte, che nel marzo del 1995 ha presentato le sue conclusioni e le sue proposte al Ministero federale austriaco per l’istruzíone e le arti, che ne aveva promosso l’ínsediamento.
(9) nell’intervento di A. GROSSER. Du bon usage de la memoire, nel fase. Juger sous Vichy della rivista “Le genre humain”, novembre 1994, pp. 107-117. E in precedenza dello stesso Grosser si v. anche Le crìme et la mémoire. Paris. Flammarion. 1989.
(10) per la vicenda e la problematica al riguardo si v. C.S. CAPOGRECO. Ferramontí. La vita e gli uomini del più grande campo d’internamento fascista (1940-1945). Firenze. Giuntina. 1987.
(11) sull’argomento in generale rinvio al mio contributo sulla Repressione italiana nei Balcani in corso di pubblicazione nei materiali del convegno di Arezzo sui crimini nazisti (presso l’editore Giunti).
(12) un cospicuo esempio nella riflessione svolta in forma di dialogo tra Jorge Semprun e Alain Finkielkraut sotto il tìtolo Comment transmettre l’inimaginable? ne “L’Express”, 26 gennaio 1995, pp. 46-49.
(13) facciamo riferimento a: L. PICCIOTTO FARGION. Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945). Milano. Mursia. 1991; K. VOIGT Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945. Firenze. La Nuova Italia. 1993: con questo titolo è uscito intanto il primo dei due volumi dei quali si compone l’opera; il secondo volume, che affronta specificamente il periodo posteriore all’armístizio del 1943 è in corso di traduzione; I. TIBALDI. Compagni di viaggio. Dall’Italia ai Lager nazisti. I ,,trasporti” dei deportati 1943-1945. Milano. Angeli. 1994 (Consiglio regionale del Piemonte – Aned).
(14) A. BRAVO – D. JALLA. Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993. Milano. Angeli. 1994 (Consiglio regionale del Piemonte – Aned).

ITALO TIBALDI – Devo dire al prof. Collotti soltanto un ringraziamento piccino piccino, e una frase sola: aiutaci a difendere la storia dalla cattiva memoria. Grazie. Noi ci troveremo quest’anno, come sempre, in un calendario molto denso di manifestazioni; saremo alla Risiera il 26 marzo, ad Auschwitz il 4 e 7 aprile, a Buchenwald il 9 aprile, a Sachsenhausen il 22 aprile, a Ravensbrück il 23, e analogamente a Flossenburg, a Bolzano il 30 aprile, a Dachau il 30, a Gusen il 5 maggio, con un simpaticissimo incontro con i liberatori americani, a Stein il 6 maggio, a Ebensee il 6 maggio con rinnovato incontro con gli amici di Ebensee e con gli americani che ci hanno liberato allora, a Mauthausen il 7 maggio, a Fossoli il 9 luglio. Ma per fare che cosa? Per ricordare quelli che sono là, e allora noi li ricordiamo adesso tutti assieme, tutti questi nostri compagni che abbiamo lasciato là. Uniamoci in un momento di raccoglimento per tutti questi nostri compagni che abbiamo lasciato. L’orrore dello sterminio nazista non conosce confini, quei luoghi appartengono all’umanità, di noi tutti. Adesso la parola a Paola Rosati, Assessore alla Cultura del Comune di Carmignano che ci ospita.

PAOLA ROSATI – lo porto il saluto del Comune di Carmignano, del Sindaco, della Giunta e di tutta la cittadinanza che è onorata di ospitare questo convegno. Devo dire di essere anche molto emozionata a vedere tanta partecipazione ed ascoltare questi interventi come quello di prima del prof. Collotti che toccando i tasti della memoria sì toccano dei tasti delicati e importanti. E credo che quando certi avvenimenti toccano una parte dell’umanità le tracce è difficile che si perdano. Non voglio prendere il tempo ad altri interventi che penso siano veramente importanti e determinanti, e veramente vi ringrazio per aver scelto il Comune di Carmignano insieme a Prato per questo convegno e buon proseguimento dei lavori, e grazie di nuovo.