Dachau, il Lager dei sacerdoti: ne passarono di là oltre 2700

Sono particolarmente grato all’Amministrazione comunale di Crema, al comitato che ha organizzato questo convegno, all’amico prof. Corada, presidente della Provincia di Cremona che ne è stato promotore, alle autorità religiose e a tutti coloro, associazioni e operatori che hanno cosi voluto ricordare uno dei più drammatici momenti della nostra storia di uomini. Un saluto e un abbraccio affettuoso va al carissimo don Manziana con H quale molti di noi hanno diviso l’esperienza dei Lager nazisti. La mia testimonianza vuol riprendere, in qualche modo, quegli aspetti positivi, (erano pochi e non certo evidenti), che hanno contribuito a debellare il dominio dell’odio, della tortura, della morte organizzata; mi riferisco ai valori di libertà, solidarietà, speranza e della fede. 
E’ sempre con particolare commozione che noi deportati sopravvissuti dei Lager nazisti ci accingiamo a parlare delle nostre esperienze. Ed è anche con commozione che ricordiamo gli amici che erano con noi e che ci hanno lasciato – molti di essi soltanto pochi giorni prima di essere liberati. In altra occasione ho messo in evidenza quanta crudeltà venisse applicata contro di noi da parte degli aguzzini SS e Kapò; quanto odio essi raccoglievano quando si accanivano su prigionieri inermi, con esecuzioni sommarie, punizioni, selezioni, violenze anche psicologiche tese a spersonalizzare, riducendoli a larve non più in grado di ragionare: uomini colpevoli solo di aver dimostrato umana solidarietà verso propri simili oppressi oppure di aver desiderato la libertà mettendosi contro ogni sopruso. Inoltre di non aver accettato che la dignità e la coerenza nei comportamenti sul piano umano venissero sopraffatti da costrizioni e violenze. Ed è proprio su questo aspetto che vorrei incentrare la mia testimonianza, riprendendo anche alcuni episodi e fatti che, pur nella loro ovvietà, in quei terribili momenti, parvero a noi esempi determinanti. Esempi significativi che hanno mostrato come l’uomo, pur scaraventato in un inenarrabile inferno, era comunque in grado di far emergere, a volte inconsciamente e a volte volutamente, la parte buona, la parte più sensibile al dolore degli altri; quella parte che era nascosta dentro di noi e quindi invisibile agli aguzzini sempre in cerca di motivazioni che potessero favorire l’applicazione di punizioni. Riuscire ad affermare sentimenti di umanità, di solidarietà, di sfida e anche di amore in un luogo dove tutto questo era proibito faceva sentire tutti noi soddisfatti perché coscienti di non essere ancora stati ghermiti dall’ingranaggio di insensibilità e indifferenza che purtroppo aveva un suo spazio nei Lager. lo ero rinchiuso, con i miei due carissimi amici Davide Franco e Mario Colli, con i quali ho diviso tutta la prigionia, nella baracca della quarantena n. 24. La quarantena, nel Lager, era l’esatto contrario di ciò che di norma si intende – non luogo di riposo o di cura, bensì luogo di adattamento alla dura legge del campo di sterminio – luogo quindi di selezione fisica dove si dormiva in 5 ogni due posti sul duro letto a castello; dove gli appelli, in piedi, nudi, sull’attenti, nel cortiletto della baracca, duravano quattro o cinque ore; dove le razioni, del già misero vitto, erano ridotte e dove le punizioni, la fame, le malattie e le varie forme di violenza psicofisica stroncavano i deboli e i malati. Sopravvivevano i più resistenti e cioè coloro che sarebbero poi stati organizzati nei commandos di lavoro. Si trattava di sopravvivere a tutto questo; sopravvivere alle mille malattìe che dilagavano tra i deportati, alle punizioni, al degrado morale presente in varie forme, alle umiliazioni, allo scoraggiamento specie nei momenti in cui anche la fede religiosa veniva meno. Ebbene, nonostante tutto questo, per molti di noi rompere quel muro di violenza e di crudeltà diventava un modo per sfidare la paura, per verificare se eravamo ancora vivi dentro. Ecco, quindi, gli esaltanti interventi dei sacerdoti della baracca 26, confinante con la baracca 24, la mia baracca, i quali attraverso fessure ricavate nascostamente riuscivano a comunicare con noi nel tentativo di trasmetterci coraggio e speranza. Ecco anche quegli altri comportamenti che hanno coinvolto noi stessi rendendoci protagonisti di azioni di sfida verso i Kapò e gli stessi SS. Erano atti che tendevano a dimostrare, più a noi stessi che ad altri, che anche in quelle condizioni non eravamo dei vinti o degli umiliati o dei succubi del sistema concentrazionario; questi atti anche semplici e compiuti di nascosto costituivano una barriera di distinzione verso i carnefici che ci volevano annientati in ogni senso. E’ questa una occasione per ricordare anche la figura del domenicano padre Girotti morto il giorno di Pasqua del 1945 (I° aprile). Padre Girotti faceva parte di quella grande famigììa di religiosi (erano più di mille). Certamente padre Girotti, per come era conosciuto dai sacerdoti italiani, da don Dalmasso, da don Manziana, da don Fortin e da altri, da me conosciuti nel Lager durante e dopo la prigionia, avrà contribuito pure lui a far sì che attraverso quei fori giungessero a noi parole di speranza, che passassero quelle.briciole di pane dal significato duplice, di Sacramento e di possibile sopravvivenza per chi le riceveva. E’ stata una Comunione che data nella situazione spaventosa come quella descritta ha certamente creato conforto nei confronti di tutte e due le parti divise dalla parete. Il nostro intento era poi dì ritrovare, in quelle persone che non potevamo vedere, una voce che capisse la nostra lingua. Ricordo don Fortin in quei momenti, e anche dopo la liberazione quando, insieme ai sacerdoti che già ho citato, continuarono l’opera di solidarietà, di conforto e di collaborazione, più che mai necessarie per riportare alla serenità e alla vita migliaia di poveri esseri che scampati alla dura legge del Lager nazista avevano finalmente ritrovato la speranza di tornare a casa. Ma altri casi sono presenti nei miei ricordi. Nel momento in cui erano severamente puniti atti di solidarietà verso compagni malatì gravemente e in procinto di morire, oppure verso quei deportati che giunti allo stremo delle forze non riuscivano più a connettere e nemmeno a nutrirsi diventando così bersaglio vivente alla mercè di tutti, sorgeva spontanea, per molti di noi, una reazione dì rivalsa e di sfida. Era una reazione che ci dava la sensazione di essere vivi, e comunque uomini liberi, pur in quelle condizioni. Un episodio è per me indicativo di questa reazione contro la malvagità. Le ore di appello al freddo e alla pioggia davanti alla baracca iniziate alle 4 o alle 5 erano fatali per molti nostri compagni malati e sfiniti. All’appello bisognava rispondere al Kapò con il nostro numero di matricola in lingua tedesca e poi fare svariati esercizi fisici utili solo per ìl divertimento del Kapò, del graduato SS, e dei loro aiutanti. ( … ) All’appello poi molti si accasciavano e per questi, vi era il revier, l’infermeria, l’anticamera della morte, quella morte che proprio in infermeria subì Padre Girotti. Era uno spettacolo penoso. Io e l’amico Franco Davide, più anziano di me che avevo appena compiuto in quei giorni 18 anni, lui laureato in lettere e filosofia, eravamo in fila in attesa che terminasse l’appello. In mezzo a noi stava un compagno, non italiano, che sfinito, stava per cadere a terra. Improvvisamente ci guardammo e decidemmo di sorreggerlo per le braccia. Era solo l’inizio. Il gesto presupponeva anche la forza di poterlo sorreggere per tutta la durata dell’appello (alcune ore) e di poter dire, ad alta voce, i nostri numeri di matricola in tedesco compreso quello del compagno svenuto, al Kapò che controllava i presenti. Davide si assunse questo compito, rischioso, leggendo il numero sugli abiti che erano depositati in terra. Non ricordo quanto tempo passammo in quelle condizioni. Speravamo soltanto di farcela ed evitare così una dura punizione. L’appello finì, il nostro compagno lo portammo nella baracca. In quel momento io e Davide avemmo la sensazione di aver fatto qualcosa di buono. Prima di tutto di aver evitato che il nostro compagno andasse a morire assassinato, poi per aver sfidato con successo la dura legge del Lager, poi ancora per aver dimostrato a noi stessi che non eravamo dei vinti bensì eravamo rimasti uomini in grado di pensare e anche di rispondere, con rischio calcolato, alla malvagità che ci circondava. Penso di venire alla conclusione ricordando i momenti della liberazione. Con Franco Davide e Mario Colli, decidemmo di rimanere ancora a Dachau per collaborare, con gli Alleati, alle varie operazioni che dovevano consentire l’evacuazione dal campo degli italiani malati. Mi è vivo il ricordo della Solenne S. Messa di Requiem del venerdì 4 maggio ’45 per commemorare tutti i deceduti di Dachau. Erano oltre 20.000 persone, inginocchiate che per la prima volta potevano piangere di commozione, di felicità e di speranza; una scena indimenficabile. In quell’occasione mi sono avvicinato, come tutti, a don Fortin per confessarmi, prima di fare la Santa Comunione. Don Fortin mi disse all’incirca queste parole: “Non hai bisogno di confessarti Con le sofferenze di Dachau sei stato assolto da tutti i tuoi peccati”. Ricordo anche che nel blocco 26, nella piccola cappella riattata, tutte le domeniche gli amici don Fortin, don Manziana, don Dalmasso e altri, avevano organizzato per gli italiani una Santa Messa speciale. Sono stati momenti terribili che hanno lasciato traccia in tutti noi, ma, credo, una traccia positiva. Abbiamo imparato che si può convivere insieme persone e popoli diversi, che l’amicizia e la solidarietà hanno un valore immenso specie nei momenti più difficili, che la libertà vale qualsiasi sacrificio, che ogni esperienza, anche la più drammatica, contiene insegnamenti sia per chi l’ha subita sia per chi ci è vicino.