Una ricerca psicologica sul vissuto di 70 ex deportati nei Kz. Una attenta analisi delle conseguenze psicologiche della deportazione, dei ricordi, dei sogni. Un libro che colma un vuoto nel panorama editoriale, indirizzato allo studioso e al superstite.

Negli ultimi mesi del 1983 é uscito, nelle edizioni ANED Mondadori, un volume del Dr. Massimo Martini che nel panorama italiano delle pubblicazioni sui campi di concentramento nazisti – é destinato a ricoprire un posto importante. Si tratta dell’analisi dei risultati di una ricerca psicologica, promossa dall’ANED , dalla Comunità Israelitica di Milano e dall’Istituto di Psicologia della Facoltà di Medicina dell’Università di Milano, su un gruppo di 70 ex deportati, uomini e donne, che accettarono di ricordare le loro personali vicende in quegli autentici anni di piombo che furono, per molti italiani, il 1943, il 1944 e il 1945. Come premette l’Autore l’obiettivo era “di esaminare, a quasi quarant’anni dalla deportazione, il vissuto di persone che hanno sofferto l’esperienza concentrazionaria” (p. 23). Tramite una serie di incontri di gruppo e interviste individuali, undici donne e cinquantanove uomini, con svariate collocazioni socioeconomiche e di età diversa – il cui primo impatto con il KZ andava dagli 11 ai 42 anni di età, pur essendosi verificato mediamente fra i 20 e i 30 anni – hanno affrontato diversi argomenti legati alta loro esperienza, ma con particolare riguardo a questi tre terni: (a) che cosa aveva determinato la loro sopravvivenza; (b) il senso di diversità nei confronti di coloro che non avevano fatto l’esperienza del Lager; e (c) fattori di maggiore importanza sia nel corso dell’esperienza concentrazionaria che negli anni postbellici (p. 33). Tramite tecniche di analisi del contenuto sono state enucleate 60 parole dal contesto del materiale raccolto, la cui frequenza nei colloqui gruppo e individuali é messa in evidenza alla Tab. 2 (pp. 178-179). Da queste parole chiave sono state tratte 15 unità di codifica o di informazione che sono apparse particolarmente significative, “per uno studio più approfondito delle dimensioni psicologiche dei sopravvissuti” come scrive l’Autore a p. 33. Sulla base di queste scelte sono state identificate quatto aree: l’area del KZ (cui corrispondono le parole-chiave paura/ansia, mangiare/fame, morte, shock); l’area della sopravvivenza (solidarietà, fortuna, sopravvivenza, fede), l’area delle conseguenze (odio, numero di matricola, diversità) e l’area degli affetti (ricordare, ritornare, mamma, fuga). Per ciascuna di queste 15 parole-chiave vi é una breve traduzione in chiave psicologica, allo scopo di inquadrare il problema, cui fa seguito una serie di esempi di utilizzo di quella data parola da parte degli intervistati, sotto forma di una o più frasi. Qua e là sono intercalate, fra le citazioni, delucidazioni ulteriori, in maniera che il lettore possa rendersi conto, il meglio possibile, degli stati d’animo dei superstiti. In fondo ad ogni paragrafo vi sono brevi note esplicative e bibliografiche. Alta fine di questa carrellata vi é un capitolo sui ricordi e i sogni degli ex deportati, quasi una piccola antologia di situazioni emblematiche, come si può desumere da alcuni titoli: la selezione; la fortuna; suicidio; solidarietà; sopravvivere; sdoppiamento; organizzazione; libertà; morte; tatuaggio; la lingua tedesca… Le parti di questo libro sono assai bene articolate. All’inizio vi é un’avvertenza a cura dell’ANED e una Prefazione del Prof. Marcello Cesabianchi, Direttore dell’Istituto di Psicologia di Milano. Seguono le parti che si riferiscono alla ricerca, con una utile nota metodologica relativa alla maniera con cui il materiale raccolto é stato analizzato e classificato. Il lavoro é completato da una Appendice con diverse tabelle, un saggio di Primo Levi su “Il Lager e la memoria” e da un indice degli Autori citati. Che cosa si può dire, a mo’ di commento? Innanzitutto, e non é proprio un’affermazione retorica, che questo libro di Massimo Martini colma un vuoto, tanto più grande in quanto, anche se siamo alle soglie del 40 ennale della liberazione dei campi, ricerche di questo tipo in Italia sembra proprio che non si sia mai stati capaci di farne. Quali le cause effettive non è dato sapere, anche se si possono immaginare: la scarsa forza contrattuale degli ex deportati, il distacco fra teoria e pratica degli studiosi di scienze umane, il fatto che la deportazione nei Lager nazisti non ha mai interessato nessuno, in Italia, figurarsi una ricerca sui postumi a livello psicologico! In secondo luogo questa indagine ha il pregio di riuscire a coinvolgere sia lo studioso che il superstite. Il primo, perché l’Autore ha svolto in maniera tecnicamente corretta la sua analisi, come giustamente fa osservare il Prof. CesaBianchi nella Prefazione; il secondo perché il materiale è esposto non in forma arida e schematica, ma in maniera piana e scorrevole, così che il lettore é attirato e stimolato. Riuscire a raggiungere questo equilibrio fra teoria e pratica, fra tecnica ed esposizione non é davvero cosa da poco, e ne dobbiamo essere grati all’Autore. In un’epoca come la nostra, in cui si tende a vivere il presente in forma esasperata e febbrile – forse per il timore di ciò che ci può riservare il futuro – una pubblicazione come questa, che ci riporta al “lontano” passato di 40 anni fa, costituisce una novità. Anche se ci fa provare le paure, le ansie, le illusioni, le ferite, le angosce del mondo di ieri, della nostra infanzia o della nostra giovinezza, é una esperienza che – confrontata con il vuoto esistenziale del mondo odierno – vale la pena di fare, perché ci trasmette un messaggio unico, vero, autentico: quello di coloro che ieri si sono sacrificati perché oggi potessimo sentirci liberi.

Andrea Devoto

Massimo Martini: il trauma della deportazione, Milano, ANED-Mondadori, 1983

 

 

Bibliografia per un orrore

 

Andrea Devoto, che si occupa della deportazione ormai da molti anni aveva pubblicato nel lontano 1964 una “Bibliografia dell’oppressione nazista fino al 1962”, completa ora l’opera col volume “L’oppressione nazista – Considerazioni e Bibliografia 1963-1981”.

La bibliografia comprende 1704 pubblicazioni, delle quali 279 edite in Italia, le altre di quasi tutti i paesi europei, oltre a Israele, Stati Uniti , Australia, Brasile, Argentina, Sud Africa. Le opere sono suddivise in 5 grandi capitoli, dei quali il primo comprende i lavori sull’oppressione nazista in generale, il secondo la deportazione, con sottocapitoli che raccolgono vari aspetti delta vita concentrazionaria (come il lavoro forzato o la religione e i religiosi) e le opere dedicate ai singoli campi. Un capitolo a parte é dedicato allo sterminio e comprende il progetto eutanasia, tutte le persecuzioni contro gli ebrei e contro gli zingari con capitoli speciali per i campi di annientamento (Belsen Sobilov, Treblinka). Gli ultimi due capitoli comprendono la risposta dei deportati e perseguitati (psicologia dei deportati, resistenza, rivolte, evasioni) e le conseguenze cioè i postumi medici, psicologici, psicosomatici e psichiatrici dell’internamento, la sindrome del sopravvissuto, le ripercussioni sulla II generazione. Questa bibliografia, risultato di anni di paziente e intelligente ricerca, sarà uno strumento insostituibile per chi in avvenire vorrà compiere degli studi sui singoli aspetti della deportazione. Studi che lo stesso Devoto nelle considerazioni qui pubblicate considera indispensabili e urgenti, dato che ormai il tempo passa, gli ex deportati un po’ alla volta muoiono, la gente dimentica, e qua e là sorgono movimenti o partiti neonazisti, e ci sono persino dei cosiddetti “storici” disposti a negare la realtà dei Lager. “L’universo concentrazionario nazista non riguarda solo i milioni che vi hanno lascito la vita e i pochi che sono ritornati. Riguarda tutti noi, giovani e vecchi anziani e meno anziani. E’ il nostro mondo che ha creato i campi quali furono ed é il nostro mondo che deve accettare il principio che ciò é accaduto una volta può tornare ad accadere. Ecco perché mi sembra giusto insistere sul concetto della responsabilità collettiva e individuale. Devoto qui insiste sul fatto che il campo di concentramento non é nato dal nulla né dal delirio di un sadico, né da un imprevedibile cataclisma abbattutosi a ciel sereno sulla Germania. Perciò chi non si é opposto al nazismo alle origini, chi non l’ha avversato quando già ne erano note le teorie aberranti, chi – in Germania e fuori della Germania – non ha creduto alle notizie sui Lager (già pubblicate ben prima della guerra), é corresponsabile di quanto é avvenuto e chi oggi si limita a dire che é una storia vecchia che ormai non interessa più a nessuno, e non vede il rischio, del neonazismo o dell’odio razziale sarà responsabile di quanto ancora può accadere. “Fare una continua opera di informazione su ciò che é stato da una parte e dall’altra mettere in luce quello che oggi si tenta di fare” é quindi un dovere morale.”Mi augurerei che si iniziasse anche se con decenni di ritardo, una azione multidisciplinare sistematica rivolta a fare conoscere, il più capillarmente possibile, gli scopi del nazismo – di ieri e di tutti i tempi – attraverso l’universo concentrazionario, detto in altre parole, i morti possono attendere ancora, i vivi no”.

A. Buffulini

Andrea Devoto – L’oppressione nazista – Considerazioni e bibliografia 1963-1981 Leos, Olschki Editore 1983

 

 

 

Buchenwald, gli altri e io

 

Longhetto arriva al campo di Buchenwald, ci rimane quasi un anno e lo racconta in questo “Buchenwald, gli altri e io” scritto, battuto a macchina e ciclostilato dall’autore, ma non “riveduto e corretto” perchè “ne avrei perduto l’impeto”, come spiega nella breve presentazione.

Di Buchenwald abbiamo- in tre grandi capitoli – tre quadri diversi. Anzitutto l’interregno delta “quarantena” quando tra interminabili chiacchierate su episodi della vita partigiana, conferenze scientifiche, partite a carte, si formano nuove amicizie, anzitutto con gli jugoslavi, ma anche con russi ed ebrei polacchi e ungheresi. Longhetto non esita a definirla una “splendida avventura di contatti umani, di uomini che si scoprono fratelli, seppur provenienti da lontanissime contrade”. Viene poi il lungo periodo nel campo principale di Buchenwald col passaggio nei diversi commando di lavoro, dalla cava, al trasporto delle pietre, al rullo compressore, ai lavori di muratura allo sgombero delle macerie sempre col terrore del “transport”. Invece del trasporto, in seguito a una ferita viene il trasferimento al “Piccolo campo”, l’anticamera del crematorio, l’orrore degli orrori, il girone più incredibile dell’Inferno di Buchenwald. (L’Inferno di Dante – dice Longhetto – é letteratura da educande: Dante non era stato nel Piccolo campo di Buchenwald”). Ma qui, nel Piccolo campo, Longhetto trova modo di mettersi a lavorare come aiutante di un medico francese e l’impegno di aiutare gli altri lo salva dalla disperazione. Quel periodo passato fra flemmoni, cancrene, piaghe impietosamente descritte anche se amorevolmente curate, gli dà la soddisfazione di vivere ancora da uomo in un mondo fatto apposta per trasformare i deportati in bestie terrorizzate. “Mamma, dammi la forza di morire con dignità” é l’invocazione che gli viene alle labbra quando con l’avvicinarsi della fine é stata chiusa la piccola infermeria della baracca 61 e sono iniziati i trasporti e le esecuzioni di massa. Ma Longhetto rimane nel campo e da 1ì vede arrivare i carri armati americani. Chiuso il libro resta in noi l’angoscia e soprattutto il tanfo del piccolo campo di Buchenwald un “fetore denso e impenetrabile come una tavola”. Restano in mente momenti, episodi, personaggi di quell’anno di vita. Ma più di tutto resta l’immagine di lui, Longhetto, burbero e socievole, ingenuo e diffidente, sempre imprevedibile. Ne do solo un piccolo esempio. Per la Pasqua alcuni italiani desiderano fare la comunione “Ho cercato di accontentarli e mi sono dato da fare. Joseph il mio compagno ebreo cecoslovacco mi ha messo in contatto con un prete cattolico suo connazionale, invero pieno di paura, ma col quale ci siamo accordati e ieri si sono confessati in ventuno. Stamattina, ripristinando un rituale della chiesa alle origini, da un cartoccio che ho portato in giro, ognuno si è preso un cubetto di pane che il prete aveva benedetto. Mentre offrivo il cartoccio dando le necessarie istruzioni, coglievo sui loro volti, certe espressioni di serenità, di pace, di speranza e di assoluta fede; erano pervasi di una luce che qui non avevano più da molto tempo, e ne sono rimasto commosso e nel mio intimo veramente contento. E loro hanno avuto la loro eucarestia. Ma, porca miseria porca; con questa scusa io, oggi che é festa, sono rimasto senza il mio pane. Perché quello che il prete aveva benedetto, non era il suo, era la mia razione di oggi. Io che alle cose di chiesa non ci credo.

A.B. Giovanni Longhetto

Buchenwald gli altri e io – Edizione numerata – Aned Verona e presso l’autore

 

 

 

 

 

Il segreto della colpa

 

Lo so, la storia non tiene conto dei se e dei ma. Eppure, ogni tanto, mi domando che cosa sarebbe stato dei miei genitori, della mia sorellina se, nel 1938, subito dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche in Italia, un compitissimo diplomatico non m’avesse detto: “mi dispiace, signore, ma le quote d’immigrazione nel nostro paese sono esaurite per i prossimi tre anni”. Le quote di quel nobilissimo paese ci furono precluse. Restarono aperte solo le quote di Auschwitz, dove essi emigrarono senza ritorno.

In che misura quel paese ed altri furono responsabili del destino di milioni di ebrei, di antifascisti, di gente qualunque colpevole di non essere gradita a messer Adolfo Hitler? C’é stata, a fronte dei crimini commessi dai nazisti, anche una responsabilità per mancato soccorso da parte di altre nazioni? É una domanda terribile, perché rivanga risentimenti sopiti, perché scava nella coscienza degli uomini, di quegli uomini ai quali si può rivolgere una domanda precisa: “ma tu che cosa hai fatto per impedire il massacro?” La risposta, in genere, suona così: ma io non sapevo e, quando ho saputo, oramai era troppo tardi. Non solo, ma quello che ho saputo dopo oltrepassava di gran lunga ogni più fervida immaginazione. Bella consolazione! Dunque, nel 1933, quando Hitler cominciò a far sparire dalla circolazione alcune decine di migliaia di avversari politici si disse – e con convinzione – che si trattava di una faccenda interna della Germania nazista. Poi quando, nel 1938, dopo la “Notte dei cristalli” si capì che al di là- direi molto al di là – del loro endemico antisemitismo, che aveva profonde radici in Germania, i nazisti avrebbero distrutto non solo civilmente, ma fisicamente gli ebrei e che la stessa sorte sarebbe toccata a tutti gli altri Untermenschen, cioè quelli che essi consideravano dei sottouomini, ci furono brividi di raccapriccio, volarono parole alate in difesa della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma nient’altro. Ed i nazisti non se ne dettero per inteso. Essi sapevano che si trattava di proteste accademiche e tirarono dritto per la loro strada. Poi venne la guerra e con la guerra vennero i rastrellamenti indiscriminati in tutti i paesi occupati. Gente d’ogni ceto, d’ogni età, d’ogni condizione scompariva senza lasciar traccia di sé. Il mondo stava a guardare, inerte. Per quei milioni di uomini, donne e bambini si “temeva il peggio” ma non fu fatto nulla, dico assolutamente nulla, per alzare almeno un segnale contro lo scempio. Sarebbe bastato dichiarare solennemente e pubblicamente che se, ebrei e non ebrei, erano considerati dei nemici, perché stavano dall’altra parte di una trincea, fosse essa fisica o solo ideologica, ebbene il meno che si potesse pretendere era che ad essi fossero applicate le leggi di guerra, cioè la Convenzione Internazionale di Ginevra sul trattamento dei prigionieri guerra. E invece: niente. Di questo e d’altro riferisce, con meticolosa obiettività uno storico inglese, Walter Laqueur, nel suo documentatissimo libro “Il terribile segreto” che Daniel Vogelmann ha tradotto e pubblica ora nella collana dedicata alta memoria di suo padre Schulim – mio carissimo compagno di deportazione ad Auschwitz – sotto le sigle dell’Editrice Giuntina di Firenze. Avevo letto questo libro nell’edizione originale, alcuni anni fa e ricordo la rabbia che mi prese scorrendo quelle pagine implacabili. Ho provato gli stessi sentimenti rileggendolo ora, nella versione italiana. Qui, sul banco degli accusati perché Laqueur non lesina precise imputazioni a nessuno di loro che sono citati nel suo libro, passa il Gotha della storia moderna. Ci sono tutti: governi e governanti, servizi segreti, resistenti, belligeranti e neutrali, personaggi di primissimo piano, altri secondari o sconosciuti, fascisti, nazisti pentiti, il Vaticano, la Croce Rossa Internazionale. Ognuno vi recita la sua brava parte di incredulità, di abulia, di generosità, di pusillanimità. Ognuno può vergognarsi di quello che ha fatto e, soprattutto, di quello che non ha fatto. Perché dietro quelle decisioni mancate, dietro quei dubbi, quegli aiuti negati, quelle reticenze, quelle manovre personali e di gruppo s’é giocato il destino di sei milioni di ebrei. Certo, per gli Stati Uniti d’America, per l’Inghilterra, per l’Unione Sovietica i problemi della guerra, erano problemi prioritari. Non c’era tempo, né modo e forse neppure voglia di pensare ai milioni di essere umani che languivano nei Lager e sparivano nelle camere a gas, nelle fosse comuni e nei forni crematori. Non c’era tempo né modo di verificare le notizie incredibili che filtravano, con ritmo crescente e da fonti sempre più attendibili, da quei luoghi misteriosi dove si stava perfezionando il più terribile ed inaudito dei delitti. Ai nazisti fu lanciato – é vero – un ammonimento per cui essi avrebbero dovuto rispondere davanti al tribunale dei loro crimini. Ma nessuno sapeva esattamente di quali crimini si trattasse e quale fosse la loro dimensione. La guerra era agli sgoccioli ed i nazisti, per parte loro, erano oramai talmente compromessi che la minaccia di una punizione li lasciava del tutto indifferenti. Per di più erano ancora convinti di farcela, cioè di vincere la guerra e, in tal caso, sarebbero stati essi a dettar legge, la loro legge. E guai a chi si sarebbe trovato dalla parte dei vinti! Citare gli innumerevoli episodi, i documenti, le situazioni, i protagonisti di questo libro di Walter Laqueur é impossibile. Questo libro bisogna leggerlo. Leggerlo attentamente e meditarlo, per porsi la domanda, oziosa finché volete: che cosa sarebbe stato se, in qualche modo, coloro che stavano alla finestra ad assistere alla persecuzione e poi allo sterminio degli ebrei e degli altri, avessero almeno tentato con un’iniziativa tempestiva ed adeguata di evitare ciò che, poi, puntualmente é avvenuto? Dopo aver letto questo libro, denso di amare verità, non é possibile ignorare lo stato d’animo degli ebrei, specie dei superstiti dei Lager e dei familiari dei caduti, di fronte alla situazione odierna quando c’é ancora chi vuole render loro la vita difficile, se non impossibile, quando dietro l’antisemitismo viscerale, idiota, perverso, trapelano ben altri interessi. Si comincia sempre con gli ebrei, poi tocca agli altri, secondo le circostanze, secondo i luoghi, secondo i falsi profeti ed i capi carismatici, quegli stessi capi che fino a ieri hanno intrallazzato con tutti e perfino con coloro contro i quali aizzano oggi le loro folle. Ma tutto questo viene dimenticato presto, troppo presto. Dietro le grandi crociate per “ripulire il mondo” da qualcuno vi sono spesso vicende sconcertanti. Walter Laqueur ne cita alcune. Ma si potrebbero scrivere molti altri libri sui personaggi che tengono la prima pagina dei giornali ed invadono gli schermi dei televisori, seminando morte e morti, nell’illusione di conquistarsi un posto nella storia. Sì, nella storia del disonore dell’umanità.

Teo Ducci

Il terribile segreto, di Walter Laqueur – Giuntina editrice Firenze